Francesco Cajani

Sostituto Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Milano

 

A cura dell'intervistato Intervista sulla punizione Le altre interviste

 

Vi ringrazio per le domande che mi avete mandato via mail e per la difficoltà che mi avete imposto per poter rispondere adeguatamente”.              
Milano-Roma A/R, 5-8 giugno 2005

 

Ci dica 5 parole che lei può associare al termine “punizione”.
Me ne vengono subito in mente quattro: legge, trasgressione, famiglia e scuola. Per la quinta, cercando su internet delle immagini sul tema, le più frequenti (circa il 90%) fanno riferimento al gioco più amato in Italia (calcio di “punizione”): come a dire l’interesse del nostro Paese per l’argomento…

 

Ci può parlare brevemente di una punizione che ricorda di aver subito?
Un forte ceffone da mio nonno: era l’estate dei mondiali del 1980 ma non mi ricordo altro, e questo credo sia significativo. Posso però dire che quello fu l’unico che mi diede in tutta la sua vita.

 

E lei ha mai punito qualcuno?
La mia passata esperienza di educatore scout mi ha portato più volte a dover riflettere su come punire un adolescente. Ricordo una intera serata passata con altri educatori per decidere il caso di un ragazzo che aveva lanciato dei chiodi dalla finestra della nostra sede in direzione di una casa vicina: alla fine abbiamo optato, non senza differenti vedute, per una punizione di tipo  riparatorio. Un’altra volta un ragazzo si divertì a disegnare una svastica su un cartellone raffigurante una faccia di un bambino africano: lo rimproverai fortemente a parole, dicendo che avrei conservato quel cartellone a sua futura memoria. Da qualche parte ce l’ho ancora, ma – anche se ormai ho perso di vista l’autore -  sono sicuro che, con il tempo, si sia reso conto da solo di quello che aveva fatto.

 

Di solito si punisce un comportamento, ma quali sono le costanti dei comportamenti che vengono puniti?
Ritengo che alla base ci sia sempre il mancato rispetto di una regola (di convivenza civile, indipendentemente dal fatto che questa sia stata codificata o meno), più o meno condivisa da colui che la infrange.

 

Che cosa si prefigge di ottenere colui che punisce?
Per quanto sul tema siano stati pubblicati migliaia di autorevoli scritti ritengo che già Platone, nel Gorgia (407 circa a.c.), abbia messo nelle parole del suo Socrate tutto quanto si possa dire sul tema:

"…a ogni uomo che sconti una pena, se questa gli sia stata giustamente inflitta, accade o di diventare migliore e di riceverne giovamento, o di diventare un esempio per gli altri, affinché gli altri, vedendolo patire le pene che gli tocca patire, per paura diventino migliori."

 

Giudizio divino sull'anima

 

Vero è che alcuni secoli dopo lo scrittore romano Aulio Gellio, proprio ritornando sul passo di Platone, si domandava come mai non fosse stata indicata una terza funzione, a cui egli attribuisce il nome greco di timoria (intesa come vendetta dell’onore della vittima, che verrebbe menomata se il colpevole rimanesse impunito). Ma anche oggi le istanze della persona offesa non hanno pieno sbocco nel sistema processuale penale complessivamente inteso (un esempio significativo: non è prevista alcuna adesione della persona offesa dal reato nella dinamica del cosiddetto patteggiamento, che presuppone un accordo tra il solo Pubblico Ministero e l’imputato).

 

Cosa rende più probabile che la punizione sortisca l'effetto desiderato? La punizione può sortire a volte l’effetto contrario a quello cercato?
Il citato scritto di Platone mi consente di chiarire subito una possibile obiezione che potrebbe essere sollevata da molti: è evidente che, nell’ambito di questa tematica così complessa, ciascuno di noi – sia pure in una diversa prospettiva, a seconda del ruolo rivestito – ha come motivo di riferimento persone che vogliono, nonostante la loro colpa da scontare e con tutte le difficoltà che ne discendono, cogliere una possibilità di cambiamento che viene (o dovrebbe venire) loro offerta. Per tutti gli altri, rimane ancora attuale l’immagine del filosofo greco:

“…Coloro che invece commisero le peggiori ingiustizie e che a causa di tali ingiustizie sono diventati insanabili, vengono usati come esempi; e mentre essi personalmente non possono più trarne alcun giovamento, dato che sono insanabili, ne traggono giovamento altri che li vedano patire, a causa delle loro colpe, i tormenti più grandi, più dolorosi e più terribili…”

 

Punizione di Simon Mago

 

Detto questo, fin dalla mia tesi di laurea (sulla efficacia educativa delle misure cautelari nel processo penale minorile), mi ha molto affascinato il pensiero di Duccio Scatolero sulla “giusta punizione”, intesa come vero e proprio diritto del reo minorenne perché questa contribuisce a dare dignità alla persona in crescita, a patto però che tutti gli altri diritti che lo riguardano siano egualmente rispettati e fatti rispettare.

La mia positiva esperienza a contatto con il Gruppo della Trasgressione mi ha consentito di verificare la possibilità di estendere tale concetto e adattarlo così a tutti coloro che hanno, in particolari momenti della loro vita, necessità che sia qualcun-altro-da-loro a “trarre fuori” qualcosa di utile (in una medesima ottica educativa, uscendo dal luogo comune che vede nell’ ex-ducere un qualcosa che ha come soggetto protagonista necessariamente un giovane).

Per arrivare infine ad affermare che punire “bene” implica necessariamente un interrogarsi sul soggetto da punire, instaurando con esso una relazione che continua anche dopo l’irrogazione della pena, nel momento in cui - tramite l’atto del punire - riusciamo finalmente a prenderci idealmente carico del suo esito e della sua efficacia.

Trovo consolazione nel fatto che San Agostino in persona, nella sua Epistola 95, reputi fondamentale interrogarsi sul punto, mettendo ben in evidenza come l’esercizio dell’attività punitiva – proprio intesa nel senso da ultimo illustrato – costituisca una delle questioni più difficili di questo mondo:

”Altro problema è sapere la misura da conservare nel punire, poiché occorre tener presente non solo la natura e il numero delle colpe, ma pure la forza d'animo con cui uno sopporta o rifiuta il castigo, affinché ne ritragga vantaggio o almeno non ne ricavi uno svantaggio. Quanto è misterioso ed oscuro tutto ciò e di quanti temono un castigo imminente, aspettato generalmente con paura, non so se siano più quelli che si emendano o quelli che prendono una piega peggiore! Che dire poi dei casi assai frequenti, in cui si produce la rovina del colpevole se viene punito, mentre se non lo si punisce si procura la rovina d'un altro?

Quanto a me confesso che a tale proposito mi succede di sbagliare ogni giorno e di non sapere quando e come osservare il precetto scritturistico: Quelli che mancano, riprendili alla presenza di tutti, affinché tutti ne abbiano timore; e quest'altro: Riprendi [il tuo fratello] fra te e lui solo ; e quest'altro: Non giudicate prima del tempo ; e ciò che sta scritto: Affinché non siate giudicati; poiché qui al secondo membro il Signore non aggiunge: "prima del tempo "; così pure l'altra espressione della Scrittura: E chi sei tu, che ti fai giudice del servo altrui? Se sta in piedi o se cade, è affare del suo padrone; ma starà ritto in piedi perché Iddio ha il potere di sostenerlo.

L'Apostolo afferma di parlare qui di coloro che sono dentro la Chiesa; d'altra parte, comanda che siano giudicati, quando dice: Perché infatti dovrebbe toccare a me giudicare quelli di fuori? Non sono forse quelli di dentro che voi giudicate? Togliete codesto malvagio di mezzo a voi stessi! Anche quando pare doveroso giudicare, quale ansia, quale angoscia determinare fino a qual punto farlo, per paura che non succeda quello che l'Apostolo raccomanda chiaramente d'evitare ancora nella seconda Lettera ai Corinti: Per paura - dice - che quel tale non venga sommerso da tristezza anche maggiore. E perché nessuno pensasse che ciò si potesse prendere alla leggera, nello stesso passo aggiunge: Affinché non veniamo soggiogati da Satana, di cui ben conosciamo i raggiri . Quanti motivi di trepidazione in tutti questi casi, mio caro Paolino, sant'uomo di Dio! Quanti timori, quale oscurità!”

Vero è che il “successo” di una punizione passa necessariamente tra i due soggetti protagonisti della punizione, anche se penso che il terreno in cui gli stessi si confrontano possa condizionare l’esito di tale relazione.

Per fare un esempio legato al mio lavoro, ritengo che il notevole carico di fascicoli attualmente in essere presso la Procura della Repubblica e il Tribunale di Sorveglianza di Milano (dovuto anche alla decennale mancanza di organico, soprattutto tra il personale amministrativo) non contribuisca certamente a sviluppare le condizioni ideali affinché si possa quantomeno avere il tempo necessario per instaurare la relazione stessa.

Perché, come ogni decisione importante, anche quella punitiva non può permettersi di affidarsi solamente sulla buona volontà di singole persone (ma necessita investimenti e volontà generalizzate, soprattutto di carattere istituzionale).

 

Può citarmi un esempio di punizione che abbia raggiunto lo scopo? E quello di una punizione che lo ha mancato completamente?
Potrei attingere, in un senso o nell’altro, dalle mie esperienze educative. Mi è difficile però portare un determinato episodio ad esempio, per ritrovarci ex post la causa del successo/insuccesso di quella vicenda: nonostante quanto finora teorizzato, credo infatti che la punizione possa raggiungere il suo scopo non necessariamente a seguito di una positiva sinergia tra i tre fattori prima indicati (i due protagonisti e il terreno di incontro).

Certo, di regola il bilanciato apporto di tutte quelle componenti produce il risultato prefissato ma è anche ipotizzabile la prevalenza di uno di essi (a compensare le “mancanze” degli altri due).

Ci attendiamo sempre qualcosa di significativo ma spesso il significato delle cose ce lo mettiamo noi”, come mi ricorda spesso uno tra i miei più cari amici: è quindi ben possibile un esito positivo anche a fronte di una punizione non ben meditata, o al contrario un esito negativo nonostante le migliori intenzioni del soggetto che punisce. Anche in questo credo risieda la “misteriosità e oscurità” cui faceva accenno San Agostino…

 

Abbiamo davanti a noi un quadro con dei personaggi, di cui qualcuno punisce e qualcuno viene punito. Quali persone e quali situazioni caratterizzano questo quadro?
Ho partecipato personalmente ad alcuni incontri con il Gruppo della Trasgressione dove si discuteva proprio della “cacciata dal Paradiso” del Masaccio e sono rimasto molto colpito da quanto emerso in quelle occasioni. Tuttavia la mia immagine di punizione la ritrovo non in un quadro ma in un racconto di R. Kipling intitolato “La caccia di Kaa”, tratto dal libro della Giungla, che si chiude con un intenso dialogo tra Mowgli (il soggetto da punire), Bagheera (il soggetto che punisce) e Baloo (che impersonifica la Legge):

- Oh ! Oh ! Mowgli – disse Bagheera stizziato -  il suo naso è pesto e contuso per colpa tua, e così pure i miei orecchi, i miei fianchi e le mie zampe, e il collo e le spalle di Baloo sono morsicati per causa tua … Tutto questo, cucciolo, è successo perché ti sei divertito coi Bandar-log” -

- E’ vero, è vero – disse Mowgli tristemente – Io sono un cucciolo cattivo e il dolore mi passa il cuore -

- Mf! Che cosa dice la legge della Giungla, Baloo? -

Baloo non voleva più tormentare Mowgli, ma non poteva transigere sulla legge e brontolò: - Il pentimento non risparmia il castigo. Ma ricordati, Bagheera, che è tanto piccino. -

- Me ne ricorderò, ma ha fatto male e ora bisogna che si prenda le botte. Mowgli, hai niente da dire? -

- No, ho fatto male. Tu e Baloo siete feriti. E’ giusto. -

Bagheera gli somministrò una mezza dozzina di colpettini amorevoli, che una pantera non avrebbe neppure giudicato capaci di risvegliare uno dei suoi cuccioli, ma che per un fanciullo di sette anni rappresentavano una buona bastonatura di cui uno farebbe volentieri a meno.

Come tutto fu finito, Mowgly starnuti e si rialzò senza fiatare. - Ora – disse Bagheera – saltami in groppa, fratellino, e torneremo a casa. -

C’è anche questo di bello nella legge della Jungla: che la punizione salda ogni conto e non lascia rancori. Mowgli  appoggiò la testa sulla groppa di Bagheera e si addormentò così profondamente che non si risvegliò nemmeno quando fu deposto a fianco di mamma Lupa nella caverna.

 

Che questo sia un quadro ancora da dipingere lo ha evidenziato bene Sofia nelle parole che si è appuntata prima di far ingresso per la prima volta in carcere, proprio per partecipare – da cittadina libera - ad un incontro con il Gruppo della Trasgressione:

“La galera è l'unica o la più comune pena a prescindere dal reato imputato e dalla persona coinvolta. La galera così fatta, standardizzata e spersonalizzata, preclude qualsiasi possibilità di rinnovamento o rieducazione ed anzi accresce la rabbia e il rancore: mi sembra dunque che intesa a questo modo essa sia immorale perché condannata dal Papa, anticostituzionale poiché deplorata dalla Repubblica Italiana e contraria perfino alla Legge della Giungla”

riprendendo così anche un importante passo dell’omelia di Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo delle carceri: “La pena, la prigione hanno senso se mentre affermano le esigenze della giustizia e scoraggiano il crimine, servono al rinnovamento dell'uomo, offrendo a chi ha sbagliato una possibilità di riflettere e cambiare vita, per reinserirsi a pieno titolo nella società”.

 

Quale immagine hanno l'uno dell'altro chi punisce e chi viene punito? Quali sentimenti, quali fantasie vivono?
Premetto che la mia funzione di Pubblico Ministero quotidianamente mi porta non tanto a decidere sulla punizione da infliggere quanto ad interrogarmi sulla stessa, nel momento che – esercitando l’azione penale, all’esito di un processo – ne chiedo l’applicazione avendo come riferimento un comportamento contrario alle regole del codice penale, posto in essere con coscienza e volontà da un determinato soggetto.

Ritengo in ogni caso di portarmi dentro un sentimento di continua preoccupazione circa gli effetti che scaturiscono dal mio operato, proprio per la difficoltà insita nel “punire bene” (che presuppone, in ogni caso, l’esistenza effettiva di un motivo per essere punito, all’esito delle indagini svolte e alla conseguente richiesta di punizione attuata dal Pubblico Ministero con l’esercizio dell’azione penale). Quantunque gli esiti della punizione siano “oscuri e misteriosi”, credo sia fondamentale ogni volta avere ben presenti gli obiettivi e tendere verso essi.

Se poi trasportiamo il discorso al di fuori del carcere, tutto complica poiché, in un’ottica prettamente educativa, ti viene affidato un ragazzo la cui crescita – qualunque sia l’esito della punizione – trova in essa una tappa significativa: infatti la punizione è un mezzo irrinunciabile di ogni compito pedagogico, tanto quanto il premio e il perdono.

Oltre a chi punisce/viene punito, osservo però con molto interesse anche i sentimenti di soggetti “terzi” che, tramite le esperienze degli incontri con i detenuti del Gruppo della Trasgressione, iniziano a porsi delle domande significative (primo presupposto per compiere qualsiasi percorso di conoscenza).

Penso, per esempio, alla canzone stonata di Tommaso: 

“…. finché ci saranno persone che tradiscono l’uomo la società degli uomini si difende come può.

Non è possibile paragonare la zampata di Bagheera alla pena. Bagheera è giudice, avvocato difensore e “boia”. Conosce nell’intimo il cucciolo d’uomo e sa che è integro, non è da ricostruire.

La società vede il fatto: un uomo, non cucciolo, tradisce gli uomini, sceglie di tradire. Non sa niente di lui, non può saperlo. Forse la legge del taglione non è poi così tanto passata di moda.

Forse è nella natura umana. È del Dio degli ebrei e dei musulmani. Il Dio dei cristiani ama, non so come interpretarlo. Dio, però, punisce dandoti i mezzi per affrontare la punizione: caccia Adamo e gli dà le vesti di pelle, punisce l’uomo e gli dà Noè con la sua barchetta”

 

oppure al ringraziamento di Valeria, nonostante quanto accaduto alcuni giorni dopo l’incontro:

“ […] Sento le sirene della polizia.

La curiosità è devastante, mi affaccio alla finestra.
Una donna urla...:"perché!??!?!"...è un susseguirsi di bestemmie, imprecazioni, urla di dolore... quello vero...

[….]  Un uomo dice di aver visto tutto.

2 uomini scesi da un auto, sparano e scappano a piedi.
Non so cosa pensare.

Forse che è facile perdonare, capire ed essere comprensivi se si parla con "loro", se passi tre ore giocando con il gioco che hanno creato, se ascolti i racconti di un padre che puo' vedere per sole sei ore al mese la sua famiglia, a cui è concessa una sola telefonata di 10 minuti a casa alla settimana...
Ho la sensazione che tutte le cose belle che sono entrate in me siano già volate via.

è facile pentirsi dopo.

Questa è la frase che mi rimbalza nel cervello da qualche ora.

Forse non ho capito nulla... non ho capito nulla del perdonare.
Ho la sensazione che comprendendo queste persone tradirei quelli che soffrono.

E' una posizione infantile? Forse sì...ma nulla al mondo cancellerà dalla mia testa l'urlo di quella donna che chiedeva :"Perchè?!?!"

 

Ho sempre creduto che per cambiare il mondo occorra iniziare da sé stessi: anche per questo ritengo importante incentivare, in un percorso di crescita e di vera consapevolezza di ciò che ci circonda, le occasioni di confronto dei giovani con la realtà carceraria. Trovo altresì rivoluzionaria, sempre in questa direzione, l’opportunità offerta dal Gruppo della Trasgressione agli studenti di giurisprudenza di Milano.

 

Riportiamo lo stesso discorso al piano genitore-figlio: quali stati d'animo provano un genitore che puniscee un figlio che viene punito?
Come figlio, ho la fortuna di avere due genitori che hanno saputo esercitare l’attività educativa senza ricorrere a punizioni. O, meglio, di esse non ne ho un ricordo preciso: non che non abbia trasgredito a delle regole….. le discussioni erano all’ordine del giorno, ma alla fine credo mi abbiano lasciato sbagliare di testa mia. Essere messo nella condizione di capire da solo i propri errori penso sia una esperienza fondamentale per un adolescente: in questo devo anche ringraziare alcune persone che ho avuto la fortuna di incontrare sul mio cammino, e che sono stati dei validi punti di riferimento/confronto in alcune delle tappe della mia crescita. Come futuro genitore, mi guardo intorno e sono consapevole delle sfide a cui sarò chiamato….

 

Adesso, un capitolo controverso: punizione e potere. Che rapporto c’è fra punizione e potere? Con quali forme di potere è compatibile il ricorso alla punizione?
Forse mi sfugge ancora qualcosa ma onestamente non mi pare un capitolo controverso. A meno di ipotizzare una società di tipo masochistico, dove ciascuno esercita liberamente su di sé e/o sugli altri (e in questo autorizzato dal destinatario) una attività sicuramente invasiva, non vi è punizione senza una investitura di potere da parte di una autorità terza.

Vero invece che mentre il ricorso alla punizione è compatibile con qualsiasi forma di potere (e in questo anche l’insegnamento della Chiesa ne è testimone, pur rimanendo immanente nell’Autorità divina lo stesso concetto di Giustizia), quest’ultima può condizionarne gli obiettivi. E’ infatti evidente il massiccio ricorso alla pena di morte nei regimi totalitaristici, dove le finalità di prevenzione generale risultano prevalenti fino ad annullare qualsiasi istanza di risocializzazione del reo (che, come tale, deve essere eliminato “a futura memoria”).

 

Pena e punizione: trova che esistano delle differenza rilevanti?
Certamente sì: sul punto sono pienamente d’accordo con quanto autorevolmente puntualizzato dalla prof.ssa Tirelli sulle pagine del vostro sito.

 

Quali sono le finalità della pena inflitta dalla Legge?Di solito, vengono raggiunti gli scopi per cui la pena viene assegnata?Possiamo parlare delle motivazioni  che il giudice che condanna e gli operatori preposti all’espiazione della pena vivono verso il condannato?
Ho già avuto modo di scrivere che, nonostante la legge 354/1975 (sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si apra proprio con la piena adesione al noto principio costituzionale di cui all’art. 27, comma 3 (secondo il quale “le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”), tutto questo - che inevitabilmente costituisce un punto di arrivo - si scontra con una prima difficoltà. Che paradossalmente pare essere dello stesso legislatore, o di tutti noi che leggiamo nella Costituzione “pene” e pensiamo invece solamente a “carcere” come unica possibile rappresentazione di tale concetto.

Si tratta poi di mettere a fuoco un punto nevralgico del nostro sistema normativo e organizzativo: come può concretamente attuarsi tale dichiarata “tensione alla rieducazione”? In altri termini: l’indicazione costituzionale si traduce necessariamente in un obbligo per i protagonisti della punizione?

La risposta è sicuramente negativa per il soggetto punito, se è vero che lo stesso regolamento attuativo della citata legge 354/1975 fa riferimento ad una “offerta di interventi” (diretti a “sostenere gli interessi umani, culturali e professionali” nonché  “a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”: art. 1 D.P.R. 230/2000) lasciati quindi alla libera disponibilità/fruizione del detenuto. E, del resto, non potrebbe essere diversamente: ogni cambiamento, per essere effettivo e non semplicemente una finzione, presuppone infatti all’origine una libera adesione da parte del suo autore/protagonista.

Ma che dire del soggetto che punisce? La questione meriterebbe un maggior approfondimento anche all’interno della Magistratura, dove mi pare di cogliere due diversi approcci:

Questo secondo approccio mi sembrerebbe più in linea con quanto sostenuto finora ma non nascondo, tuttavia, una imprescindibile difficoltà che si registra nella nostra professione (a differenza di quanto accade in un rapporto di tipo educativo): quella di non avere quasi mai un contatto diretto con il soggetto da punire (in quanto molto spesso sceglie la via della contumacia o della difesa esclusivamente demandata al ruolo svolto dall’avvocato da lui stesso nominato).

Se dunque l’art. 133 del codice penale prevede, in tema di commisurazione della pena,  che si debba tener conto (non solo della gravità del reato ma) anche della capacità a delinquere del colpevole, desunta “dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; … dalla condotta e dalla vita del reo, antecedente al reato; dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale”, molto spesso questa importante attività del giudice (volta a motivare la decisione punitiva sotto l’aspetto quantitativo) si risolve in clausole di stile, dovute soprattutto ad una “conoscenza squisitamente cartacea” del soggetto da punire.

Analogo discorso vale per il magistrato di sorveglianza, la cui visione del detenuto molto spesso si risolve (e, nella maggior parte dei casi, non vedo come potrebbe essere diversamente) nella lettura delle relazioni degli operatori carcerari.

Il tutto quindi a discapito di quella relazione da instaurare con il soggetto da punire che dovrebbe poi continuare, come detto, anche dopo l’irrogazione della pena

 

Esiste una pena ideale?
La pena ideale non esiste in rerum natura perché è il frutto di un risultato. Mi piace pensare che anche per questo il nostro legislatore, nell’art. 27 Costituzione, parli di “tensione”
….

 

Quali tipi di pena e di applicazione esistono oggi nel nostro paese, e quali ritiene più utili allo scopo?
Ho già accennato alla propensione del complessivo sistema normativo e sociale di declinare il termine “pena” esclusivamente nel concetto di “carcere”. 

Non si tratta però solamente di concezioni volte a privilegiare esigenze di tutela della collettività… più volte infatti mi scontro con la difficoltà concreta di trovare altre forme di punizione, in relazione a determinate tipologie di reati ove commessi da determinati soggetti. Penso, ad esempio, alle dinamiche quotidiane dei processi per direttissima, laddove - per imputati extracomunitari, di regola sedicenti e senza fissa dimora - è proprio la custodia in carcere a prospettarsi come unica misura cautelare praticabile (nonostante il codice di procedura penale preveda, in conformità al principio di proporzionalità rispetto al fatto commesso, una serie di opzioni intermedie meno afflittive quali gli arresti domiciliari o l’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria). In questi casi, dunque, è proprio “il terreno di incontro” ad essere … “impraticabile” (e quindi chiedo il carcere perché non posso tecnicamente richiedere gli arresti per un soggetto che non ha un domicilio né legittimamente pensare che lo stesso rispetti le prescrizioni legate all’obbligo di presentazione).

Anche per questi motivi sono pienamente condivisibili le recenti impostazioni dottrinali che, a fronte della imprescindibile necessità di “inventare” nuove forme di sanzioni penali (espressione di un diverso modo di concepire la funzione delle stesse), evidenziano la necessità di introdurre misure cosiddette riparatorie di per sé potenzialmente ricche di valenze educative nei confronti dell’autore del reato, in quanto effettivamente responsabilizzanti: infatti, come efficacemente evidenziato da M. Bouchard, “la misura riparatoria corrisponde ad un principio educativo elementare per cui <chi rompe, paga>”, introducendo così la possibilità di restituire ai protagonisti del fatto illecito “il potere, la responsabilità e l’impegno nella ricostruzione dell’ordine violato”.

Il che comporterebbe altresì una piena soddisfazione di quella timoria, la quale per di più non rimarrebbe, in una simile ottica,  semplicemente vendetta ma contribuirebbe a ripristinare un’altra relazione dimenticata: quella tra persona offesa e l’autore del reato.

 

Cosa si può fare per aumentare la probabilità che la pena raggiunga il suo scopo?
Mi sembra di essere stato sufficientemente ripetitivo sul punto: occorre lavorare sui soggetti protagonisti (coltivando le reciproche “sensibilità relazionali” a discapito dei pregiudizi che inevitabilmente possono insorgere) e sul terreno di incontro (rendendolo sempre più praticabile allo scopo).

 

Una pena che punti alla rieducazione non può prescindere dalla motivazione del condannato. E allora, quali strumenti, quali condizioni ritiene che possano attivare tale motivazione? Quale tipo di relazione fra operatori e condannato è più confacente al conseguimento dell'obiettivo evolutivo o rieducatvo della pena?
La positiva esperienza del Gruppo della Trasgressione, unica nel suo genere in tutta Italia e completamente slegata da preventive indicazioni ministeriali, mi porta ad affermare con rinnovata convinzione che attualmente sono sempre più necessari investimenti istituzionali, soprattutto in termini di fantasia di percorsi motivazionali (avendo comunque ben presenti gli obiettivi finora illustrati). Ovviamente anche la società civile deve fare la sua parte, perché è impensabile attivare – all’interno del carcere - condizioni di motivazione positiva al cambiamento se, all’esterno, non si creano percorsi tramite i quali ciascun cittadino si faccia seriamente carico delle difficoltà di reinserimento per un ex detenuto.

 

A suo avviso esistono delle alternative alla pena?
No, perché è nella natura dell’uomo essere libero di non osservare le regole basilari della pacifica convivenza civile. Questo tuttavia non significa non attivarsi per inventare quelle nuove forme di pena a cui ho fatto accenno.

 

Parliamo dei punti di contatto, delle analogie e delle differenze che esistono fra la punizione nel rapporto genitori-figli e la pena inflitta dalla legge...
Per il percorso che mi ha portato – oggi - fino a qui, ho sempre avuto di mira le analogie più che le differenze: del resto si sono scritti numerosi libri, in materia di diritto minorile, volti ad interrogarsi sulla natura materna o paterna della punizione (e quindi ad inquadrare il discorso punitivo nell’ambito di istanze prettamente di tipo genitoriali).

Lo stesso brano della caccia di Kaa per me è indicativo della imprescindibile necessità di una relazione tra i protagonisti della punizione: solo in questo modo, infatti, è possibile auspicare il realizzarsi di una punizione che “salda ogni conto e non lascia rancori”.

Ma ciò che più mi colpisce di questa storia è l’immagine di una relazione così significativa da consentire a Mowgly di addormentarsi sulla groppa di Bagheera: anche se, avendo presente il contesto più generale del nostro discorso, la relazione tra i protagonisti della punizione non è necessariamente animata da istanze affettive.

E infatti il magistrato che punisce, se deve avere sempre presente tale relazione, sicuramente non è animato da simili sentimenti nei confronti del soggetto da punire (anche se la sua opera, se ben svolta, ben potrebbe tradursi – all’esito di un percorso di crescita come quello indicato dall’art. 27 Cost. – proprio in un atto d’amore inteso come volere-il-bene-della-persona).

Allo stesso modo il Pubblico Ministero, la cui azione è retta precipuamente da esigenze di giustizia.

 

Nel tempo, le finalità e l'attuazione della pena hanno subito dei cambiamenti? Lei è a conoscenza di altre società dove gli obiettivi e l'attuazione della pena siano significativamente diversiche da noi?
Ritorno ancora a Platone perché credo si possa affermare una sorprendente continuità di pensiero nel corso dei secoli, attenendo il discorso in esame alla natura più intima e vera dell’uomo:

“E fra tanti ragionamenti, mentre gli altri sono stati confutati, questo è l'unico che resti saldo, ossia che bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia più che dal subirla, e che, più di ogni altra cosa, l'uomo deve cercare non di apparire ma di essere buono, sia in privato sia in pubblico; e se uno faccia qualcosa di male, egli deve essere punito, e questo è il secondo bene dopo l'essere giusto, vale a dire il diventarlo e scontare la propria colpa subendo il castigo”.

Che poi si possa essere d’accordo con il filosofo greco, soprattutto quando parla dell’essere punito come “il secondo bene dopo l’essere giusto”, è una questione che lascio volentieri al lettore.

Io mi limiterò a ricordargli il presupposto del ragionamento, già citato all’inizio: e cioè che la pena “sia stata giustamente inflitta”.

 

E per concludere, mi sa dire qualcosa sulla punizione o sulla pena che faccia ridere?
Ad oggi, non mi costa che Bill Gates sia mai stato punito, nonostante ogni giorno i nostri PC si congedano da noi con la scritta: << ARRESTO del sistema Windows in corso>>.