Donald Winnicott

una valigia di illusioni e una zappa


Angelo Aparo


La tendenza innata allo sviluppo

Winnicott, sulla scorta della sua esperienza pediatrica, si dedica allo studio dei primi processi evolutivi, offrendo una lettura fresca e fiduciosa dei momenti salienti che caratterizzano lo sviluppo individuale.

Il percorso evolutivo viene indagato, dal momento della nascita fino alla relazione dell'adulto con se stesso e col mondo esterno, come una progressione graduale dalla dipendenza infantile verso l'incontro con la realtà ambientale e sociale. Tale percorso, a differenza che in altri autori, avviene senza che il bambino sia mai costretto a perdere niente da cui egli stesso, per effetto della sua innata tendenza allo sviluppo, non si voglia allontanare.

L'eventuale crisi delle istanze emancipative viene sempre ricondotta a carenze o ad ostacoli esterni. Lo sviluppo psicologico verso l'indipendenza dalla madre e le relazioni sociali adulte, salvo incidenti di percorso, è graduale e costante, tanto quanto lo sviluppo fisico e delle funzioni dell'Io. All'ambiente esterno e, nei primi anni, alla madre in particolare spetta soltanto di fornire il sostegno e gli strumenti necessari al bambino per assecondare l'evoluzione cui egli è orientato dalle consegne del suo programma genetico.


La cellula duale

La particolare concezione che l'autore ha della condizione vissuta dall'uomo nelle prime settimane di vita può essere descritta a partire da due punti nodali: la continuità con la fase prenatale; la labilità dei confini fra madre e figlio. Secondo Winnicott l'evento natale diventa, o può diventare se avviene nella sua forma ottimale, un'esperienza non necessariamente traumatica ed anzi, tale da assecondare la naturale tendenza individuale allo sviluppo.

Tale concezione è del tutto coerente con quello che è certamente il principale caposaldo del pensiero winnicottiano e cioè che l'individuo si protende verso la propria individuazione, finché la frattura, che di volta in volta comporta la separazione dall'oggetto, non ecceda la sua attuale capacità di sanarla ad un livello psicologico più evoluto.

Coerentemente con la visione di ciò che egli ama definire l'esperienza (e non il trauma) della nascita, Winnicott evidenzia come nelle prime settimane di vita la dualità tra madre e figlio, sebbene interrotta dalla nascita sul piano fisiologico, si continua sul piano psicologico in maniera del tutto naturale. L'autore trova infatti che la cellula iniziale di cui indagare l'evoluzione non è il neonato, bensì il binomio madre-bambino. La diade iniziale viene così concepita come un organismo sovra-individuale, che con una parte di sé provvede a se stesso, finché l'altra non raggiunga l'autonomia necessaria a staccarsi e procedere autonomamente.

L'attenzione della madre verso il figlio si sviluppa come una tensione positiva che va oltre la scelta individuale e che invece si caratterizza come la continuazione naturale dell'alimentazione che il grembo materno ha offerto al feto durante la gestazione. Le cure prodigate dalla madre al figlio non sono considerate come una variabile esterna al bambino, bensì come uno dei tratti essenziali del patrimonio che egli possiede per svilupparsi.

Per Winnicott il bambino è una monade che non esiste. Dove c'è un bambino -egli dirà- vi sono anche delle cure materne che lo tengono in vita. Nei primi passi del suo cammino il lattante è seguito da una madre che per l'occasione vive una sorta di malattia, una preoccupazione materna primaria che essa contrae già dai primi mesi della gravidanza. Salvo ostacoli sul cammino, il processo evolutivo avviene in maniera del tutto armonica, con la naturale disposizione dei due nuclei ad autonomizzarsi dalla cellula che inizialmente comprende entrambi.

Da questa condizione il bambino si emancipa dilatando progressivamente lo spazio fra sé e la madre, cosa che viene resa possibile grazie al fatto che tale spazio viene a poco a poco popolato da oggetti capaci di catturare l'attenzione e l'investimento del bambino. Egli assume inizialmente gli oggetti come fossero parte di sé; il primo uso che ne fa è segnato dalla necessità di placare le sue tensioni interne (seno, biberon), ma, col tempo e col sostegno della madre devota, il bambino saprà utilizzare gli oggetti come un supporto per articolare le sue fantasie, che - in tal modo - lo condurranno dal primo e indispensabile stile onnipotente di relazione col mondo all'attività creativa e alla relazione con l'altro.


Illusione e disillusione

Se la madre, con i suoi interventi, consente al bambino di innestare sull'allucinazione positiva dell'oggetto l'effettiva esperienza dello stesso, questi comincerà ad accordare fiducia alla propria onnipotenza creativa e, contemporaneamente, a intraprendere i primi contatti esperienziali con la realtà esterna.

Gli oggetti esterni, infatti, se da un lato sostengono le prime illusioni del bambino, dall'altro, per il solo fatto di essere rintracciabili al di fuori dell'universo diadico, costituiscono una spinta all'emancipazione da esso. L'illusione, contrariamente a come viene presentata nella tradizione psicoanalitica, diventa mezzo per andare oltre quella dualità che abbiamo visto essere già di per sé funzionale alla crescita; mezzo per agganciare la realtà e non già per negarla (come avviene nel primo Freud) o per "tollerarla" (come Freud propone ne L'avvenire di un'illusione).

Singoli brani di realtà vengono infatti offerti al bambino proprio quando egli ne ha più bisogno, con il risultato di aggiornare rapidamente la ricchezza delle sue "allucinazioni" e di promuovere un suo movimento progressivo che va dall'allucinazione dell'appagamento tout court a quella dell'oggetto atto a produrlo.

L'accondiscendenza materna all'illusione del bambino (e non l'inefficacia dell'allucinazione freudiana) conduce gradualmente questo a incontrare oggetti reali che, mentre appagano i suoi bisogni primari, acquistano via via i contorni distinguibili dell'oggetto cui rivolgersi per placare lo stato di tensione. L'oggetto utile all'appagamento della pulsione assume gradualmente contorni sufficienti a essere prefigurato; al bisogno istintuale puro, il bambino può aggiungere finalmente il desiderio dell'oggetto parziale, che viene ora attivamente cercato.

Col primo coordinamento della mano sul seno, il bambino procede passo passo dall'allucinazione alla percezione; dall'illusione del controllo onnipotente sui propri bisogni istintuali al riconoscimento degli oggetti utili allo scopo (il seno offerto dalla madre "devota"). Adesso è pronto per la fase in cui la madre comincerà a disilluderlo; adesso si tratta di imparare a riconoscere che l'oggetto c'è, ma non è raggiungibile senza la mediazione dell'altro.

A poco a poco il bambino accede a quella autonomia che può essere raggiunta solo grazie alle graduali frustrazioni cui verrà sottoposto. L'emancipazione dall'universo diadico viene ora favorita dal graduale ritardo che la madre introduce nella risposta ai bisogni del bambino. Tale progressivo disattendere il suo desiderio dà avvio al processo di disillusione.

L'autonomia raggiunta e la crescente capacità di distinguere fra le esigenze istintuali e i desideri verso gli oggetti fanno sì che la risposta a tali desideri sia meno facile e scontata. E intanto, nello spazio disatteso dagli interventi materni, il bambino impara a coltivare i suoi desideri, intensificare la propria attività creativa e procedere sulla difficile strada del riconoscimento dell'altro.

Da "Modelli genetico evolutivi in psicoanalisi"; Aparo, Casonato, Vigorelli; Ed. ll Mulino, 1999