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Intervista sulla sfida


Prof. Enzo Funari

PSICOANALISTA S. P. I.

 

Quali immagini le evoca il termine sfida.

Le prime immagini che mi vengono in mente sono di aggressività, di conflitto, di qualcosa che ha a che fare con il contrasto negativo. Detto questo, però, come tutti i termini ha anche altri valori semantici, altri significati, dipende da come e dove caliamo la parola.

In genere, io penso che la sfida più scoperta, dichiarata fra i due contendenti, sia quella più matura, che evidenzia contrapposizioni con la violenza e con l'aggressività, ma che non ha un carattere di perversione. Immaginate due cavalieri medievali che scendono a tenzone: questa è una sfida. Ci sono delle regole, c'è un obiettivo, che è quello di vincere e abbattere l'avversario, c'è il problema di come affermare la propria supremazia sull'altro. Tutto è dichiarato e tutto è alla luce del sole.

Invece le sfide più negative sono quelle che avvengono nell'ombra, non dichiarate, dove possono prevalere, per esempio, gli aspetti invidiosi, corrosivi. Jago sfida Otello e il tutto avviene dell'ombra. Uno dei due è ignaro della sfida; non si può dire propriamente sfida a due; Jago sfida Otello in una maniera vigliacca, attraverso l'inganno.

Quindi, secondo me, come tutte le cose di questa terra, il termine "sfida" va contestualizzato, altrimenti rischiamo di prendere una parola e farle dire tutto quello che vogliamo.


Quali personaggi della storia, della mitologia, della letteratura, dell'arte e della scienza le vengono in mente pensando alla sfida?

Achille e Ettore. Con motivazioni diverse: Achille per affermare la sua supremazia; Ettore per difendere il bene della sua città. Si vede una sfida con motivazioni diverse. Mi viene in mente Leonardo quando cerca di sfidare la forza di gravità: non è che gli sia riuscito molto, però ha cominciato a porre il problema. E poi Napoleone.

Ma ce ne sono migliaia: Caravaggio sfida un modo di intendere la pittura. Nel libro che ho scritto sull'imitazione, "Il falso Mozart", racconto che Caravaggio inventa un tipo di pittura che mancava, sia per come è espressa formalmente, sia per i contenuti. Ritrae "la Vergine morente" la ritrae usando come modello il corpo di una prostituta.
Caravaggio aveva il carattere di quelli che vanno in giro con la spada e hanno bisogno di tirarla fuori ogni cinque minuti per litigare con qualcuno. Un poliedrico sfidatore, da questo punto di vista. Ebbe una vita grama nonostante potesse forse farne a meno.

Dongiovanni, un altro caso. Passa per un gran conquistatore di donne; se si va bene a guardare è uno che deve sfidare continuamente la propria virilità. Ciò che sostiene il comportamento di Don Giovanni è che quando ha conquistato una donna, questo non lo soddisfa, ha bisogno di comprovare ulteriormente la sua arte di seduttore. Passa la vita a fare questo lavoro, perché non riesce mai a saturare quella parte che lo costringe continuamente alla testimonianza della propria identità.


Secondo lei quante e quali categorie di sfida esistono?

E' difficile perché tutta la nostra giornata è una sfida. Ci sono micro e macrosfide.
Il problema è di vedere come noi siamo attrezzati dentro, quanto lavora in noi, per esempio, l'invidia, e quanto lavora in noi invece la sfida intesa come un atteggiamento che di fronte a un problema da risolvere dice: "Devo farcela".

Faccio un esempio molto specifico. Nel lavoro dello psicoanalista (se lei interroga uno che fa un altro mestiere, le risponde in una maniera diversa), il problema della sfida può essere visto come la posizione che si assume di fronte al lavoro che si sta facendo.

Avete presente il termine contro-transfert? E' un termine molto significativo: in fondo, esso nasconde le difese dell'analista nei confronti del paziente. E' noto che il paziente ha il transfert, ma non è affatto vero che l'analista sia un personaggio "neutrale". Con il termine contro-transfert si allude ai sentimenti ostili oppure ai sentimenti conflittuali; in realtà questo accade davvero, ma fa parte dell'elaborazione che deve poi fare l'analista stesso. Di fatto, l'analista è sempre un partner emotivamente attivo della relazione analitica.

In tal senso, sarebbe meglio dire parlare di co-transfert, che è un brutto termine, ma dà più l'idea che l'atteggiamento dell'analista possa consistere nell'accogliere la sfida delle difese del paziente, non per rispondere con un atteggiamento di contro-sfida, ma per restituire al paziente ciò che egli trasmette attraverso la sua rabbia, le sue invidie, la sua corrosività e orientarlo poi verso la trasformazione.

La sfida dell'analista consiste nel riuscire ad aiutare il paziente a superare le resistenze al cambiamento, a liberarsi dalla necessità di mantenere una situazione patologica, perché vissuta come più difensiva. Anche questa è una sfida; ma stavolta non è contro l'altro, è invece una sfida contro le difficoltà che emergono ad ogni seduta: da questo punto di vista c'è una parte che deve rimanere libera dalla collusione, l'analista non deve essere uno dei due termini del duello.

Molti invece possono cadere in questa trappola: il paziente attacca e sfida e allora si risponde in varie maniere, ignorandolo o redarguendolo o facendo vedere come questo non è adeguato, invece bisogna accettarla, proprio per quello che è. Anche se è qualcosa di negativo va presa per quella che è, va assorbita, metabolizzata, depurata, come fa il fegato, e poi restituita. La sfida per un analista non è da intendersi come la s'intende in generale fra due contendenti, bensì come una relazione dove c'è qualcuno che porta delle parti che tendono a distruggere il lavoro che si fa e un altro che le accetta, le comprende, ne comprende le motivazioni, le sente anche emotivamente e però poi lavora per trasformarle.

Bisogna vedere se questa sfida è commisurabile con la sfida che ha come scopo l'eliminazione dell'avversario, ad esempio i duelli, dove si determinava l'onore o si difendeva qualcosa; le guerre; o le sfide che avvengono all'interno della competizione sociale, dove la sfida viene presentata di solito come motore del movimento sociale, anche se, di solito, gli obiettivi sono ben più narcisistici di quelli dichiarati.

Insomma quando uno, per esempio, il capo, arriva a dire: "La mia sfida è di far sì che questa città, questo paese entro breve termine avrà dei miglioramenti economici..", questa è una sfida di fronte a delle difficoltà che devono essere superate sul piano macro-sociale; ma c'è da chiedersi se, a livello profondo, l'interesse del politico sia proprio quello e non, piuttosto, quello di primeggiare sugli altri. L'esperienza ce lo può dire; ovviamente non tutti sono in questo modo, ma la maggior parte sì, e si vede dai conflitti che si creano fra di loro, allora in questo caso la sfida ripropone l'aspetto della distruttività.

Nel mondo animale la sfida è prevalentemente scevra da questi aspetti, perché nel mondo animale le sfide riguardano veramente e solamente il problema della sopravvivenza. Nell'uomo c'è qualcosa di più, c'è l'immaginario; il problema di sovrastare un altro non si confina nell'ambito dell'aspetto etologico e istintuale, ma ha a che fare con la categoria del desiderio, e più esattamente, del desiderio dell'onnipotenza.


Le cause, le finalità di una sfida quali sono? Cosa sta alla base di una sfida?

Le cause, ancora una volta, vanno viste sulla base di una contestualizzazione. La sfida può avere a che fare con la competitività costruttiva, può anche essere orientata all'obiettivo di cambiare una situazione. Penso che per chi fa questo lavoro a San Vittore, la sfida venga intesa come processo di cambiamento di una situazione che non funziona. In questo caso parliamo di sfida in quanto il contesto nel quale essa viene portata avanti ha dei codici che non prevedono certe iniziative e quindi ha un carattere, quello del cambiamento: sfido una determinata situazione, dovendo superare anche delle difficoltà, delle resistenze, per poter ottenere un esito trasformativo positivo sul piano della relazione umana.

Poi ci sono le sfide per il potere e sono ovviamente, come dicevo prima, delle sfide che hanno un carattere completamente differente e sono quelle che vanno per la maggiore.

Poi c'è tutta la trasposizione della sfida nel gioco; qui però la sfida assume il carattere di una finzione che soddisfa certe esigenze narcisistiche, certe esigenze di supremazia, ma che nel gioco vengono depurate dal loro carattere cruento. Facciamo l'esempio di chi gioca a carte. Il gioco delle carte è basato su una sfida, c'è chi vince e chi perde. Allora si assiste a delle situazioni dove, indipendentemente dalla posta in gioco, ci sono delle grandissime discussioni e anche delle liti, e queste non dipendono dal fatto che si perdono soldi (la posta spesso è bassissima), ma proprio dall'idea che bisogna superare l'altro; è un problema meramente psicologico, che nell'ambito della finzione diventa tuttavia serissimo. Non parliamo di giocatori d'azzardo o di professionisti; al tavolino del bar ci si gioca l'aperitivo, ma l'obiettivo dichiarato dell'aperitivo nasconde l'obiettivo più inconscio di riuscire ad abbattere l'altro. In questo caso la sfida è sublimata in qualche maniera nell'aspetto ludico. C'è della gente che è propensa a offrire dieci aperitivi a tutti quanti, ma se ne perde uno alle carte si arrabbia come una bestia. Non è il denaro in questo caso, ma piuttosto il piacere di vincere.


E degli aggettivi per definire chi lancia una sfida?

Chi lancia una sfida e chi è abituato a lanciare sfide è uno che è insaturo da un punto di vista narcisistico, ha bisogno sempre continuamente di testimoniare a se stesso che vale qualcosa. In questo caso siamo di fronte ad un narcisista insaturo, cioè una persona che non ha saturato il suo narcisismo nei propri confini, diciamo.

Chi invece lancia una sfida come Benjamin Franklin è tutta un'altra questione. Benjamin Franklin fu uno dei fondatori, insieme a Washington, dello Stato Americano, ed è stato l'inventore del parafulmine. In un suo programma egli dice grosso modo: (adesso le parole non me le ricordo bene) "c'è un momento nella storia di un popolo in cui bisogna prendere le armi contro chi cerca di privarti della tua libertà". Però è una sfida contro gli inglesi, i quali spadroneggiavano nelle colonie. Questa è una sfida, però è una nobile sfida.

Hitler che sfida tutto il mondo si pone su un piano diverso, ma qui entriamo in un discorso molto complesso. Però voglio dire, anche nelle guerre…si può parlare di sfida.
Ma c'è da dire una cosa: le guerre sono possibili perché dentro ognuno di noi, o perlomeno nella stragrande maggioranza della gente c'è una tendenza distruttiva. Diversamente come potremmo spiegarci che milioni di persone seguono una guerra decisa da sette, otto persone? Se in tutti noi ci fosse un'istanza contraria alla violenza, sarebbe difficile per i capi scatenare una guerra. Non li seguirebbe nessuno. Invece è facile.

Allo stesso tempo va rimarcata la presenza di un altro meccanismo: ancora oggi noi, nonostante tutto, siamo propensi all'idealizzazione dei personaggi politici e pubblici. Voi capite che dire che "non bisogna fare la guerra", "non bisogna fare male agli altri" suona completamente diverso se detto da Brambilla Giovanni o da Giovanni Paolo II. Il male della guerra, da un punto di vista etico, è di una evidenza assoluta, ma il carisma della persona che ribadisce questa verità è importantissimo.

Vi pongo un quesito: quanti di quelli che oggi vivono in Italia, a proposito del seguire una sfida, se ci fosse Hitler al comando, sarebbero nazisti? Il settanta per cento. Se invece ci fosse Lincoln, le cose sarebbero diverse, ma il meccanismo è lo stesso, l'idealizzazione. Bisogna vedere in che mano siamo, che personaggi ci sono, e il senso in cui intendono le sfide. La sfida è nostra o dell'altro? Siamo sicuri che le sfide siano sempre nostre? O seguiamo piuttosto le suggestioni di ciò che ci viene immesso dentro? Spessissimo è così. Occorre avere degli strumenti per ricostruire da dove nasce la sfida.


Cos'è la sfida per un bambino? Quali differenze e analogie presenta con quella dell'adolescente e quella dell'adulto?

La sfida in un bambino segue, io direi, la necessità del bambino di affermare la propria soggettività. Fa parte di questo gioco. La prima cosa che il bambino impara a dire, lo diceva Spitz, è "no", non è "mamma"; è il rifiuto condensato in una sola parola.

Nel bambino la sfida è legata, nella maggior parte dei casi, alla necessità di sentirsi importante di fronte all'adulto, perché vive una situazione di dipendenza. Le sfide infantili, se ben recepite dall'adulto, possono avere anche un carattere di crescita. In genere le sfide infantili, in contesti disastrati dal punto di vista sociale ed economico, diventano poi una sfida verso la società in generale. Le aggregazioni delinquenziali appagano il bisogno di appartenere a un gruppo, di non essere isolati e di agire in qualche modo su un'esperienza dolorosa: i genitori cattivi diventano così la società.

La sfida può essere invece un gioco narcisistico tendente nel bambino a testimoniare il bisogno di essere gratificato. Può essere più o meno eccessivo. Faccio un esempio pratico da questo punto di vista, che non ha nulla a che fare con la sfida patologica, ma con la sfida di crescita. Il mio nipotino ha sei anni. Un giorno eravamo di là, in una stanza piena di libri. Ho detto:

- "Un giorno questi libri saranno i tuoi";
lui, che ha un carattere piuttosto ribelle:
- "No, non m'interessano, perché non li leggerò; poi, se vorrò leggerli, me li compro da solo".
- "Bene, fa come vuoi, vorrà dire che li prenderà Francesca, la tua sorellina".
- "Non m'interessa".

Il giorno dopo, io non c'ero, mia moglie entra nella stanza dei libri e vede mio nipote, seduto per terra, con un libro aperto. E gli chiede: "Cosa stai facendo?" e lui: "Mah, sto un po' vedendo come si può fare a diventare professori".

Questo la dice lunga - Winnicott qui ci viene incontro - sulla necessità che molti bambini hanno di stabilire una situazione dove costruiscono l'illusione di essere loro i creatori di una determinata cosa che, invece, viene loro data o insegnata. Allora, fino a un certo punto bisogna lasciarli fare. Fino a un certo punto… perché se vanno avanti così rischiano di diventare dei personaggi pericolosi socialmente, perché incapaci di riconoscere quello che viene dall'esterno; queste persone vivono una continua sfida, costrette a credere di essere le uniche a pensare, le uniche a fare; si pongono continuamente in una sfida con tutto ciò che proviene da fuori.


Pensa che ci sia differenza fra la sfida di un uomo piuttosto che di una donna?

Io qui sono molto…le differenze c'erano molto marcate prima, fino a un po' di tempo fa, perché erano determinate anche da una serie di condizioni sociali. Però via via che si uniformano le possibilità delle donne di accedere - anche se non ancora non come dovrebbe essere - a quelli che sono gli aspetti decisionali e gli aspetti professionali eccetera.. io, se devo dirvela tutta, penso che siano due sfide uguali.

Ma avolte si continua a sfidare un fantasma. Per quanto mi riguarda, io ho rispetto per una vigilessa come per un vigile, ma devo dire che mi è capitato di trovarmi di fronte ad una severità che nel collega uomo non c'era. Oppure prendete quei carabinieri che socialmente provengono da famiglie secolarmente disastrate. Mettono l'uniforme e diventano la fine del mondo.

Io invece di vedere gli aspetti etici vedo gli aspetti dinamici: finalmente hanno un qualcosa che riscatta una situazione familiare, allora la divisa finalmente… Non sto connotando il carattere dei carabinieri, sto dicendo semplicemente che possono agire questi meccanismi.


La sfida dell'adolescente e quella dell'adulto? Quali le differenze e quali le analogie?

Io direi che questa storia che l'adolescente è una cosa particolare è vero, però le sue vicende psichiche sono un proseguimento di quello che è avvenuto nell'infanzia. L'adolescente ha anche lui un fortissimo bisogno di acquisizione di identità, che è un prolungamento di quella che è iniziata già nell'infanzia, e da questo punto di vista la sfida dell'adolescente è sorretta dal bisogno di una affermazione.

Oggi non ci sono più i riti d'iniziazione. Una volta, arrivavi a una certa età, nelle popolazioni più antiche c'erano i riti d'iniziazione In quelle più moderne c'erano, non so, il regalo del motorino piuttosto che… ma adesso in una società dove tutto promette e spesso non dà, ci sono certi simboli che se certi adolescenti non riescono ad acquisire, devono procurarseli in modi a volte non necessariamente civili.

Da questo punto di vista io vedrei il problema della sfida dell'adolescente all'adulto come un proseguimento di quegli aspetti che già agiscono nell'infanzia e che si fanno più acuti nell'adolescenza per i grandi cambiamenti che avvengono in questa fase: gli adolescenti trascorrono molto tempo fuori, si staccano dai genitori, i genitori perdono quell'onnipotenza idealizzata che avevano prima, quindi l'adolescente si sente in prima linea, senza la protezione della onnipotenza dei genitori cui aveva creduto fino a poco prima. Questo genera un bisogno di aggregazione e di appartenenza, che a volte si presenta all'esterno a muso duro, altre assumendo caratteri folcloristici; ad esempio, certi gruppi musicali, che poi hanno spesso un tempo molto labile


Ancora con l'affermazione di sé, dell'identità, com'era per il bambino?

Sì, ma mentre nel bambino l'aspetto gruppale non è ancora presente, qui invece nasce l'idea di trovare il simile che condivide quel vissuto.


Ne ha già parlato; può approfondire il tema del rapporto fra sfida e narcisismo, sfida e istanze evolutive, sfida e conflitto?

Vi faccio l'esempio che ho riportato ad una studentessa (Antonella). Mi era venuto in mente un episodio; abbiamo parlato di come nel gioco si può vedere che esiste la necessità di prevalere sull'avversario. Vediamo invece una situazione che descrive Max Wertheimer, che è stato un grandissimo psicologo del primo Novecento, quello che ha fondato la Gestalt Psichologie, la psicologia della forma. Nel suo bellissimo libro "Il pensiero creativo" descrive una scena fra due persone che giocano a volano. C'è n'è uno che è decisamente più forte dell'altro e vince sempre. Ma cosa succede: che il dispiacere che prova quello che perde corrisponde anche a un'assoluta noia nell'altro. Allora il vincente arresta il gioco e insieme all'altro formula un codice diverso. Discutono di quanti punti di vantaggio deve avere il più debole per cercare di equilibrare la situazione. Le nuove regole vengono accettate. Incomincia una sfida dove tutti e due si divertono.

Come notate, la genesi di questa sfida, che è sempre gioco, nasce su basi assolutamente democratiche. Se quell'altro fosse stato dotato di un narcisismo tale da non avere altro scopo che demoralizzare l'altro, schiacciarlo, eccetera, non avrebbe sentito la necessità dell'handicap. L'handicap è l'evento che entra a equilibrare una situazione di squilibrio in una situazione di finzione. In questo caso, il piacere della prova richiede la presenza dell'altro come giocatore effettivo e non come supporto per riaffermare ad ogni costo la propria superiorità. Cosa che in una guerra non è possibile; ve lo immaginate? "Guardate, noi abbiamo troppi carri armati".


Cosa rimane a una persona della sfida?

Molto spesso dei morti (Ride). In genere la soddisfazione di averla vinta. In generale.
Però bisogna vedere che tipo di esiti ha comportato questa soddisfazione, dove si è svolta e come e perché. Ritorniamo all'inizio. Io penso che la soddisfazione di Hitler di aver preso in una giornata la Polonia sia stata immensa.


Era narcisismo insaturo anche nel caso di Hitler o era follia?

Lì siamo a livello di patologie sociali inenarrabili.
Lì siamo arrivati a un punto dove il sadismo storico, algebrico direi, cioè con una formalità assoluta, raggiunge il proprio capolavoro. Dire in un campo di concentramento "il lavoro nobilita l'uomo"…, no? io sono andato a vederne alcuni di questi: ho visto un campo di concentramento dove c'era una carretta di legno e il compito di questi denutriti era quello di riempirla di pietre, poi con il timone di questa carretta portarle da un'altra parte del campo, scaricare queste pietre, ricaricarle e riportarle là, per tutto il giorno, e dovevano anche cantare. Venivano chiamati i cavalli che cantano. Penso che basti così.


Secondo Lei, oggi la nostra società lancia messaggi di sfida al cittadino?

Attraverso i mass-media: la televisione, i giornali, il cittadino è bombardato da situazioni di sfida, a qualsiasi livello, dalla pubblicità ai conflitti che scoppiano in tutto il mondo. Una volta noi eravamo molto più protetti, noi, l'uomo, la massaia, perché quello che succedeva in Giappone bene o male non lo si conosceva. Oggi uno starnutisce in Giappone e noi lo sentiamo subito.

Siamo continuamente sfidati, sollecitati al narcisismo, contro la nostra corporeità. Magro, grasso, in salute o non in salute: io li vedo tutti come aspetti che ci pongono di fronte a dei conflitti. Non so se queste le possiamo chiamare sfide. E' chiaro che uno le parole le può gonfiare; ad esempio se io facessi il copywriter in un'azienda di pubblicità mi troverei di fronte alla necessità di cercare delle soluzioni che colpiscano di più il consumatore.