IL MANIFESTO - 28 Maggio 2003

Perché ci si uccide?

Per impotenza, rabbia, rancore

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Emanuele Bissattini

Dottor Aparo, chi si uccide in carcere?

Gente di età diversa, di estrazione diversa, che ha commesso diversi reati. Si uccidono ricchi e poveri, chi si è giocato la vita con 12 anni di eroina e chi ha pene brevissime ma teme, più o meno fondatamente, di non poter più recuperare. L'elemento comune è costituito dal «materiale psichico» di chi si uccide, che deve essere compatibile con l'idea del suicidio. Su quello, certo, agisce in modo pesante l'ambiente carcerario.

Come?

Il carcere accresce facilmente l'odio, la rabbia, il rancore nei confronti dell'esterno, del giudice, di quello che ti ha fatto arrestare, di chi puoi in qualche modo identificare come responsabile o corresponsabile dello stato di detenzione. E che non puoi in nessun modo raggiungere. In carcere non hai alcuno strumento per far valere i tuoi sentimenti, che ti ricadono addosso. Così alla rabbia si aggiunge il senso di una profonda impotenza.

Che non puoi sfogare.

Che non puoi indirizzare in maniera creativa. Fuori, se hai problemi con tua moglie puoi parlarle, cercare di fare qualcosa. Dentro, invece, senti tutto il peso della solitudine e dell'impotenza. Il carcere ti segna, fino ad autorizzarti a non avere più alcuna fantasia percorribile. E poi quando ti uccidi in fondo hai in mente qualcuno. Qualcuno che ti ha abbandonato e merita di essere punito, oppure che ti ha rovinato la vita. Qualcuno che non puoi aggredire se non uccidendoti.

Perché i suicidi si concentrano soprattutto nel primo anno di detenzione?

Perché nel corso del primo anno non c'è modo di «resettare la testa», le proprie fantasie, i propri progetti. Ad inizio pena pensi che perderai tua moglie, i tuoi figli, gli affetti. Non credi di avere le risorse necessarie per cambiare vita. E poi tutti i sentimenti di ostilità che nutri bollono come magma nell'Etna. E allora esplodi.