Per lui il bicchiere era sempre mezzo pieno


La Repubblica
13-Novembre-2000


Umberto Galimberti

Proprio perché non è una scienza, la psicoanalisi è una cultura mobile, mobile come la società che, per effetto delle sue continue mutazioni, esige letture psicoanalitiche che, messe a confronto, possono sembrare molto diverse. La cosa non deve scandalizzare, perché è proprio questa diversità ciò che rende la psicoanalisi di volta in volta adatta al contesto in cui si trova a operare. Oggi il contesto sociale è caratterizzato da quello che si è soliti chiamare "sano realismo", che di sano non ha proprio nulla. Esso prevede un completo adattamento dell'individuo alle richieste oggettive della società che, essendo sempre più tecnologizzata, tende a prediligere individui sempre più automatizzati (simil-macchine) rispetto a individui individualizzati. In un certo senso più uniformità alle esigenze dell'apparato tecnico, e meno creatività individuale.

Questo spiega perché oggi siano divenute egemoni quelle psicologie dell'adattamento il cui implicito invito è di essere sempre meno se stessi e sempre più congruenti all'apparato. Non diversamente si spiega il declino della psicoanalisi come indagine sul proprio profondo, e il successo del cognitivismo e del comportamentismo. Il primo per aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie dissonanze cognitive in modo da armonizzarle all'ordinamento funzionale del mondo esterno; il secondo per adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee che, se difformi, sono tollerati solo se confinati nel privato. Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l'"autenticità", l'"essere se stesso", il "conoscere se stesso", che l'antico oracolo di Delfi indicava come la via della salute dell'anima, diventa, nel regime della funzionalità dell'età della tecnica, qualcosa di patologico, come può esserlo l'esser centrati su di sé (self centred), la scarsa capacità di adattamento (poor adaptation), il complesso di inferiorità (inferiority complex).

Quest'ultima patologia lascia intendere che è inferiore chi non è adattato, e quindi che "essere se stesso" e non rinunciare alla specificità della propria identità, al proprio "vero Sé", come direbbe Winnicott, è una patologia. E in tutto ciò c'è anche del vero, nel senso che sia il cognitivismo sia il comportamentismo, in quanto psicologie del conformismo, assumono come ideale di salute proprio quell'esser conformi che, da un punto di vista psicoanalitico, è invece il tratto tipico della malattia. Dal canto loro i singoli individui, interiorizzando i modelli indicati dal cognitivismo e dal comportamentismo, respingono qualsiasi processo individuativo che risulti non funzionale all'apparato tecnico. In questo modo le psicologie a orientamento cognitivista e comportamentista perdono il loro oggetto specifico che è la "psiche", e gli individui "perdono l'anima", perché assumono, come vuole l'espressione di Winnicott, quel "falso Sé" che consiste nel completo adeguamento alle esigenze del mondo oggettivo.

Donald Woods Winnicott (1896-1971), prima di diventare psicoanalista, era un famoso pediatra inglese che, osservando i rapporti tra le madri e i loro bambini, constatò che, durante la gravidanza, la madre si ritira dalla propria soggettività e dall'interesse per il mondo per concentrarsi sui movimenti del bambino e sui suoi presunti bisogni. Quando il bambino nasce, la "madre sufficientemente buona" (nessuno è perfetto, e probabilmente la perfezione delle madri non fa bene ai figli) declina la sua esistenza alla soddisfazione dei desideri e dei bisogni del bambino. Ciò crea nel bambino un senso di onnipotenza soggettiva caratterizzata dall'impressione che siano i desideri a far accadere la realtà.

Se il bambino ha fame e desidera il seno, il seno compare. Se ha freddo e desidera il caldo, grazie alla madre che gli veicola il mondo, il caldo sopraggiunge. Questo ambiente favorevole, dove la madre "porta il mondo" al bambino senza ritardi e senza perdere un colpo, dà al bambino l'illusione che sia il suo desiderio a creare il mondo.

Sappiamo dall'esperienza della vita che nessuna persona sana di mente sarebbe disposta o riuscirebbe a fornire un'esperienza di questo genere a un'altra persona per quanto adorabile sia. Ma è proprio questo il punto. Per un provvidenziale scherzo della natura, quando una madre mette al mondo un figlio non è sana di mente e, grazie a questa forma costruttiva di follia temporanea, sospende la sua soggettività, per diventare un mezzo attraverso il quale il bambino sviluppa la sua soggettività come creatore del mondo. Poi la madre emerge da questa temporanea, ma costruttiva follia. Si interessa sempre di più al suo benessere, alla sua soggettività e la sensibilità ai bisogni del bambino comincia a diventare più pigra. Comincia a perdere un colpo, poi due, poi tre. A questo punto il bambino fa il suo impatto doloroso ma costruttivo con il mondo e, senza più il veicolo materno, incomincia ad imparare quanta distanza corre tra il desiderio e la sua soddisfazione.

All'onnipotenza soggettiva, sperimentata quando la madre veicolava il mondo appena il bambino manifestava un bisogno, si aggiunge l'esperienza di una realtà oggettiva che, entrando in una dialettica costruttiva con l'onnipotenza soggettiva precedentemente sperimentata, crea il "vero Sé", che da un lato non ignora il mondo e gli altri che lo abitano, dall'altro non ignora neppure le proprie esigenze che cerca di contrattare con gli altri, senza arrendersi in modo incondizionato. Se il bambino non sperimenta la prima fase, quella dell'onnipotenza soggettiva, perché non ha avuto la fortuna di avere una "madre sufficientemente buona", sarà costretto a scontrarsi troppo presto con gli ostacoli che presenta il mondo esterno e, al posto del "vero Sé", nascerà un "falso Sé" compiacente alle esigenze degli altri perché non ha fiducia di poter realizzare le proprie.

Esattamente quello che vogliono le società di massa conformiste e omologate, quelle all'insegna del "sano realismo" che proprio sano non è, utile solo a chi comanda, a cui fanno più comodo individui sottomessi piuttosto che individui creativi, che tali sono perché un giorno hanno fatto esperienza della creazione del mondo. Per correggere il "falso Sé" e consentire a ciascuno di diventare "se stesso", rendendo la vita un po' più difficile a tutti i capi e i capetti di questa terra, nonché alle organizzazioni politiche, industriali e istituzionali che questi presiedono, il trattamento analitico, secondo Winnicott, non deve basarsi tanto sull'interpretazione, quanto sull'accoglienza, per far ri-sperimentare al paziente quel senso di onnipotenza che da bambino non ha avuto modo di sperimentare, ottenendo come risultato un'incrinatura di base nella fiducia in sé.

Un esempio? Racconta Winnicott di una giovane paziente che nel mondo si comportava come una persona da tutti bene accetta e ritenuta fidata, ma che non si sentiva una persona, anzi non si sentiva niente (sindrome questa oggi purtroppo molto diffusa). Decisiva nella cura, riferisce Winnicott, fu la sostituzione dell'orario regolare delle sedute con sedute "a richiesta", ma soprattutto il tempismo.

Quando la ragazza si avvicinava alla porta e sollevava la mano per suonare il campanello, Winnicott, che ne scrutava l'arrivo da dietro le tende, apriva la porta, come se si fosse improvvisamente materializzato per il desiderio di lei. Con questo gesto di accoglienza Winnicott si proponeva di ricostruire e di far rivivere l'aspetto favorevole del mondo così importante per la costruzione di sé che la paziente non aveva mai sperimentato per non aver avuto una "madre sufficientemente buona", e quindi capace di farle vivere in modo gratificante la fase della soggettività onnipotente utile da ripescare nelle fasi critiche della vita.