Sulla funzione di gestazione del gruppo

Livia Nascimben

28-07-2003

Nico e Umberto, due amici inseparabili, ridono e trasmettono allegria ma hanno tatuate sulle braccia figure che mettono paura, sfoggiano i loro muscoli ma sembrano indifesi e alle prime armi come bambini appena scesi dalla culla per scoprire il mondo. Così li ho conosciuti.

Hanno su per giù la mia età e non so quanti anni di galera alle spalle; un passato difficile da portarsi dietro e un futuro da costruire con molta fatica; sono entrambi separati dalle loro ex compagne, sono padri di bambini piccoli: un mestiere difficile il loro.

Nico, uscito da San Vittore, vorrebbe trovarsi un lavoro e mettere su un bar insieme a Umberto, anche lui desideroso di ricominciare. Nico ha paura, deve rifarsi le amicizie e, a causa del suo passato, teme di non essere accettato, ha paura di non essere all’altezza degli altri; forse è arrabbiato con suo padre, perché lo ha mollato senza aiutarlo a crescere e ora deve fare tutto da solo o forse è arrabbiato perché si sente impotente di fronte al suo desiderio di essere fin da subito una figura importante nella vita di suo figlio. Le difficoltà sono molte. Anche per Umberto è così.

Desiderano entrambi essere dei modelli per i propri figli, contribuire alla loro crescita, orientarli e garantire loro degli strumenti che possano utilizzare per costruire il loro futuro, ma dal carcere è molto più difficile svolgere questo ruolo.

Partecipano attivamente al gruppo, si mettono in gioco e stimolano gli altri a superare i propri timori, a guardarsi dentro e a condividere ciò che si è trovato, cercano di dare spazio alle qualità che possiedono e di trovare un modo per potersi assumere le responsabilità di uomini e di padri.

Tutti all’interno del gruppo ammirano il loro impegno e il loro lavoro; un giorno Walter, ad un incontro, esprime la difficoltà a rassegnarsi all’idea che persone capaci di esprimersi e di fare provare emozioni - come ci riescono loro due attraverso i loro scritti (e come è capace lui stesso)- possano compiere azioni delittuose e correre il rischio di commetterne ancora; Walter –lo ha detto lui stesso- vuole “lavorare per diventare libero di fare le proprie scelte, di assecondare il bene e i propri desideri”.

Aparo risponde a lui, ma parla a tutto il gruppo:

“Si prova sconcerto di fronte a una persona che ha commesso dei reati più o meno gravi, ma che può vivere e far vivere emozioni talmente vitali da far bene ad un intero gruppo: come comprendere che una persona possa fertilizzare il campo comune e aiutare gli altri ad evolversi, quando non riesce a liberarsi dall’impulso a commettere reati per “mettersi in pari” con le ingiustizie subite?

Non basta sapere di avere una ricchezza per servirsene. Ci sono grandi artisti capaci di provocare emozioni intense e vitalizzanti negli altri, eppure incapaci di gestire se stessi.

L’essere umano è costituito da diverse parti, alcune nobili, altre meno; ha più consuetudine a trasgredire che a costruire, con l’aggravante che riparare i danni costa molta più energia che provocarli. E più caschi, più è difficile rialzarsi!

Ma, via via che contribuisci a promuovere la vita, diventa più difficile bistrattarla; l’esperienza di dare la vita è appagante (allude al racconto fatto poco prima da Antonio, che aveva riferito di aver salvato una volta una bambina dall’annegamento) e in questo modo diminuisce il bisogno di ricorrere a mezzi regressivi per gratificarsi.

Se rubi una bella macchina, potrai guidarla con piacere e forse esserne fiero per qualche tempo, ma questo non ti farà sentire vitale quanto l’aver restituito la vita a una persona. Ma è difficile ricordarsene, diventa più facile ricordare le proprie capacità se hai consegnato qualcosa di significativo a qualcuno.

In carcere, paradossalmente, si è protetti; all’interno del gruppo si vive una situazione in cui si è sgravati dal peso degli errori che si sono commessi; nelle nostre premesse c’è che i membri del gruppo hanno sbagliato e noi non li giudichiamo, lavoriamo insieme. Quando esci dal carcere, ti verrà chiesto chi sei, e si dubiterà che tu possa essere la persona che dichiari di voler diventare; se non conservi la memoria di essere capace di scrivere, di emozionare ed emozionarti, per gli altri e per te stesso rischi di rimanere solo un ex tossicodipendente.

Noi non siamo indipendenti dagli altri, né da quello che gli altri pensano di noi; gli altri vogliono le nostre credenziali; gli altri, comprensibilmente, hanno paura e si difendono, come ognuno di noi; ne segue che chi esce dal carcere ha la strada più difficile rispetto a chi non ci è mai entrato. E allora, ricordarsi e servirsi del proprio patrimonio di risorse è più facile se lo si è scambiato con qualcuno.

Occorre rintracciare, ogni volta in maniera creativa, il modo per produrre degli atti di libertà; è importante che a questi atti che portano alla nascita degli altri contribuiscano massicciamente le persone che vivono ciascuna la propria prigione, ma tenendo presente che non c’è una rigida ripartizione dei ruoli con un soggetto che aiuta e uno che viene aiutato. Occorre sfruttare il malessere di ognuno per vivere l’esperienza –nutriente, terapeutica, ed emancipativa- di contribuire alla “nascita”, alla liberazione, all’espressione delle potenzialità e delle fantasie “ammanettate” dei diversi membri del gruppo. Nulla è più terapeutico di questo!”

Nico e Umberto, attraverso la loro amicizia, si stanno aiutando a crescere vicendevolmente e, con il loro lavoro all’interno del gruppo, stanno arricchendo anche gli altri; stanno acquisendo più strumenti per conoscersi e per cercare di svolgere al meglio la loro funzione genitoriale, mentre permettono a me di superare una mia difficoltà ad esprimermi in gruppo.

E’ difficile stabilire chi dei tre ne stia ricavando maggiori benefici per il futuro! In ogni caso, per tutti e tre, dopo l’esperienza positiva dell’aiuto reciproco, sarà più facile mettere in atto comportamenti costruttivi in un altro contesto.

 

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