Un viaggio targato TRSG

Tiziana Pozzetti

20-10-2011  

Oltre le mura invalicabili

“Sorveglianza armata, limite invalicabile” recita il cartello che campeggia sul recinto che divide i detenuti della casa di reclusione di Opera dal resto del mondo. Eppure dalle porte blindate che costituiscono l'ingresso del carcere, se ne vedono passare di persone durante il corso della giornata. Guardie, avvocati, magistrati, educatori, insegnanti, giornalisti, psicologi, medici, membri dell'istituzione, volontari, parenti dei detenuti. Si direbbe che di vita ne transita parecchia attraverso quel “limite invalicabile”.

“Dagli anni ‘80 ad oggi” scrive Angelo Aparo (2009a), psicoterapeuta e psicologo nelle carceri da oltre 30 anni “l’apertura al mondo esterno è in continuo aumento. Crescono le attività espressive che permettono di allargare gli spazi mentali e affettivi del detenuto. In molti istituti sono oggi presenti numerosi corsi professionali, corsi scolastici, corsi di pittura, di teatro, di poesia. Il muro personale che il detenuto aggiungeva alle mura dell’istituzione per difendere un’identità cristallizzata, oggi, grazie a mille iniziative, comincia a cadere”.

Le mura invalicabili, quindi, non sono solo quelle atte a difendere gli uomini liberi dai reclusi, ma ci sono anche mura, altrettanto isolanti, che i detenuti erigono in difesa di se stessi. “Da chi ci si difende?” è la domanda che guida una proficua relazione con il detenuto e che punta ad una ricerca efficace delle condizioni che hanno portato alla devianza e di quelle che ne favoriscono il superamento.

 

Eccomi qua, con la mia corazza addosso
che appesantisce il mio cammino.

Dentro questa corazza le emozioni soffocano
sotto il peso dell’odio e del rancore.

È stato molto difficile indossarla.
In passato mi ha permesso di sopravvivere.
Oggi è difficile staccarla di dosso.

Vorrei essere aiutato a farlo.
Non è facile per me, non è facile per gli altri.

La corazza, 2006, Giulio Martino
(detenuto al momento dello scritto,
oggi uomo libero)

 

 

I luoghi dell'ingiustizia e della riabilitazione: vittima, carnefice e nuovi alleati

“Chi commette un reato crede di averne il diritto”, afferma Aparo (2008), “chi viola la legge si comporta e si sente come se sulla sua carta d’identità ci fosse scritto: segni particolari: la legge dello Stato non mi appartiene; i diritti che tutela non sono i miei. Spesso le prime violazioni delle norme e i primi abusi costituiscono un maldestro tentativo di ristabilire un equilibrio che si sente violato dalle persone di riferimento; spesso chi trasgredisce ricorre a una “legge privata” istituita nel tentativo di recuperare il senso della legge pubblica, ma non ricorda l’operazione di sostituzione che lui stesso ha compiuto, né che le prime trasgressioni corrispondevano spesso a un desiderio di giustizia, per quanto arbitrariamente inteso”.

“… i primi passi nella trasgressione delle regole costituiscono altrettanti tentativi di rivolgere ai genitori (alle prime autorità) delle domande finalizzate a recuperare la credibilità di un rapporto che ha già visto nascere i primi conflitti e ha subito le prime incrinature” (Aparo, 1998).

Sull'onda del rancore per una giustizia e un'autorità deludenti, si producono scelte che conducono al misconoscimento della legge e delle norme che regolano la fecondità delle relazioni umane, con il conseguente restringimento degli orizzonti futuri.

Da un certo punto in poi l'individuo si trova talmente immerso in una logica di prepotenza e sopraffazione che indossare una corazza con la quale autoimmunizzarsi dalla sofferenza e dai sentimenti considerati “deboli” diventa l'unico modo per sopravvivere in una giungla dove vige la legge del più forte. Inoltre, dal momento che, indossata la corazza, non è più possibile accedere ai propri sentimenti, sarà ancora più difficile riconoscere tali sentimenti nell'altro.

Alla luce di queste riflessioni il Gruppo della Trasgressione getta le basi, dentro e fuori le carceri di Milano, per una rieducazione che favorisca un serio confronto con le dinamiche sottese all'azione deviante. Alla base dell'intervento sta la convinzione che un cambiamento reale e duraturo sia possibile solo se il detenuto si riappropria della responsabilità delle proprie azioni. Fino a che egli procede solo sotto la guida degli altri, non ha l'opportunità di maturare le funzioni necessarie all'assunzione di una responsabilità, adulta e coerente, con il risultato che “nella migliore delle ipotesi, egli si sentirà come il bambino per il quale è stato fatto un programma, ma che dal programma stesso può prendere le distanze appena svoltato l’angolo” (Aparo, 2009a).

Il lavoro al Gruppo della Trasgressione si distingue quindi per la determinazione con cui viene chiesto al detenuto di assumere un ruolo attivo nel proprio percorso di crescita: non più soggetto passivo di programmi rieducativi imposti dall'alto, ma promotore del proprio cambiamento attraverso attività che egli ritiene valide per la propria evoluzione e in cui ha scelto liberamente di impegnarsi.

 

 

L'esperienza del Gruppo della Trasgressione

Il Gruppo della Trasgressione nasce nel 1997 all'interno della Casa Circondariale di Milano San Vittore, su progetto del dott. Angelo Aparo, psicoterapeuta che dal 1979 lavora a San Vittore in qualità di psicologo ministeriale ex art. 80. Inizialmente si tratta di un gruppo di detenuti del reparto penale maschile che, nella logica della legge Gozzini e della riforma carceraria del 1975, si prefigge di lavorare sulle condizioni che rendono realmente possibile il recupero del condannato.

Si tratta di un'esperienza pilota che cerca di onorare le indicazioni della nuova legge, la quale, lasciata alle spalle una logica puramente afflittiva, punta alla rieducazione del detenuto e alla sua emancipazione dalle condizioni che favoriscono l'attuazione del reato. I detenuti, però, sono tendenzialmente poco inclini a mettere in gioco i propri vissuti e le proprie problematiche in un ambiente che viene percepito coercitivo e inadatto ad accogliere i loro sentimenti. Il lavoro dello psicologo in carcere manca quindi delle premesse strutturali necessarie per ottenere un reale cambiamento dell'individuo; manca la libertà e la volontà del detenuto di curarsi, anche perché un cambiamento reale e profondo viene vissuto come pericoloso, in quanto presuppone l'emancipazione dalla logica di potere che vige tra detenuti.

Il Gruppo della Trasgressione tenta di superare questa impasse attraverso lo scambio attivo con la società esterna. Fin dai primi anni di attività, ne hanno fatto parte infatti anche cittadini esterni; nel 2002 il gruppo è stato aperto a studenti provenienti inizialmente dall'università Bicocca e poi da altre università di Milano. Oggi il Gruppo della Trasgressione è stabilmente costituito da detenuti e liberi cittadini, soprattutto studenti e laureati in psicologia, giurisprudenza e filosofia.

A differenza di molte altre realtà che operano all'interno del carcere, si tratta in questo caso di una riflessione che non parte dallo studio “del” detenuto ma da un lavoro portato avanti “con” il detenuto stesso, il quale agisce come un “soggetto attivo” nel promuovere il proprio cambiamento e quello degli altri membri del gruppo.

 

 

Partiamo tutti con i super-eroi

Quando i detenuti abbandonano la loro corazza e accedono ad uno spazio riflessivo che consente loro di parlare di sé e problematizzare la propria storia, avviene un fenomeno insolito che induce le persone “esterne” al carcere, membri del Gruppo o suoi ospiti, ad individuare dei punti in comune tra la propria storia e quella raccontata dal detenuto, da cui faticano a non lasciarsi coinvolgere. Spesso questa comunione d'idee, sensazioni e riflessioni è destabilizzante. Si fa appello immediatamente alla necessità di “mantenere le distanze”, rispettando ciascuno i propri ruoli, per non confondersi con l'altro. Come se si faticasse a riconoscere, su un piano meno razionale, la possibilità che sentimenti, esperienze e ricordi antichi, possano accomunarci a questi “mostri”. Diventa difficile accettare che dentro di noi ci possano essere spinte distruttive e voraci, tanto quanto è difficile accettare che un tempo, quando era bambino, il detenuto ergastolano ha condiviso con noi la passione per Zorro e per gli altri supereroi che salvano il mondo.

“Il bersaglio che una persona ha quando nasce è uno solo e non è falso: è vivere, crescere, diventare grande. L’essere umano nasce finito e fa parte delle cose finite, ma da quando apre gli occhi ha l’aspirazione ad andare oltre i limiti finiti di questo mondo, oltre la vita stessa.

Il sogno dell’uomo è fondamentalmente riuscire ad andare oltre la portata del proprio sguardo. Tuttavia, col passare degli anni, si accorge che il sogno di andare oltre il finito deve fare i conti con la finitezza della vita e di tutta la realtà che è alla nostra portata. Non trovo falso sognare di diventare grandi né di essere riconosciuti dagli altri come figure importanti o eroi. Falso può essere invece il cammino che si decide di percorrere per diventare grandi quando, ad esempio, attraverso mille compromessi con se stessi, ci si accontenta del potere della mediocrità; quando si svende la stima e il riconoscimento delle persone che ci amano e che stimiamo, per comperare a basso prezzo il timore e l’ossequio di persone di cui noi stessi abbiamo poca considerazione” (Aparo, 2009b).

Avvalersi dell'aiuto dei detenuti per portare avanti una ricerca sull'Uomo è un'operazione utile su due livelli. Permette di comprendere “dall'interno” le dinamiche dell'azione deviante e di individuare in quale momento, e a seguito di quali circostanze, spinte e motivazioni, l'individuo si è scostato dalla strada della legalità per intraprendere quella della violenza e della sopraffazione. Studiare chi ha trasgredito la norma consente di esaminare alla lente d'ingrandimento comportamenti e inclinazioni caratteristici dell'essere umano ma che generalmente, se tutto va bene e l'individuo segue la strada della cosiddetta “normalità”, restano invisibili.

Inoltre, chiedere ai detenuti un contributo personale in questa ricerca li investe di un ruolo importante che li motiva ad assumere attivamente responsabilità e a ricostruire un'identità compatibile con il futuro reinserimento nella società. In tal modo viene onorato il proposito di legge secondo il quale “la pena deve tendere al recupero del condannato” (Cost. Art. 27, c. 3).

 

 

La pena che produce “responsabilità”

Individuare punti di contatto tra chi sta al di qua e al di là delle mura non deve tuttavia impedire al detenuto di avvalersi del “diritto” di riconoscersi come reo dell'illecito commesso. Soprattutto per i reati più efferati assumersi la responsabilità del proprio gesto è l'unico mezzo a disposizione del detenuto per riscattare il dolore procurato. “Se quei ragazzi hanno una speranza, e se gli si può augurare un futuro, è di assumersi la responsabilità del loro gesto. Insomma, devono rispondere di ciò che hanno fatto anche se non sapevano quel che facevano. Dunque: devono prendere la colpa su dì sé. Colpa infatti è assunzione di responsabilità a un livello più profondo di quello della consapevolezza e dell'intenzionalità. […] Tolta la colpa, tolto il rimorso, e quindi la possibilità di ritornare sui propri errori, riconoscerli, risponderne, è l'inferno, ossia l'eterna ripetizione di un gesto sempre identico a se stesso, inespiabile, irredimibile, e infatti sempre quella mano armata colpisce la vittima, sempre la vittima implora inutilmente, né l'assassino, incapace com'è di appropriarsi di ciò che ha fatto, può convertirlo nel principio di un'altra storia” (S. Givone, 2001).

In un'ottica di autentico “recupero” e “reinserimento” la pena non può limitarsi alla “punizione” di chi ha sbagliato ma deve in primo luogo avere l'obiettivo di “ri-orientare” chi ha derogato da norme di comportamento condiviso, arrecando dolore e sofferenza.

“Io credo che la pena debba innanzitutto prevedere un progetto: il progetto di ricucire il baratro che le circostanze storiche e le responsabilità personali del reo hanno alimentato fra lui e la vittima; altrimenti è più appropriato chiamarla vendetta” (Aparo 1999).

La vendetta non aiuta la società a riabilitare il condannato, così come non aiuta le vittime a recuperare le perdite e a cancellare il dolore subito, mentre produce, nella peggiore delle ipotesi, l'effetto contrario: “dentro una cella dimenticata da un’autorità di cui non si sente la voce, l'arroganza di chi abusa si allena e si tempra, protetta da un rancore che nel tempo la rafforza per restituircela domani più sorda e distruttiva” (Aparo 2008).

La legge quindi non può limitarsi a misurare quanto una persona ha sbagliato per assegnare una punizione proporzionale al reato, ma deve in primo luogo onorare un'altra importante funzione, quella d'orientamento, che produce per il detenuto e per la società che lo dovrà accogliere, maggiori benefici di una punizione che spesso rassomiglia eccessivamente ad un grossolano “regolamento di conti”. “La legge ha come obiettivo principale l'orientamento, non la misurazione. Una cosa è un metro che ci dice quanto un foglio esce dal tavolo, ed un'altra cosa è un criterio che ti consente di posizionare il foglio sul tavolo nella maniera più opportuna. La legge ti dice innanzitutto come posizionare il foglio sul tavolo; eventualmente dovrà misurare quanto il foglio non è stato messo nel modo giusto […]. Facciamo un esempio. Tuo figlio di otto anni butta dal balcone la bambola di tua figlia di quattro anni e la fa piangere. Certamente ha infranto una regola. Il bimbo lo sa che non deve buttare la bambola della sorellina, ma lo fa, quindi trasgredisce. Dal momento che ha trasgredito, possiamo voler misurare quanto lui ha derogato dalla norma oppure impegnarci per capire come e perché si è disorientato. L'obiettivo di un genitore è fargli avere un suo orientamento, non misurare quanto è disorientato!” (Aparo, 2001).

Se è vero, come ipotizziamo, che le autorità istituzionali all'interno del carcere vengono investite di quelle funzioni precedentemente assolte dai genitori (o da loro disattese), allora possiamo sostenere con una certa sicurezza che “la pratica della valutazione e del giudizio, scisse dalla funzione di guida e di sostegno, non costituiscono soltanto una inopportuna parcellizzazione delle funzioni parentali, ma comportano -assai peggio- una sorta di tradimento delle attese di chi continua compulsivamente a cercare una figura in grado di rispondere alle sue rancorose provocazioni, senza lasciarsene frastornare” (Aparo, 1998).

È necessario, quindi, creare degli spazi in cui possano essere prese autenticamente in carico la molteplicità delle dinamiche sottese agli atteggiamenti devianti e delittuosi, “dove allora punire bene implica necessariamente un interrogarsi sul soggetto da punire, instaurando con esso una relazione che continua anche dopo l’irrogazione della pena, nel momento in cui - tramite l’atto del punire - riusciamo finalmente a prenderci idealmente carico del suo esito e della sua efficacia.

In questo senso credo che la punizione possa acquistare anche significato dell’essere presente, laddove altri (la famiglia, la società, le istituzioni) non ci sono stati. O ci sono stati ma in modo non del tutto soddisfacente, o parziale. Per arrivare insieme a ritrovarsi felicemente stupiti che, in questa società, è ancora possibile cambiare il mondo iniziando da se stessi.” (Cajani, 2004).

 

 

Investire sulla reclusione o sull'evoluzione?

Abbiamo detto che i detenuti viaggiano sovente sotto una corazza che diventa sempre più schiacciante col progredire del cammino. Una crosta che “protegge” e “tiene insieme” parti di sé disarticolate ma al prezzo di seppellire la creatività del soggetto e le sue spinte vitali, congelando sogni e aspirazioni.

Se l'obiettivo della pena è indurre il detenuto ad abbandonare in modo permanente condotte lesive per se stesso e per la società, tale obiettivo non è raggiungibile attraverso misure coercitive che si limitano ad “immobilizzarlo” nello spazio angusto di una cella.

Ciò che è davvero utile è chiedere invece al detenuto di lavorare duramente per ricostruire i sogni, gli obiettivi, i progetti, gli ideali, i valori, e talvolta le parti di sé, che sono rimaste sepolte sotto le macerie di una vita vissuta all'insegna di piaceri guadagnati a basso prezzo, a scapito della sofferenza altrui.

“Si sa che le diverse attività lavorative in carcere aiutano il detenuto ad acquisire delle competenze per affrontare il ritorno alla libertà, ma l’ex detenuto, per diventare un cittadino responsabile, oltre che del lavoro tangibile esternamente, ha bisogno di bonificare i sentimenti che lo avevano indotto a delinquere e di irrobustire un’identità sociale e progettuale coerente con gli interessi della collettività. Il Gruppo della Trasgressione agisce come un contenitore nel quale risorse e fantasie abbandonate recuperano spazio e volontà di esprimersi; in altre parole, una camera di gestazione nella quale, senza forzature e senza indottrinamenti, il detenuto riprende un percorso interrotto. Il risultato è che chi ha commesso reati, dopo qualche anno di lavoro, non sente di tradire l’immagine di sé con la quale ha vissuto all’epoca dei reati, ma piuttosto di recuperare quello che di sé aveva perso per strada” (Aparo, 2010, p.173).

Chiedere al detenuto di assumersi la propria responsabilità significa quindi chiedergli di tornare a far parte della società investendo su progetti che lo leghino a dei compagni esterni. Stabilire un progetto e camminare verso la sua realizzazione significa infatti costruire le alleanze e gli strumenti che consentono di procedere senza lasciarsi inebriare da scorciatoie fasulle.

Il Gruppo della Trasgressione, avvalendosi dell'arte, del gioco, della cultura e di un approccio psicodinamico, promuove le condizioni affinché i membri del gruppo possano liberare e accrescere potenzialità e risorse trascurate ai tempi dei reati.

“Ciò che qui si cerca di fare è di trovare un modo di studiare la perdita da parte degli individui dell'accesso creativo alla vita. […] Si deve ammettere la possibilità che non vi possa essere distruzione completa della capacità di un essere umano di vivere creativamente e anche nel più estremo caso di compiacenza e di formazione di una falsa identità, esiste, nascosta in qualche luogo, una vita segreta che è soddisfacente perché è una espressione creativa e originale, di quell'essere umano”(Winnicott, 2006, p. 114).

Liberare energie, produrre cambiamenti e stimolare progettualità è quello a cui tende ed aspira, anche fuori dal carcere, ogni psicoterapia ben orientata: “in quanto psicoterapeuta non mi interessa tanto conoscere ciò che è stato, il passato, anche se ciò costituisce un momento importante, quanto piuttosto se potrà stabilirsi tra me e il paziente una relazione tale da liberare la fiducia nella possibilità e probabilità di un'attività creativa che giunga nel tempo a dare un diverso significato a quel passato, gettando contemporaneamente un ponte verso il presente e una progettualità nel futuro” (Resta, 2010, p. 171).

Concludo evidenziando uno dei caposaldi del lavoro condotto al Gruppo della Trasgressione: “avere un sogno non basta, occorre anche saper tollerare le frustrazioni e occorre che si sappiano e si possano reperire nella realtà gli strumenti utili. Chi arriva in carcere un sogno lo aveva; spesso però i sogni abortiscono. Il lavoro del Gruppo della Trasgressione in carcere consiste nel promuovere spazi comuni a detenuti e cittadini dove recuperare le prime aspirazioni e renderle riconoscibili agli altri mentre le si lavora insieme” (Aparo, 2002). In questo modo succede spesso che anche i liberi cittadini che partecipano agli incontri riconoscano qualcosa di sé che era rimasto un po' negletto in soffitta.

 

Bibliografia:

Aparo A. (1995) La pena sulla bilancia.

Aparo A. (1998) Sulla relazione fra Giudice e detenuto. Il giudice, un padre mutilato.

Aparo A. (1999, Gennaio) Sul Far West. La Stampa.

Aparo A. (2001) Micro e Macroscelte.

Aparo A. (2002) Oltre la cultura della pena. Presentazione del film "Campo Corto".

Aparo A. (2008) Un pacchetto di Marlboro e una domanda.

Aparo A. e Nascimben L. (2008) Ritmi e carte d'identità.

Aparo A. (2009a) La corazza di Giulio.

Aparo A. (2009b) Trasgressioni e sogni. Non pubblicato (verbale Gruppo della Trasgressione).

Aparo A. (2010) Caravaggio e il Gruppo della Trasgressione. In: Zuffi S. (a cura di) Caravaggio in galera. ARPANet, Milano, pp. 169-174.

Cajani F. (2004) Is There Anybody Out There? Una domanda precisa alla ricerca dei confusi rapporti tra Legge, Trasgressione e Punizione.

Genti A. (2009) La fantasia, il progetto e l'autorità.

Givone S. (2001, 5 Settembre) La fine della colpa. L'Unità.

Resta D. (2010) Setting e transfert nella psicoterapia adolescenziale. In: Mancuso F., Resta D. (a cura di) L'adolescente in persona. Mimesis, Milano-Udine, pp. 153-175.

Winnicott D.W. (1971) Playing and Reality, London. Tavistock Publications. Trad. it. Gioco e realtà. Armando, Roma, 2006.