Forum

Sara Bellodi


Volevo esprimere un pensiero riguardo a una delle ultime cose dette ieri...ma ormai erano già le 17.30 passate.

Ho un dubbio, quasi una paura, non so se motivata o meno: vorrei che tutto quello che stiamo facendo non scivolasse nel buonismo, nè da parte nostra, nè da parte di coloro che da fuori ci vedono entrare in carcere e pensano che, in qualche modo, andiamo a portare conforto a qualcuno che ne ha bisogno. Io penso che non sia affatto così.

Concordo sul fatto che non è detto che le persone che stanno fuori siano sempre necessariamente più oneste delle persone che stanno dentro, ma perdonate la franchezza, trovo che il concetto, così come è stato espresso da Tiziana, sia una generalizzazione superficiale che non può rappresentare in alcun modo la nostra posizione.

Il carcere è una realtà concreta, fisica, innegabile.
Pur credendo che le persone pericolose possano essere anche quelle fuori in giacca e cravatta, non credo assolutamente che, solo per questo, le persone dentro diventino migliori di altre. E' un discorso complesso, su un campo minato, e vorrei che nessuno, nè tra il gruppo della trasgressione interno nè tra quello esterno, fraintendesse.

Io credo che dentro al carcere ci siano persone non peggiori di altre, ma nemmeno migliori, che in qualche modo hanno commesso un reato che è stato punito (e concordo che il sistema carcerario possa anche essere inutile sotto certi punti di vista, ma sta di fatto che esiste).
Se non è compito nostro giudicare, credo che non lo sia nemmeno giustificare, e tantomento ricorrere ai luoghi comuni!

E' vero che la cattiveria subdola può essere altrettanto deleteria, come dicevano ieri Pippo e Tiziana, ma questo non significa che i reati "manifesti" siano meno gravi, anzi.
Vorrei che si evitasse di arrivare a pensare che le persone dentro sono migliori di altre, vorrei che non arrivassimo mai a giustificare, e la mia paura è che ricorrendo ai luoghi comuni si arrivi a questo.

Io credo che un atteggiamento del genere non possa giovare a nessuno, nè a noi studenti, nè tantomeno ai detenuti.
Credo che Ivano abbia centrato il punto della situazione quando ha detto che se, a vent'anni, avesse incontrato nel carcere persone come noi, in grado di "avvicinarlo" allo società, forse avrebbe avuto più occasioni di riflettere e non sarebbe ritornato in galera. L'occasione di riflettere non nasce dal trovare giustificazioni, ma anzi, dal guardare le cose con spirito critico. Per guardare le cose con spirito critico, secondo me, è bene superare i luoghi comuni.

Mi sembra palese che nessuno di noi, dal momento che entra in carcere, abbia pregiudizi sui detenuti, e siamo tutti d'accordo nel restare lontani da un atteggiamento giudicante, ma dovremmo essere altrettanto distanti da un atteggiamento buonista, che confonde ancora di più le cose. Se così facessimo, rischieremmo di creare, per sfatare un pregiudizio, un altro pregiudizio.

Tutti i detenuti ieri hanno ribadito, chi più chi meno, il concetto che vogliono "capire", e credo che questo sia l'essenza del giusto percorso.
Ma penso che per capire noi stessi e per offirire agli altri spunti di comprensione dire che la gente fuori è peggio di quella dentro non serva a nulla.

Sinceramente non credo nel potere assoluto dell'amore.
Concordo sul fatto che sia importante, che avere qualcuno accanto possa essere a volte vitale, ma non credo che, di per sè, sia sufficiente a risolvere dei problemi e a crescere.
La mia paura è che questo "amore" sfoci nella giustificazione, nell'invischiamento affettivo e nella perdita di senso critico.

Ecco! Il senso critico, penso che sia più importante dell'amore. Penso che l'amore non basti a far nulla laddove manca un minimo di senso critico, di capacità di riflessione.

Diego ieri ha ribadito che Aparo gli ha detto una cosa che suonava pressapoco così "Quando non hai nessuno con cui parlare, fai in modo di trovare dentro te stesso un interlocutore che sostenga un'altra parte". Credo che non basti offire amore o amicizia o comprensione, credo che sia necessario offrire a se stessi e agli altri dei motivi su cui riflettere, dei percorsi da affrontare, per "capire" come dicevano tutti ieri.

Credo che il nostro compito, se di compito si può parlare, non sia offrire assoluta e incondizionata comprensione, ma degli spunti per crescere insieme, per affrontare un percorso insieme, ma un percorso critico che arricchisca entrambe le parti.
Non ho dubbi sul fatto che questa esperienza arricchisca noi studenti e i detenuti, purchè si basi su uno sforzo critico e reciproco di crescita, personale, gruppale.

Ho fiducia e stima nei detenuti del nostro gruppo al punto da essere convinta che siano in grado di impegnarsi in questo, e sono convinta che un pezzo di società che entra in carcere debba portare la possibilità di confrontarsi e di riflettere più che la comprensione e il perdono; a quello, per chi crede, pensano i preti.
Credo che la sola cosa che noi possiamo offrire ai detenuti e che loro possono offrire a noi siano dei pezzi di realtà e di esperienza su cui riflettere e interrogarsi, ma per crescere, per arricchirsi, non per giudicare nè per giustificare.

Un'altra cosa....
Io non credo che siamo tutti uguali, che noi e i detenuti siamo uguali; questo penso che sia un altro luogo comune di vaga accezione cristiana, ma un po' poco critica.
Non fraintendete, è ovvio che siamo tutte persone, ma questa esperienza credo che nasca e trovi senso in funzione di una differenza: noi siamo studenti, una parte di società libera, che entra dentro il carcere per incontrare altre persone che libere non sono, e che vivono necessariamente un altro aspetto della società.

Finchè noi restiamo, pur condividendo il senso di appartenza a un unico gruppo, la parte di società esterna che entra, possiamo portare qualcosa di costruttivo, un confronto, dei pezzi di realtà che sta al di fuori delle mura di cemento del carcere.

Quello che volevo dire è: siamo uguali in quanto persone, e su questo vorrei che non sussistesse alcun tipo di pregiudizio, ma non dobbiamo "confonderci".
La nostra è un'esperienza che trae la sua utilità dal confronto fra vite diverse, fra menti diverse, fra obiettivi che, almeno in passato, sono stati diversi e fra risorse che, purtroppo, forse rimarranno diverse anche dopo che chi oggi è detenuto uscirà dal carcere; ma solo la consapevolezza critica di questa differenza può portare a un arricchimento reciproco, a uno sforzo congiunto, alla riflessione. Un'amalgama indistinto porterebbe a perdere di vista l'obiettivo che ci prefiggiamo; non dobbiamo adattarci gli uni sugli altri, diventare un tutt'uno, ma "alimentarci" a vicenda.

Bene inteso! Quando parlo di differenza non mi riferisco assolutamente a una considerazione di tipo "buoni e cattivi"; quando dico di mantenere la differenza non intendo "non sporchiamoci con il fango". Credo che di fango non ce ne sia da nessuna parte, a patto che ci si impegni reciprocamente sulla base delle differenze personali che sono i soli strumenti di cui disponiamo.

Non sono affatto pessimista, ho grandissima fiducia in questa esperienza, ma credo che il suo valore consista nei passi che sapremo fare insieme, passi che sono cominciati già col nostro primo miniconvegno; non credo sia dovuto al caso che i nostri incontri si chiamino "Luci e ombre nel quotidiano, nel delitto, nell'arte"; mi pare evidente che siamo chiamati a interrogarci insieme, sfruttando le rispettive differenze, dubitando dei luoghi comuni.

Credo che Ivano abbia centrato un bersaglio quando ha detto "L'altra volta mi avete salutato ringraziandomi e io ho cominciato a interrogami sul perchè, e non riuscivo a dormire...".
Forse è questa l'essenza dell'esperienza.