GRUPPO DELLA TRASGRESSIONE

Livia Nascimben

23-02-2004, Cipolle e zappatori

Marcello mi ha dato in mano il suo scritto prima che iniziasse il gruppo. “A me stesso” si intitolava. L'ho letto disturbata dalle voci di chi chiacchierava aspettando che fossimo tutti seduti per iniziare; mi sono sentita rapita, avrei voluto che attorno a me ci fosse silenzio. Mi chiedevo da cosa dipendesse il mio fastidio, dalle voci esterne o dal fracasso che sentivo dentro. Arrivata in fondo, il mio commento è stato: “Inquietante! Bello, ma inquietante!”

Marcello mi dice: “Beh, mica bisogna scrivere sempre di cose piacevoli.”
Vero! Anche il dolore e ciò che è male possono divenire materiale di costruzione, se lavorati; resta il fatto che lo scritto mi inquieta!! E quel rumore di voci che mi disturbava erano i miei compagni che parlavano fra loro o un frastuono che sentivo arrivare da dentro? Non lo capisco. E anche questo è disturbante.

Iniziamo il gruppo che ho bisogno di distrarmi!
E ci riesco, parliamo del Conte di Montecristo, a turno esponiamo i passaggi che più ci sono sembrati significativi; commentiamo uno scritto di Dino, commovente, sentito, suggestivo. Poi Marcello legge il suo scritto.

Ritorno a sentirmi inquieta. Marcello, che fatica! Mi fai sentire e io non voglio sentire. Ma non posso sottrarmi.

Il suo scritto esprime dolore, paura, angoscia, turbamento; parla di rischio, di pericolo, di morte, di salvataggi e ancora di ritorno alla morte; di vicende umane difficili. Si rivolge a se stesso ma parla di tutti, anche di me.

Impossibile non sentire, le immagini che usa sono dure, forti. Fin dalla prima riga ho cominciato a sentirmi inquieta. Mi accorgo che mi sono cresciuti i capelli e non mi piace, li voglio tagliare. Sto crescendo, è fisiologico, inevitabile, ma non mi piace, mi voglio fermare.

Irritante, doloroso. Poi cambia periodo e parla della sua cipolla. La cura, le dà acqua, la fa crescere, le vuole bene, si sente contento. Il contrasto lo sento forte, violento. Voglio crescere, voglio che crescano tutti i miei strati.

Ripristino un equilibrio, ma subito dopo si pezza. E’ morto Pantani e mi dico: beato lui! Ha smesso di soffrire, di sentirsi schiacciato, piccolo, abbandonato. Anche io lo voglio. Anche io sono stanca di sentirmi preda di fantasmi del passato.

Mi sento come una mosca nell’acqua, le ali pesanti, sento che la forza di sbatterle per riemergere mi sta abbandonando. Un’immagine che mi fa sentire soffocata, la mosca di cui parla Marcello, non solo la vedo, ma è diventata una sensazione fisica pesante. Mi sento annegare. Mi manca il fiato e mi accorgo che ho il respiro bloccato.

Poi arrivano i soccorsi, la tv, le telecamere per riprendere l’evento. Questa grandiosità attorno al salvataggio mi dà fastidio, adesso. Mi irrita vedermi mosca ma sentirmi come se fossi un membro della famiglia reale: io voglio che sia così, voglio i riflettori puntati, finalmente qualcuno si accorgerà di me, di ciò che sono realmente.

Vengo salvata, sono un eroe! Ma non mi basta, voglio essere portata tra i morti. Lì trovo tutti, trovo le persone che sapevano che mi facevo di cocaina e che restavano impotenti di fronte a tale distruzione. Vi voglio morti, la dovete pagare, non mi siete stati vicini e adesso vi annullo facendovi sentire impotenti, incapaci di salvarmi, responsabili del mio lento morire.

Ho ripareggiato i conti! Ma manca una persona, mio padre. Dov’è? Perché non c’è? Perché non si accorge di me sofferente? Lo trovo, lo sbrano, lo faccio fuori, divento la sua mosca, il suo compagno di morte. E il cerchio si chiude, sono unita a lui.

Mi sento inquieta. Fino all’altro ieri ho speso ogni mia energia per non sentire. E me ne accorgo ora che sento, adesso che mi fa male sentire. Lo scritto di Marcello evoca immagini di morte, di dolore, di sofferenza, paure, limiti personali, difficoltà.

In passato ho costruito un’immagine di me stessa come ragazza per bene, brava, ordinata, buona, giudiziosa, superiore alle banalità, alle mode, impaurita di fronte ai cambiamenti, spaesata nel sentire emozioni che non comprendevo.

Ma non mi bastava allontanare con la mente le emozioni dolorose, per non avvertire il vuoto, ho dovuto cercare dell’altro; mi sono concentrata sul mio corpo, su quanto fosse magro e grasso, su quanto fosse leggero e pesante, su quanto lo potessi controllare, riempire, svuotare: pratiche per non sentire disorientamento, rabbia, ma anche desiderio e voglia di emergere che mi facevano paura.

Al gruppo oggi non ho detto una parola, mi sentivo lacerata da un male a cui non riuscivo a dare un nome. Sentivo tutto confuso. Le emozioni di Marcello erano mescolate alle mie, il passato al presente, la sua storia intrecciata alla mia. Ciò che contava era che mi sentissi sofferente, in contatto con una parte di me stessa, e stavo male.

Sono uscita dal carcere dicendo: “Basta, non voglio più sentire. Non voglio più sentire niente.” Ma so che non è più questo che voglio, la cipolla la voglio annaffiare anch’io, ne vale la pena, ora mi sento viva!

Ogni giorno siamo più ricchi, e lo sento: Marcello ha consegnato al gruppo un lavoro che ha fatto sulle proprie angosce. Aparo il palombaro se la godeva: “il mondo si fa deserto non dove urlano le angosce, ma dove mancano le condizioni per lavorarle".