Il ritorno

Armando Xifaj

17-02-2004  

Era una sera come tutte le altre. Come sempre, tra la faccia dura di mio padre e gli occhi tristi di mia madre, non sapevo chi mi faceva più pena. Dietro quella maschera si nascondeva un uomo stanco, a pezzi. Forse si sentiva impotente, umiliato dalla vita, e non aveva il coraggio di guardare i nostri occhi. Era seduto davanti alla tv in bianco e nero e, perso, fissava il solito programma.

Mia madre, seduta dietro di lui, sembrava gli chiedesse (non so se a lui o a chissà chi) cosa fare da mangiare per la sera; lei conosceva la risposta, quella di sempre: “the caldo e pane nero“. Ma era ancora presto, più tardi si mangiava, meglio era; non avremo cosi sentito la musica fastidiosa del nostro stomaco incavolato che non ci avrebbe fatto addormentare.

Io però ero concentrato sul da fare: leggere per l’ennesima volta il mio libro “Il conte di Montecristo“. Mi attirava tanto quello scritto e ritornavo sempre a leggerlo.

Edmond Dantès era un uomo speciale e mi sembrava di vederlo sempre da qualche parte. Gli avevo dato un volto, delle sembianze, una voce ed anche una camminata. Era nel mio immaginario un uomo forte, fascinoso e avrei voluto che anche mio padre fosse come lui. Forse avrei provato io ad assomigliargli…

Di certo la sua figura aveva colpito nel segno.
Non mi ero accorto del tempo passato a leggere e a fantasticare quando udii la voce di mia madre. Nel suo sforzo di apparire allegra somigliava alla maschera di una tragedia greca e io non sapevo se ridere o piangere. Amo mia madre, la sua angoscia mi lacerava il cuore e la rabbia cresceva.

Dopo qualche attimo sarei andato a dormire. La notte sarebbe stato un anestetico fino al nuovo giorno. Ma erano due o tre notti che il sonno mi prendeva a fatica, una parte faceva a pugni con l’altra, una voleva compiere il suo rituale, l’altra voleva fare i conti con Edmond Dantès e la sua storia.

Da un po’ di tempo non sapevo se era lui a volersi mettere in contato con me o io con lui, sapevo però che quella era la mia prima battaglia da vincere. Quella notte perdetti ma non mi abbattei, ci avrei provato ancora e ancora.

Otto anni e otto mesi sentenziò il giudice, lasciandomi quasi del tutto indifferente. Mi aveva solo convinto che stavo per compiere quella missione e con un sorriso sulle labbra uscii da quell’aula del tribunale con le manette ai polsi.

Davanti a me si materializzavano i miei intimi nemici, ma non erano né il giudice né il Pubblico Ministero. Loro erano là fuori ed io sarei andato a trovarli proprio come il conte di Montecristo. Il quadro prendeva oramai le sembianze che io gli avevo dato in quella lontana notte di 13 anni fa, era solo l’inizio ed io volevo un’opera d’arte fatta di luci e ombre.

Ma tanto di tempo ne avevo …