Cosa facciamo di chi non c'è?

 

Milano 4-7-2001

Angelo Aparo

 

Sono stati presentati i risultati delle perizie del delitto di Chiavenna e sulle pagine dei vari quotidiani ci si è chiesto come abbiano potuto i vari periti interpellati giungere a conclusioni così distanti: per alcuni degli esperti consultati, al momento del delitto, le ragazze erano capaci di intendere il senso dell'azione, per altri, non lo erano.

Non conosco le ragazze omicide e non provo neppure a entrare nel merito del loro personale "equilibrio"; ma mi chiedo: In che senso una persona che compie un tale omicidio "in nome del diavolo" o anche "semplicemente" in nome di un proprio convincimento, può essere considerata capace di intendere e di volere?

Intendere e volere cosa e a che scopo? Intendere il senso dell'azione? Delle conseguenze dell'azione? Se anche la strategia per uccidere la suora fosse stata studiata a tavolino e nei dettagli, mi chiedo piuttosto: Cosa si immagina che cercassero le ragazze di Chiavenna nella morte della suora? Cosa cercavano di così tanto sensato da motivare il giudice a verificare se le ragazze, al momento del delitto, fossero in grado di intendere il senso dell'azione e di volere il risultato che l'azione ha determinato ?

A un secolo dalla nascita della psicoanalisi, la nostra cultura e, particolare, il nostro diritto penale si concedono l'oscurantismo di avvolgere e soffocare in un'unica dicotomia "capace/incapace di intendere" la complessità del nostro agire e degli eventi che lo indirizzano!
E allora mi chiedo: A quali bisogni della nostra società risponde un diritto penale che chiede ai periti di decifrare se chi commette un delitto così manifestamente insensato abbia o no capacità di intenderne il senso?

Certamente la domanda appena posta ci carica di un gigantesco problema: possiamo lasciare impunito proprio chi spazza via il bene più prezioso, mentre puniamo invece chi (dimostrando maggior capacità di intendere e arrecando minor danno) sottrae al prossimo parte dei suoi averi?
Ebbene, in realtà anche quest'ultima domanda è mal posta. Chi arreca maggior danno è anche colui che c'è di meno, a maggior ragione quando non c'è nemmeno per trarre beneficio del danno prodotto (come nel caso in questione).

Il grave problema che ci troviamo fra le mani è allora: cosa fare di chi c'è di meno?
Pensiamoci insieme, parenti delle vittime, cittadini ed esperti, ma non fingiamo di credere presenti proprio coloro che non c'erano o che erano stati asserviti al ruolo di boia dai loro fantasmi interni.
Il mandante di quel delitto non può essere stato nessun altro che un fantasma.

La responsabilità delle tre disgraziate va cercata nelle tante occasioni in cui, nel periodo che ha preceduto il delitto, esse hanno preferito la compagnia dei loro fantasmi interni a quella degli amici con cui mettersi in gioco; fantasmi che ne hanno progressivamente ridotto la facoltà di valutazione e di scelta.

Paradossalmente, le loro più riconoscibili responsabilità coincidono con comportamenti che non sono punibili; al tribunale rimane la magra soddisfazione di valutare la punibilità della loro assenza.