Ritmi e carte d'identità

Livia Nascimben e Angelo Aparo

  19-03-2008

 

Un ragazzo ormai ventenne va a trovare in campagna un suo amico d’infanzia. L’amico è figlio di contadini e quel giorno insieme decidono di fare un giro su un carretto trainato da un mulo. Per il ragazzo, abituato ai mezzi della città, l’esperienza si prospetta entusiasmante.

I due amici salgono sul carretto, partono e si raccontano del tempo trascorso lontani. Lungo il percorso il ragazzo si accorge che l’andatura del mulo è costante e che gli zoccoli sull’asfalto scandiscono un bel ritmo. Gli sembra una musica, se ne lascia trasportare, si accorge che il racconto può combinarsi con quella musica e con l’amico provano a parlare delle loro curiosità improvvisando una specie di rap. Prende poi una bacchetta di legno e comincia a batterla sulla sponda del carretto sincronizzandosi sul ritmo del mulo.

Passano accanto a molti campi godendosi il sole, la campagna, gli zoccoli del mulo e i loro racconti in musica. Gradualmente il ragazzo aumenta la frequenza del suo ritmo e il mulo, come conquistato dalla voglia di continuare a far musica, accelera l’andatura, fino a quando non regge più il ritmo e parte al galoppo. I due faticano a governare il carretto e per poco non deragliano: paura, risate, amicizia, lo sguardo interrogativo del mulo, tra il severo e il divertito.

Per il ragazzo quel pomeriggio in campagna sarà indimenticabile, tanto da diventare, in età adulta, spunto per una riflessione: “Chi commette un reato crede di averne il diritto”. Si tratta di un’affermazione pungente che chiama operatori carcerari, cittadini e detenuti a un lavoro impegnativo.

Chi viola la legge si comporta e si sente come se sulla sua carta d’identità ci fosse scritto: “segni particolari: la legge dello Stato non mi appartiene; i diritti che tutela non sono i miei”. E sulla scorta di questo assunto, si pone contro l’autorità, facendo diventare ogni limite o errore (vero o presunto) di quest’ultima motivo per avvalorare la sua posizione.

Mentre riflette sulle motivazioni che lo hanno condotto in carcere e, insieme allo studente, cerca di recuperare gli stati emotivi che accompagnavano le prime trasgressioni, il detenuto del gruppo della trasgressione scopre che in tempi remoti aveva sentito traditi i propri diritti dalle figure che erano invece deputate a difenderli; nel tentativo di ripristinare un equilibrio violato, sviluppava fantasie di risarcimento e intanto si apriva la strada per riunirsi in bande e per i primi reati.

Spesso le prime violazioni delle norme e i primi abusi costituiscono un maldestro tentativo di ristabilire un equilibrio che si sente violato dalle persone di riferimento; spesso chi trasgredisce ricorre ad una “legge privata” istituita nel tentativo di recuperare il senso della legge pubblica, ma non ricorda l’operazione di sostituzione che lui stesso ha compiuto, né che le prime trasgressioni corrispondevano spesso a un desiderio di giustizia, per quanto arbitrariamente inteso.

Ricostruire ciò non punta a giustificare i comportamenti del reo ma a tentare di conoscerne le dinamiche per mettere a punto strumenti utili alla sua evoluzione personale e, in particolare, a far sì che egli viva un reale allargamento di prospettive, tale da poter guardare e giudicare la propria condotta in maniera meno “privata”. Quando chi ha violato la legge riconosce che un tempo si era sentito fautore e paladino degli stessi diritti che poi ha tradito, si aprono progressivamente degli spazi per tornare a sentirsi rappresentato dalle leggi dello Stato.

Leggere ad alta voce sulla carta d’identità di chi ha violato la legge la scritta “chi commette reati crede di averne il diritto” è un po’ come sintonizzarsi sull’andatura del mulo per tentare di costruire con lui un’altra musica. Occorrono poi delle condizioni credibili per tornare sulla vecchia carta d’identità e scriverci dell’altro, magari con un ritmo che non porti al deragliamento.

Ma in questo caso non si tratta di muli; tale operazione richiede tempo e, soprattutto, presuppone che i connotati della nuova carta d’identità vengano identificati insieme da condannato, istituzioni e società esterna. Occorrono dunque progetti e lavori in cui riconoscersi e grazie ai quali aggiornare ed esercitare le proprie funzioni e la propria identità di cittadino in divenire sia durante che dopo la pena.