Il dolore e l'arte

Rossella Dolce

2001

Durante questo corso avevo intenzione di comprendere come uno psicologo dovrebbe reagire davanti ad un crimine e soprattutto davanti alla persona che lo ha commesso.
Inutile dire che l'essere psicologo non preserva dall'emergere di sentimenti quali smarrimento, rabbia, disgusto, desiderio di allontanare il male dal proprio mondo, certo non viene voglia a nessuno di guardarlo dritto in faccia.
É anche vero però che il volto del male non è quello del criminale e che punire e rinchiudere il responsabile dell'azione deviante non è risolvere il problema.

Ed ecco a questo punto tornare viva la mia domanda: "come allontanare sentimenti che mi portano a disprezzare una persona con cui comunque mi devo rapportare?" Si può aiutare una persona che non si è in grado di perdonare? Ed è con queste domande che mi sono trovata a leggere un'intervista di Luciano Paolucci, padre del bambino ucciso dal pedofilo Luigi Chiatti. Paolucci dice: "l'essenziale non è perdonare, ma capire" e quindi mi sono concentrata sulla comprensione.

Per capire una cosa che non si concepisce bisogna necessariamente rinunciare ai preconcetti e addentrarsi nell'argomento, per quanto oscuro esso sia.
Winnicott parla del senso del furto e dell'irrequietezza del bambino. Alla base di tali comportamenti c'è la rappresentazione di ciò che al bambino manca e che quindi crea problema. Il furto, a questo punto, non è che il riappropriarsi di una cosa che già doveva essere del bambino e la cosa che è più importante per il bambino è la madre e il sentirsi costantemente presente nei suoi pensieri.

La conferma di questa teoria è data da una frase di Romeo, un detenuto del carcere di San Vittore facente parte del gruppo della trasgressione, che parla in un suo scritto della sua esperienza personale a proposito dei furti commessi durante l'infanzia: "quel sottile piacere di aver saputo portare il conto in pareggio, non riuscendo più a vivere sereno senza la degustazione di quel piacere".

Tutto ciò rappresenterebbe, quindi, una richiesta, una domanda mal esposta perchè non conforme ai codici espressivi normalmente utilizzati nella società, ma pur sempre una domanda.

Quel che più mi interessa è proprio lo stridore provocato nella società da una richiesta formulata come reato, diverso certo da quello causato, invece, dalla provocazione di un artista che dà voce al proprio malessere attraverso i canali dell'arte. Le implicazioni sociali nei due casi, infatti, sono estremamente diverse: nel primo si ha un una sensazione giustificata di paura per la società o addirittura per la propria vita, nel secondo si ha un arricchimento che può condurre a cambiamento e sviluppo.
Come risultato si ha un criminale additato e chiuso in carcere dove continuerà a costituire un problema per sé e per la società, mentre un giovane artista ottiene la sua prima mostra nell'attenzione ammirata della società. Da una stessa tendenza e pulsione vengono in questo modo a crearsi due destini così diversi.

Proprio nel campo della pittura esiste, però, un personaggio che ha espresso in tutta la sua produzione, e maggiormente in un'opera precisa, l'inquietudine universale che lui sentiva fortemente in sé stesso e nella realtà tutta: si tratta de "Il grido" di Edward Munch.

In questo quadro non c'è la descrizione di un fatto che avviene in luogo e in un tempo precisi, non è un uomo su un ponte che grida, si tratta di una rappresentazione. Non è un discorso, non un'articolazione, ma una reazione istintiva, un uomo solo che prova una angoscia profonda, primordiale, l'angoscia di cui parla Freud:

una risposta automatica dell'organismo ad un flusso di eccitazione non dominabile.

Questa angoscia che non si esaurisce nel volto rappresentato e nelle mani, ma continua nelle linee del mare che si uniscono in un turbinio di dolore alla spiaggia e si estende vorticoso fino al cielo, in linee sconnesse e illogiche, per tornare all'uomo attraverso le linee di forza del ponte. In tutta questa angoscia che, come dice lo stesso Munch, pervade la natura intera, due figure lontane sullo sfondo sembrano estranee o solamente ignare rispetto a quanto continua ad accadere, non è chiaro nemmeno se esse si stiano avvicinando o allontanando dal grido.

Ed ecco quindi la rappresentazione di ciò che costituisce problema: un uomo, estraneo ai canoni comuni, tanto da affidare solo al suo grido l'espressione di sé, si trova solo in un tempo e in un luogo indefiniti, dove non esistono né regole, né logiche se non le sue.
Questa è la descrizione di uno stato che tutti in maniera più o meno intensa possono sperimentare e ritrovare nel percorso della propria vita ed è in questa prospettiva che ritorna il concetto secondo il quale "il criminale non può essere rimosso perchè ci appartiene" ed è per questo che bisogna farci i conti.

Perchè alcune persone riescono a superare i confini della realtà imponendo nuove forme espressive e ampliando la realtà stessa, mentre altre riescono solo a romperla?
Winnicott parla di spazio mentale che permette alla persona di porsi nella realtà in modo positivo e creativo e di superare più facilmente gli ostacoli che in essa può trovare.
Lo spazio viene a prodursi durante il processo che porta il bambino dall'illusione di onnipotenza, grazie alla quale egli può fantasticare che i suoi bisogni vengano soddisfatti magicamente e senza alcuno sforzo, alla disillusione, quando i bisogni si scontrano con la realtà.

Questo scontro avviene con piccole frustrazioni crescenti somministrate dalla madre in modo che possano essere tollerate grazie alla fiducia maturata nelle proprie capacità durante la fase onnipotente dell'illusione. Il bambino acquisirà così fiducia nelle proprie risorse, tollerandone la momentanea incapacità ed iniziando ad utilizzarle in modo creativo.

Lo spazio viene a crearsi a questo punto tra la realtà così come è e le regole imposte dai genitori o comunque da chi rappresenta l'autorità riconosciuta dal bambino.
Quando lo spazio in cui mediare queste forze è troppo piccolo, si crea una tensione estrema, che non potendo essere contenuta, viene proiettata contro le regole e contro la realtà stesse che la causano: da qui l'impulso a trasgredire.
Ho ritrovato sempre nello stesso scritto di Romeo un esempio di quanto riportato sopra, infatti lui dice di aver trasgredito da piccolo perchè "io crescevo, gli altri me lo impedivano, ed io ho spostato la mia trasgressione soddisfacendo un bisogno che altrimenti non vedevo potersi realizzare diversamente" e poi che " la mia trasgressione ha assunto una forma di vendetta verso tutto ciò che non capivo e verso ciò cui non sapevo ribellarmi in modo positivo, consapevole del bisogno che nasceva a valle delle mie incompletezze".

Inoltre, gli interlocutori del gesto vengono sempre a coincidere simbolicamente con le persone a cui il deviante faceva riferimento per la costruzione del proprio spazio creativo, ovvero quasi sempre i genitori che assumono caratteri persecutori. Di conseguenza, quando la persona che ha commesso un reato si trova di fronte al giudice o a chi rappresenta l'istituzione, lo sente come padre sadico, oppure come un padre debole che può essere aggirato facilmente con una finzione, ma che mai potrà essere un padre buono che lo aiuta.
La visione del codice che ne deriva è quella di mezzo di punizione e non di guida: l'autorità perde la sua funzione di orientamento e rimane con la sola possibilità di misurare la gravità del reato e trovare la giusta punizione.

A questo punto, allora, proporrei un'analisi dei mezzi utilizzati dalla realtà carceraria, a favore della creazione di uno spazio creativo che è così importante. Nonostante la riabilitazione preveda attività di studio e lavorative, senza dubbio necessarie, lo spazio e il tempo in cui si trovano immersi i carcerati sono disincentivanti rispetto alla necessità di una riorganizzazione psichica delle immagini parentali interiorizzate e del proprio rapporto con le stesse.

Le vittime o i parenti delle vittime di un agito deviante cadono in un baratro in cui non esiste più alcun desiderio di conoscenza perchè "il dolore spegne la curiosità e non a tutti rimangono fiaccole per cercare" e, a questo punto, l'unica cosa che resta è la voglia di vendetta.

Questo discorso è più che comprensibile da parte di chi ha subito il torto, ma è valido anche per chi lo ha commesso e che nel suo dolore ha trascorso tutta la vita.
Il carcere punisce il reato distruggendo la vita deviante del detenuto, non lasciandogli nulla e non proponendo un'alternativa.

Ho avuto un esempio di questo processo, guardando il film "Le ali della libertà" in cui il protagonista, in carcere per un accusa di un reato che non ha commesso, viene accolto da un compagno di prigionia che gli dice "è la tua vita che vogliono ed è la tua vita che si prendono". Lo stesso detenuto che pronuncia queste parole esce dal carcere dopo poco tempo e, non trovandosi in grado di vivere nella società esterna, si suicida lasciando scritto "a nessuno credo dispiacerà per un avanzo di galera come me".

Il protagonista si chiama Andy ed è un bancario onesto che non ha mai avuto a che fare con la criminalità e si trova improvvisamente spogliato di tutto, tranne che della propria cultura e della speranza. Egli rappresenta la persona che si trova a contatto con l'oscurità del dolore e che, con i suoi mezzi, trova la via d'uscita per sé e per alcuni dei carcerati che vedono improvvisamente in lui la persona che può allargare il loro campo, il loro spazio.

La scena emblema del cambiamento è quella in cui Andy, dopo essere riuscito a costruire una biblioteca fornita all'interno delle mura, riesce a far diffondere da tutti gli altoparlanti del carcere, una melodia lirica che raggiunge ogni cella.


Un detenuto dice a proposito: "quelle due voci si libravano nell'aria ad un'altezza a cui nessuno di noi poteva sognare di arrivare, era come se un uccello meraviglioso fosse entrato nella gabbia in cui stavamo facendola dissolvere nell'aria, per un istante tutti gli uomini del carcere si sentirono liberi". Andy, per questo gesto, viene punito con due settimane in isolamento, ma, quando esce, ricorda ai suoi compagni quello che avevano ascoltato: la speranza, che nessuno avrebbe potuto togliere loro. Poco alla volta, riesce a convincerli che non ne devono avere paura perché è il loro unico mezzo per crescere, uscire ed essere liberi dentro e fuori dal carcere.

In questo film, il protagonista porta all'interno del carcere quello che ha, i mezzi con cui lui fronteggia la realtà e che riesce a infondere ad alcuni dei detenuti che, in questo modo, possono iniziare a costruire il loro futuro in modo creativo, ognuno secondo le proprie inclinazioni.

Ludovico Ariosto, usa le parole appropriate per descrivere ciò che ha fatto Andy e che dovrebbe fare sempre la legge o chi per essa:

"C'è solo una cosa, che può far tornare il senno a chi l'ha perduto: la poesia, ovvero lo stupore per la bellezza di quel che accade, anche se non assomiglia immediatamente a quello che vorremmo".


Andy ha portato ai suoi compagni di prigionia questa bellezza sotto forma di cultura e, inoltre, ha portato la spinta, la curiosità ad utilizzarli, facendo conoscere loro, appunto, la poesia della musica.

È questa la mia idea di funzione orientativa della legge, ed è questo obiettivo che, a mio parere, dovrebbe avere uno psicologo che si trova a rapportarsi con un detenuto: deve portare la fiamma di curiosità e bellezza della vita per dare nuovamente fiducia e speranza a chi si ritrova ormai solo con il dolore.