Una vita riletta

 

Erika Riva

Qualche anno fa intrapresi una corrispondenza con un condannato a morte del Texas. Pur conoscendo la sua vita e i motivi "apparenti" che l'avevano spinto a uccidere, le zone d'ombra sul reale "perché" erano ancora molte. Come poteva un semplice bisogno materiale spingere a calpestare una, più vite? Era davvero tutto lì? Non potevo crederci, qualcosa non quadrava.
Ora, grazie a quanto appreso nel corso del professor Aparo, ho potuto far luce su molti punti e vorrei rileggere la vita di Delbert (così si chiamava), come esempio delle dinamiche che portano alla trasgressione, alla devianza.
Alcune poesie di Delbert

 

Premesse del senso di emarginazione

Delbert cresce in una famiglia unita, e questo potrebbe essere atipico per un futuro deviante, ma in un ambiente sociale estremamente marginalizzato: il padre è un immigrato irlandese che non conserva assolutamente traccia delle sue origini; cambiando paese si è lasciato alle spalle una vita che non sa o non vuole ricordare, una vita certo non facile che lo porta a emigrare.Viene così a mancare la trasmissione di un patrimonio di tradizioni che poteva dare stabilità alla famiglia e alla figura paterna.
La madre è un'indiana Cherokee; è noto che questi gruppi etnici vivono in condizioni misere, spesso confinati in riserve naturali, dove la loro identità di nativi d'America viene deumanizzata e svuotata di significato.
Fino a 8 anni Delbert vive in un microcosmo che ai suoi occhi è perfetto, ma che in realtà è completamente inadeguato a prepararlo al materialismo consumista del resto della società: cresce sotto la supervisione dei parenti materni, tutti cherokee, che lo educano secondo valori di vita "indiani", valori fortemente incentrati all'interiorità, alla spiritualità, in aperto contrasto col modello culturale occidentale centrato sull'individualità.

Fino a quando vive nella comunità indiana Delbert ha tutti gli strumenti adeguati per esprimersi ed ha il suo spazio. Ma quando con la famiglia deve trasferirsi in città tutto cambia:

  1. la distanza tra il modello culturale appreso nell'infanzia e la realtà è evidentissimo e stridente

  2. l'ambivalenza verso le figure genitoriali inizia a farsi strada: i modelli che ha interiorizzato e i loro valori sono ancora validi ed è la società ad essere "sbagliata" o sono i genitori stessi ad essere inadeguati? Sono ancora contenitori efficienti? Può contare su di loro?

    L'individuazione-identificazione che implica la separazione dalla madre è già avvenuta, ma il successivo consolidamento dell'io viene reso difficile dalle circostanze: di fronte a una realtà sconosciuta Delbert non può fare affidamento sull'interiorizzazione delle figure parentali e dei loro valori, gli mancano i supporti per reagire a una serie infinita di disillusioni che coinvolgono le radici su cui poggia il suo giovane io (la nuova vita sembra la negazione di quanto appreso in precedenza).

    La madre non può supplire ai suoi nuovi bisogni; non ha la possibilità di svolgere la funzione della "madre sufficientemente buona" di Winnicott: non può perché è lei stessa priva di mezzi; anche lei alla pari del figlio vive ai margini della società.

  3. il nuovo contesto sociale è fortemente ostile: la scuola pubblica è fra le più povere, l'inserimento è difficile (prima frequentava una piccola scuola dove si conoscevano tutti), i bambini girano armati;

  4. l'immagine di sé si incrina mentre i suoi strumenti, le sue risorse sono inapplicabili al nuovo contesto; non trova nello spazio codificato condizioni per esprimersi e crescere; i codici espressivi della sua infanzia sono ora inutilizzabili.


Dinamiche della trasgressione

Ora la sua vita è regolata da nuove norme. Ma la norma che dovrebbe tutelare l'intera popolazione è ai suoi occhi una comunicazione poco attendibile, in aperto contrasto con le sue esperienze di vita: nessuno è tutelato all'interno del nuovo mondo cittadino dove la violenza è ovunque (svalutazione della norma e senso di precarietà)

L'immagine onnipotente di sé è crollata insieme ai suoi ideali infantili. E' necessario rimetterla in sesto, pomparla per avere conferme. Serve qualcosa di forte contro cui confrontarsi, serve lo scontro con un limite (l'autorità) che:

 

Non rimane che trasgredire
Nell'atto trasgressivo possiamo leggere una richiesta di aiuto più o meno esplicita che il ragazzo mette in atto per trovare soluzione a un problema che sembra non avere soluzione.
In questa forma di comunicazione passato e presente si fondono: nuove persone, relazioni, scenari, vengono investiti di tratti provenienti dal passato del soggetto (una figura genitoriale carente, una relazione problematica infantile si incarnano nelle relazioni attuali…).
Il futuro deviante "recita" sperando di giungere a una conclusione diversa da quella fallimentare sperimentata nell'infanzia.
Nel caso specifico Delbert aveva bisogno di trovare sia figure di riferimento più solide e stabili in grado di fornirgli una guida, qualcuno da emulare positivamente, sia codici espressivi nuovi e appropriati (senza però dover rinnegare tutti i valori del suo passato di cui si alimenta ancora il suo io) e uno spazio cui applicarli per far emergere la sua nascente identità sociale di giovane adolescente.

Così a 14 anni decide di andarsene di casa e lasciare la scuola (nonostante l'obbligo sia fino a 16 anni) perché, mi scriveva, "non potevo imparare la vita in una classe". D'altra parte, secondo quanto appreso da bambino, fra gli indiani a 14 anni si è già adulti, ma nella nuova realtà cittadina non c'è nessun tangibile rito d'iniziazione che lo dimostri.

La reazione del padre, che non ostacola la sua scelta di lasciare tutto, suona come disinteresse verso l'implicita richiesta di aiuto di Delbert: lasciare nelle mani di un quattordicenne la più totale libertà di decidere della propria vita può essere stato vissuto dal ragazzo come un disinteresse generale per la sua persona e la sua incolumità (ancora carenza di punti di riferimento). Come l'autoritarismo, anche l'eccessivo lassismo provoca i suoi danni: niente trasmissione di ideali, di valori guida, di impegno e progettazione del futuro.

E' nata in lui una frattura, un contrasto tra modelli infantili e modelli attuali. C'è un conflitto che Delbert deve riuscire e sanare: deve integrare le parti più arcaiche del suo sé (quelle legate al modus vivendi indiano) con quelle che stanno maturando alla luce di nuovi valori (quelli della società occidentale). Purtroppo D. si trova senza supporti per affrontare le spinte dinamiche al cambiamento: non ha modelli da seguire né tra le figure del suo passato né tra quelle del suo presente. Rischia di rimanere immobilizzato tra spinte narcisistiche regressive (volte a proteggere le tracce del narcisismo infantile) e spinte emancipative che lo porterebbero ad assumere un'identità più stabile e definita.

La trasgressione lo porta sul mondo della strada, dove incontra solo emarginati, poveri, delinquenti, immagini di vita che gli riconfermano l'inadeguatezza della società in cui vive, l'incapacità dello Stato nel prendersi cura dei suoi figli. Non conosce amici né qualcuno cui fare affidamento: ha solo se stesso, oltre tutto un se stesso instabile e zoppicante. Nelle nuove condizioni, al contrario di quanto credeva, è ancora più difficile farsi spazio: in quel mondo di strada non valgono le comuni regole sociali, lo spazio lo si conquista solo con la violenza; unico modo per acquistare un'immagine sociale dignitosa è quello di imporsi.
E così la conquista di strumenti per agire sulla realtà coincide con la conquista di visibilità sociale attraverso il furto, la rapina, l'infrazione della legge.


Ultimo appello all'istituzione
Dal momento in cui inizia la serie dei furti, Delbert rivolge la sua inconscia richiesta d'aiuto non più ai genitori ma all'autorità, in quanto depositaria dell'idealizzazione delle figure parentali. In virtù della sua funzione di guida, l'istituzione dovrebbe fornire codici e direttive adeguate tali da mettere il cittadino in condizione di agire costruttivamente sulla realtà traendone benessere.
Ma dall'esperienza di D.nel corso degli anni questa funzione è stata sempre disattesa.
La sequenza dei furti e la coazione a ripetere gli stessi atti devianti possono essere letti in chiave comunicativa: sono anch'essi domande d'aiuto poste a un interlocutore indefinito ma esistente (autorità), interlocutore tenuto a rispondere, a colmare i vuoti creatisi negli anni e a fornire parametri adeguati di lettura della realtà.
Ecco che il furto diviene sintomo, espressione di qualcosa per cui non si trova soluzione. Più la situazione è problematica più diventa necessario e compulsivo ripeterla.

Elusione della richiesta d'aiuto
Quando D. viene arrestato per rapina gli basta pagare una cauzione per essere di nuovo in libertà; non si presenterà mai a nessun processo, iniziando la sua vita da "wanted", portando avanti con sempre maggior determinazione la sua personale sfida contro l'autorità e la sua inadeguatezza. Liquidando con il pagamento di una penale le sue richieste di aiuto (sotto forma di furto) lo Stato ha fornito una risposta superficiale: la domanda di D. è stata disattesa. A questo punto emerge una contraddizione di fondo: se da un lato lo Stato non accoglie le sue richieste d'aiuto sottovalutandole (basta pagare e sei fuori), dall'altro però lo marginalizza marchiandolo con il timbro del ricercato (per quegli stessi errori che lo Stato non ha preso in seria considerazione).

 


Una vita in nome della sfida

Essere etichettato come ricercato fa aumentare in Delbert la rabbia e non fa che confermare l'idea negativa che si era fatto su autorità e società in generale. Ma con la rabbia cresce anche il desiderio di rivalsa, di affermazione, in un mondo che sembra volergliela precludere.

Tutto questo alimenta il piacere della sfida: in ogni rapina, ora che è ricercato, trova un surplus di adrenalina e ogni volta che la fa franca il suo ego ne vien fuori accresciuto, guadagna in illusioni di onnipotenza.

Non avendo avuto a disposizione modelli autorevoli adeguati (o meglio avendoli contrastanti:ideali indiani vs occidentali), D. non è stato in grado probabilmente di interiorizzare in modo socialmente corretto la nozione di limite. Per lui il limite non può assolvere la funzione di guida (in quanto emanato da autorità incompetenti); esso è semplicemente una catena che frena la sua libertà, circoscrive le sue azioni. Valicarlo vuol dire essere più forti, onnipotenti, nell'illusorio tentativo di incidere sulla realtà e modificarla.

Anche le funzioni super-egoiche sono carenti, inadeguate perché nella mente di Delbert non c'è autorità all'altezza di portare quel nome.

La sfida, idealmente, dovrebbe essere una sorta di progetto evolutivo, col quale chi la intraprende si prefigge un obiettivo da superare che lo porterà a lavorare su se stesso e a migliorarsi. Ma la sfida di Delbert non è una sfida "onesta": è senza regole, è un tentativo generico di scardinare l'autorità, non ha concorrenti concreti, non implica alcun lavoro su di sé. Unico scopo è ottenere immagini riflesse della sua onnipotenza infantile perduta. E questa onnipotenza non è una chiave per l'emancipazione, ma per la regressione, è fare passi indietro, è non avere aspirazioni future, è vivere solo i fantasmi del passato.
La ricerca di riflessi d'onnipotenza probabilmente è la stessa che lo porta a fare uso di droga: le droghe, con il loro illusorio potere di liberazione dal mondo, garantiscono una soluzione immediata (e altrettanto effimera) ai problemi: chi l'assume ne ricava un'idea di crescita del sé, di maggiore controllo degli eventi, che in realtà mascherano l'incapacità di confrontarsi con il mondo.
Anche la droga ha la sua alta dose di rischio: l'assunzione, se non è letale, dà al soggetto un feedback di potere sugli eventi, sul mondo, sul destino. (so maneggiare qualcosa di pericoloso e lo piego al mio volere).

 

Micro e macroscelte
In un susseguirsi di sfide sempre più ardite, in un incessante ricerca di identità e stabilità, D. passa a crimini più audaci. Una volta scelta la via del furto, la resistenza verso successivi si fa sempre più debole, la spinta ad andare oltre è sempre più forte.
D. è ancora giovane, sa che sta superando un confine, ma non coglie tutte le conseguenze sociali e morali delle sue scelte.
Contemporaneamente allo sviluppo di "competenze" a delinquere, i possibili investimenti in attività alternative non delinquenziali si riducono, così come la gamma delle scelte comportamentali disponibili al di fuori della realtà del furto (l'unica ormai a costituire un punto stabile di riferimento).
Si arriva al punto in cui una serie di microscelte apparentemente di scarsa rilevanza porteranno il deviante in situazioni di maggior impatto sociale e rischio, che potrà affrontare con una gamma ristretta di comportamenti: si tratterà allora di macroscelte di vita, sempre più definitive, sempre più irreversibili.

In questo concatenarsi di eventi D. procede sulla strada della devianza: continua a rubare, fa uso di droghe, finchè un giorno durante una rapina con un amico spara a 3 persone uccidendole. E' sotto l'effetto di stupefacenti.
Il verdetto è inequivocabile: lo aspetta la pena di morte. Ha 24 anni.

 

Lo spazio carcerario

Ellis I Unit; Huntsville, Texas

Il tempo: nel carcere il tempo è sospeso, sospeso in attesa della morte, sospeso in attesa di un atto di clemenza del Governatore. Il tempo è un nemico da sconfiggere; il ripetersi delle azioni toglie personalità, dignità, senso critico, svuota di contenuto la persona e i suoi atti; tutto diviene automatizzato, scandito dai ritmi del carcere.

Lo spazio è a sua volta vissuto come imposto e, per questo, estraneo. E' regolato dalla modalità della detenzione dove tutto è sinonimo di chiusura; chiusura non solo fisica, ma anche interiore. Allora com'è possibile trovare quello spazio interno necessario ad amalgamare le parti di sé contradditorie? A metabolizzare quanto è accaduto? A interiorizzare il delitto commesso?
E come riuscire a recuperare uno spazio per esprimersi, quello spazio mancante, originaria causa del disagio?

L'attesa è l'altra grande nemica del detenuto: in carcere non ha controllo sugli eventi né sulle relazioni. La vita è scandita dai ritmi dettati da un'autorità estranea e lontana, le cui scelte rimangono fino all'ultimo ignote per il detenuto. Quando e come vedere la famiglia è arbitrio altrui
In questo clima ogni ritardo dell'evento atteso,ogni imprevisto anche minimo è fonte di grande angoscia. Ancora di più in una struttura carceraria come quella americana dove è prevista la pena di morte.
D. mi parlava delle estenuanti attese per i colloqui con gli avvocati, per i ricorsi in appello, per le risposte del governatore…e ogni giorno poteva essere l'ultimo.
"Come può qualcuno spiegare cosa significhi svegliarsi ogni mattina e guardare in faccia la morte?"

Inibizione delle spinte costruttive
La vita da internato implica l'impossibilità di impegnare energie costruttive per trasformare il proprio ambiente. Le frequenti perquisizioni, vissute come altrettante violenze, rendono impossibile percepire l'ambiente come "proprio". D. mi raccontava di come non gli avessero permesso di tenere nemmeno le sue foto, unico filo che lo legava al passato, oltre alla memoria.

Infantilizzazione
L'internato si trova nella condizione di non potersi prendere cura dei parenti (D.aveva una moglie e tre figli), anzi regredisce alla posizione infantile di chi deve essere accudito, di chi deve dipendere dagli altri in tutto ( soldi, vestiti …).Questa condizione viene percepita con ancora maggiore forza nel sistema carcerario di Huntsville, dove è proibito ai parenti portare qualsiasi cosa al detenuto ad eccezione dei soldi. Tutto ciò che gli occorre (abiti, sapone, carta da lettera…) può essere acquistato esclusivamente all'interno del carcere (innescando un giro di guadagni non indifferente, e aumentando il senso di dipendenza).

Identità e dignità
La mancanza di spazi, risorse, mezzi, non può certo portare alla maturazione del detenuto che in carcere non ha i mezzi per costruire quell'immagine di sé stabile che gli manca. Egli non ha più un nome, è solo un numero fra tanti, è anonimo. Viene spogliato, privato degli affetti che ha, perquisito.
Quello che più temono i detenuti di Huntsville è finire nel cimitero del carcere:"the ", così lo chiamano. Niente nomi, cognomi o epitaffi: solo una croce di legno bianco con un numero, a indicare il punto in cui giace un morto senza identità; l'unica cosa che rimane, anche dopo la morte, è l'indelebile marchio del carcere, un numero che non può riassumere una vita, un numero senza dignità, che continua a ricordare l'errore commesso.
Per evitare quella fine D. mette accuratamente da parte i soldi che è costretto a chiedere agli amici,"come un mendicante" mi diceva , per essere cremato. Piuttosto che finire al" "ha firmato per dare il suo corpo alla scienza.

I familiari
Non solo il detenuto non può più instaurare un rapporto normale con i suoi cari, ma la sua condizione di emarginato investe anche loro.
Dopo la morte del padre,che provvede a lui economicamente, la famiglia di D. si disgrega ,non ha più notizie né dalla madre né dai fratelli; sono semplicemente "scomparsi" ( aggravando la sua situazione economica e non).
Per evitare a moglie e figli di dover vivere da emarginati e per dar loro l'opportunità di ricostruirsi una vita migliore, con qualcuno di stabile e solido, D.decide di divorziare dalla moglie, pur amandola ancora molto. Il prezzo tuttavia sarà il totale isolamento affettivo.

 

Chi è Caino e chi è Abele

Analizzando criticamente l'esperienza di D. possiamo giungere a svariate riflessioni:

La società: sicuramente essa è un puzzle di cui tutti noi facciamo parte. Se da un lato siamo quindi costruttori, dall'altro siamo anche prodotto dell'ambiente in cui viviamo.Troppo spesso tuttavia la società non sa educare o, come nel caso di D., non sa integrare i suoi figli in uno spazio che appartiene loro e, nel momento in cui sbagliano, si scarica di ogni responsabilità, dimenticando o negando totalmente il parziale ruolo di vittima del carnefice.

Una volta che il danno è stato fatto non è più risarcibile, ma potrebbe essere alleviabile. Non intendo certo dire che il deviante possa rimanere impunito! Ma ancora una volta la società non mette il colpevole in condizioni di poter riparare, lo emargina, lo riconosce altro da sé (mentre ne è parte), non gli permette di riscattarsi un poco agli occhi delle vittime.

Lo Stato: paragonabile a un grande padre che dovrebbe garantire a ogni suo figlio lavoro, assistenza, giustizia sociale…Alla luce dei fatti tuttavia risulta spesso un padre fallimentare e inaffidabile: riesce solo ad applicare la sua funzione coercitiva senza farla seguire da quella di guida e recupero; si ferma alla misurazione della trasgressione, a cercare un equilibrio tra pena e danno, equilibrio effimero perché, ricorrendo esclusivamente alla detenzione, non potrà né alleviare il dolore di Abele, né recuperare e riabilitare Caino.

Nel caso di quei paesi che applicano la pena di morte, poi, la contraddizione interna alla figura dello Stato-padre è ancora più evidente: punisce la violenza con la stessa moneta, legalizzando l'omicidio sotto forma di pena di morte, con tanto di pubblico: una via per soddisfare l'immediata sete di vendetta della vittima, come se un altro omicidio bastasse a ristabilire equilibri compromessi.

La pena: delle sue molteplici funzioni (punitiva, di recupero, di reinserimento, deterrente…) finisce per esercitare solo quella punitiva; tanto più in Texas dove una seconda possibilità è esplicitamente negata: il deviante sa che prima o poi morirà, senza avere avuto la possibilità di riscattarsi, di mettere a frutto di altri le sue esperienze, nel bene e nel male. E' una pena che rappresenta soprattutto il principio individuale della vendetta (assolutamente comprensibile nella vittima), che però non permetterà mai l'incontro tre vittima e carnefice, aumentando la voragine fra società e detenuti.
E' una pena calcolata in anni, come la vita dell'uomo, forse in alcuni casi un periodo eccessivamente lungo per permettere una volta usciti ( se) di rifarsi una vita.
Delbert entra in carcere a 24 anni; dopo 15, a 39, viene giustiziato.

La vittima: comprensibile e naturale l'odio, il rancore, il desiderio di vendetta verso chi ha procurato tanto dolore. Ma chiudersi in se stessi non serve, vorrebbe dire riprodurre ogni giorno lo stesso lutto senza via d'uscita.
E' anche vero che lo Stato non offre al cittadino alcuno spazio istituzionale per elaborare e metabolizzare il trauma subito. Non disponendo di strumenti adeguati per una rivisitazione del delitto in chiave emancipativa, lo Stato non fa che fomentare il desiderio di vendetta, che a sua volta limita nelle vittime il desiderio di capire cosa c'è realmente alla base del reato. La frattura fra società e carcerato è a questo punto quasi insanabile.

 

Interventi possibili e bisogno di dialogo

Lo psicologo penitenziario: la sua figura, introdotta nel carcere dal 1975 ha ancor oggi una funzione poco definita, con un compito di "osservazione e trattamento" non ben identificato: dovrebbe delineare il quadro personologico del carcerato e individuare quegli interventi utili a fargli sviluppare comportamenti sociali più sintonici. Ma il colloquio non si dimostra mai semplice sia per il contesto in cui si svolge (cella spesso priva di oggetti più banali come le sedie), sia per le modalità di dialogo che s'instaurano tra la figura del deviante e quella dello psicologo:

 

Gruppi di dialogo
Probabilmente la soluzione migliore per riabilitare il deviante da un lato e ridurre il gap fra detenuto e società dall'altro è quella di riuscire a creare le premesse per un costruttivo confronto vittima-carnefice, come è avvenuto all'interno del gruppo della trasgressione.
In questo modo si stimola la società esterna a non espellere le contraddizioni alla base dell'atto criminale e che affondano le radici nel contesto sociale stesso.
Le vittime possono trovare uno spazio per elaborare i vissuti di un lutto, possono cercare di capire. D'altro canto il detenuto potrebbe analizzare criticamente ciò che l'ha spinto ad andare fuori strada per "accettare" la pena senza farsi annullare e integrare quella parte "oscura" di sé per trovare una nuova e più positiva identità.

Ovviamente in uno statuto che prevede la pena di morte questo confronto positivo è inesistente. L'unico contatto vittima-carnefice avverrà il giorno dell'esecuzione della pena capitale quando la vittima originaria diverrà spettatrice di un nuovo omicidio.
Venendo meno la possibilità di riscattarsi, il deviante non ha possibilità di accostarsi a un perdono costruttivo: senza confronto con la vittima il carnefice non si troverà costretto a riparare l'equilibrio rotto cercando dentro di sé. Se proprio ci sarà traccia di pentimento tutto si risolverà con un'azione unilaterale di penitenza rivolta a un'entità superiore che lo libererà dalla responsabilità del suo atto.

"Ci saranno sempre persone fuori che festeggeranno la mia morte come qualcosa che avrebbero potuto fare ma non sono mai riusciti a portare a termine. Ho preso delle vite umane e per questo risponderò di fronte al mio Dio.Tutte le mie scuse sono volte a lui per aver preso qualcosa che lui ha creato. E' un sentimento con cui ho dovuto convivere per 15 anni".

Cosa avrebbe potuto fare Delbert di diverso? Senza un confronto con le vittime l'unico modo per sgravare la coscienza da un tale peso è chiedere scusa a Dio. Ma questo non porta né a un superamento dell'azione commessa, né a una sua elaborazione che permetta di sfruttare in modo costruttivo gli errori commessi.

Evadere con l'arte
Abbandonato dalla famiglia, perse le tracce di moglie e figli, in una società che lo emargina e lo fa sentire altro da sé, Delbert pùò contare solo sulla fantasia, la memoria e le poesie.
In particolare scrivere è la sua via di fuga personale per combattere il tempo stagnante della prigione. Nella poesia come in una rappresentazione, troviamo la riproduzione di battaglie e conflitti da cui, tramite la narrazione, si pùò prendere un certo distacco. Non potendo esprimere liberamente i conflitti all'interno dello spazio carcerario, la rappresentazione consente di ripercorrere le scissioni del suo io (buono vs cattivo) e della società e di costruire un ponte per ricomporle.