Il primo amore

Antonio di Mauro

04-02-2010  

Giugno 1961 ore 3,00 del mattino.

Nucciu, Nucciu, Nucciu susiti o papà, arrusbighiti ca ama a pattiri

Da circa 2 anni non abitavo più ndo cuttigghiu i paci, abitavo a Nesima Superiore, periferia di Catania, perché, come famiglia numerosa, avevamo ottenuto la casa popolare. Era proprio una bella casa, quattro locali più servizi, un bel giardino e nello stesso anche il posto per la Seicento di mio padre. La cosa che ricordo con maggior piacere è il fatto di non essermi più svegliato, durante la notte, con un piede in bocca di qualcuno dei miei fratelli. Sì, perché nella casa vecchia dormivamo in sei maschi in un letto di una piazza e mezza e le due femmine in un’altra stanza. Per la prima volta ho scoperto la vasca da bagno, con relativo rubinetto doccia (abituato a fare il bagno nda pilanda vasca di zinco).

Nel frattempo ero già stato arrestato un paio di volte dai carabinieri per piccoli furti. Le conseguenze consistevano nella comunicazione a mio padre, affinché venisse in caserma per riportarmi a casa. Era inevitabile che il tutto fosse trasmesso al tribunale dei minori… senza nessuna conseguenza, almeno in apparenza.

Dopo avere riposto i bagagli, parte nel cofano e parte nel portabagagli sul tetto della seicento, salutammo la mamma, Pippo, Riccardo, Salvatore, Giovanni e Mariella. La mamma, quasi in lacrime, disse: Gnaziu ma raccumannu camina alleggiu ca ci sunu i carusi. Ciau, ciau, ni viremu prestu. Ma raccumannu, passati nda zà Cuncetta ca vi sta aspittannu.

Io non sapevo dove eravamo diretti, avevo solo capito che stavamo andando dalla zia Concetta, la sorella maggiore di tutti i fratelli di mamma Sarina. Donna molto autorevole, quando parlava lei, tutti l’ascoltavano in silenzio. Volevo molto bene alla zia, perchè era quella che mi curava quando avevo mal di testa, anche se usava uno strano metodo. Mi metteva un piatto con dell’acqua sulla testa, mentre proferiva parole per me incomprensibili, lasciando cadere delle gocce d’olio nell’acqua del piatto, e alla fine, togliendo il piatto e mostrandolo alla mamma gli diceva: u viri, u viri ca u picciriddu aveva l’ucchiatura? Rimane il fatto che mi passava il mal di testa. Poi c’era anche quella “sagoma” dello zio Ciccio, il marito della zia Concetta, che tutta la famiglia affettuosamente chiamava “u briacuni bonu” perché, "dopo il vino, quello che gustava di più era l’uva”.

Solo durante il viaggio, tra Catania e Messina, ho appreso che eravamo diretti verso la città di Milano. All’epoca non capivo perché tutto questo è stato fatto a mia insaputa. Ricordo l’eccitazione quando mi sono trovato d’innanzi al famoso ferryboot nel porto di Messina, non avevo mai visto una “barca” cosi grande. Talia, talia dissi, rivolgendomi a mio fratello Melo e a mia sorella Enza, u papà sta trasennu cu tutta a machina intra o ferrabbottu. Imboccata l’entrata del traghetto, ricordo di avere stretto le spalle e insaccato il collo fino all’inverosimile perché sentivo netta l’impressione di essere stato ingoiato da un grosso pesce. Rannicchiato verso i miei fratelli, ero tranquillizzato dalla voce di papà che diceva: nun ti scandari, o papà, ca ora ti fazzu viriri u mari. Le risate dei miei fratelli mi rassicurarono.

Il viaggio in direzione di Milano, per me, è stato come per Cristoforo Colombo scoprire l’America. Il viaggio proseguì tra mille domande, fatte a papà e ai miei fratelli su cosa è quello e cosa quell’altro. I miei occhi erano un flipper in continuo movimento, l’eccitazione terminò solo quando stremato, mi addormentai.

Il tempo a Cologno Monzese sembrava trascorrere velocemente, la casa in affitto, due locali più servizi, era accogliente, almeno fino a quando non è arrivato il resto della famiglia che, dopo pochi giorni, viaggiando in treno, fecero anche loro capo linea nella nuova casa… con il risultato che, due locali e servizi, per otto persone, calzava un po' stretto…

Arrivò settembre e di conseguenza mi toccò andare a scuola. Fino ad allora avevo conosciuto solo qualcuno della mia età che abitava nello stesso palazzo, il più simpatico era D’Onofrio, un ragazzo di Foggia che mi faceva ridere con il suo modo di parlare, ma anche lui rideva quando parlavo io.

Mio padre era diventato più severo con me e di conseguenza uscivo poco. Il primo giorno di scuola è stato per me difficile, sembrava una babele, c’era tutta la Terronia Corporation. Ricordo che quando era venuta la mamma a prendermi, le avevo detto detto: mamma, ma iu a sti picciriddi ne capisciu, ma comu parrunu? La mamma sorridendo… amuninni ca è taddu.

Un giorno, come al solito, affacciandomi alla ringhiera del ballatoio del terzo piano, dove io abitavo, guardando interessato quello che mi circondava, incrociai lo sguardo con quello di una ragazzina del palazzo di fianco al mio che mi guardava sorridendo. Al primo impatto, con una punta di disagio, replicai anch’io con un sorriso, abbassando subito dopo gli occhi e imboccando la porta di casa. Mi sentivo irrequieto, mi guardavo allo specchio aggiustandomi i capelli, riuscii sul ballatoio puntando lo sguardo verso il balcone della ragazzina, ma lei non c’era più. Non ricordo quante siano state le volte che mi riaffacciai ma, presumo tante, al punto che la mamma si arrabbiò dicendomi:

- ma chi iai, u suffareddu ndo culu?
- no mamma stee taliannu su veni u me cumpagnu.
- Nucciu a mamma, vai ndo pannitteri e ci rici: mi dà un chilo di michette?
- Ma cui, mamma, chiddu ca mi rici sempri; che bel murettin?
- Si iddu.

Prendo l’ascensore e vado. Uscendo, imbocco il marciapiede e il mio sguardo incredulo mette a fuoco il viso della ragazzina dal dolce sorriso. Il cuore stava per uscire dal petto, tanto erano accelerati i battiti, ero confuso, non sapevo cosa fare, lei mi tolse dall’imbarazzo con un candido ciao. Risposi: ciao e, coraggiosamente aggiunsi, dove vai? Ma vi giuro che, me la stavo facendo addosso. Lei rispose: vado a comprare le sigarette a mio padre. Osservando i suoi lunghissimi capelli neri, risposi: Io vado a comprare il pane.

Strano, per la prima volta mi soffermai a scrutare ogni minimo particolare del viso di una ragazzina. Era bellissima, i suoi occhi verde smeraldo erano incantevoli, sprizzava dolcezza da tutti pori, il tono della sua voce era morbido come una carezza. Mi chiamo Enza! Ah… sì, io mi chiamo Nuccio. Non so cosa altro farfugliai ma alla fine, imbarazzato, le dissi: beh, ciao ci vediamo.

Da allora non passò giorno, senza che noi non ci incontrassimo. Erano i momenti più belli, quelli trascorsi con lei, parlavamo delle nostre famiglie, delle nostre origini. Lei proveniva dalla città di Taranto, il padre era operaio alla Falk di Sesto San Giovanni, era un tipo molto severo, e di questo mi accorsi a spese mie quando un giorno afferrandomi per un orecchio mi disse: tu la figghia mia la lassastà.  Dopo quella volta i nostri incontri divennero più difficili e saltuari, ma vi garantisco, più emozionanti. Ero innamorato perso, vivevo per lei, veniva prima di ogni cosa, non volevo sentire ragione quando si parlava di lei.

Un giorno il mio “celebre” compagno di scuola D’Onofrio ebbe la felice idea (per farmi arrabbiare) di dire che Enza era la sua ragazza. Quella volta aveva nevicato abbondantemente, con mio grande stupore perché, fino ad allora, la neve l’avevo vista a chilometri di distanza e cioè quella che si formava sui pendii dell’Etna. Io e D’Onofrio ci esibimmo in un’incontro di boxe che durò circa dieci minuti, dove per almeno cinque metri quadrati la neve, a macchia di leopardo, si tinse di rosso, ce le siamo suonate di santa ragione. La disputa finì solo quando cademmo sulla neve sfiniti. Ancora oggi lo ritengo il mio migliore amico, anche se le nostre strade (fortunatamente per lui) non proseguirono parallele.

Per la prima volta, dopo tanti mesi, ci siamo dati appuntamento lungo le rive del fiume Lambro. Il nostro rapporto di fidanzatini era ormai consolidato da mesi ma, in verità, non ci eravamo mai sfiorati neanche con un dito. La primavera era arrivata con tutto il suo splendore, i prati si rinverdivano macchiati dalle margheritine che sembravano sorridere a chi li ammirava. In lontananza si poteva scorgere la sagoma del sig. Mario mentre lavorava la terra. Era rilassante il rumore della zappa. E' stato un vero peccato non aver apprezzato tutto questo in quell’epoca.

Io e Enza non eravamo mai stati a passeggiare in riva al fiume, scrutavamo l’acqua mentre nel fondo si potevano ammirare le alghe d’acqua dolce che si muovevano come fossero vive per il movimento ondulatorio dell’acqua. A un certo punto, con un gesto tenero e spontaneo, allungai la mia mano verso la sua, prima carezzandola e poi stringendola, intrecciai le mie dita con le sue. Non vi nascondo che per un momento le mie gambe fecero Giacomo, Giacomo.

Il mio testosterone, neuroni, cellule e non so che altro… per la prima volta si ribellarono al tal punto da farmi compiere un gesto irrefrenabile e cioè, quello di stringerla al mio petto con tutta la forza che avevo. Avrei voluto baciarla ma qualcosa me lo impedì, forse non volevo distogliermi da quel magico momento. Da quel giorno ogni occasione fu buona per trascorrere lunghi momenti stretti una all’altro. Avrei voluto maturare insieme a lei.