La questione punitiva

Duccio Scatolero

1993  

 

1. Il dibattito sulla punizione

La questione punitiva è proprio una storia infinita ed è forse per questo che ogni tanto compare all'orizzonte dei discorsi sui giovani e sulla società, a ricordarci che molti punti lasciati in sospeso chiedono ancora di esser riempiti. Giusto, perciò, di tanto in tanto darle spazio e fermarci a fare il punto per capire se le incertezze di sempre si stanno dilatando o restringendo.

Ma c'è, in definitiva, qualcosa di nuovo sulla punizione minorile? Sicuramente sì. Ci sono tante nuove sperimentazioni e esperienze; c'è sempre più privato accanto al pubblico e c'è molta più pubblica amministrazione accanto alla giurisdizione; si sta allargando una diversa consapevolezza del ruolo della vittima della trasgressione; ci sono sempre nuovi tentativi di aggiustare le norme che regolano la materia e si sono, infine, moltiplicati gli attori legittimati a muoversi sulla scena della recita punitiva, ognuno con una dignità professionale sempre più forte e sicura.

La sostanza, però, del dibattito non risulta molto modificata: da un lato, ancora, le colombe, impegnate a cercare sempre nuovi sviluppi educativi nell'impegno punitivo; dall'altra, i falchi, tesi nel tentativo di superare le ambiguità del giustificazionismo penale con l'affermazione di un diritto della società a punire - se pur in modo alternativo - le trasgressioni minorili. In mezzo ai due estremi si muove una moltitudine di iniziative non schierate, rivolte alla ricerca, un po' fine a se stessa, di spazi di recupero e di modalità di presa a carico dei giovani puniti sempre più raffinate e strutturate sul piano tecnico-scientifico. Infine non sono scomparse le solite voci minoritarie, decise ad affermare i principi dell'abolizionismo in nome della solidarietà e dell'obbligo morale a non far del malea chi sta crescendo.

 

2. Un problema tecnico-settoriale

Penso valga la pena cercare, nei modi di affrontare e discutere la questione punitiva, alcuni segni: uno è la trascuratezza per questi problemi di molti personaggi della cultura e del mondo della comunicazione. Nascondendosi dietro un impensabile "ma io non ne so nulla" e protetti dai loro infiniti impegni di produttori di cultura, si sono tutti defilati. Quasi che un tema come quello della punizione dei minori non potesse lasciare spazio ad altre trattazioni che quelle tecnico-settoriali! Come può il ragionamento socio-politico restar fuori da un problema come quello della punizione? Ciò non foss'altro per il legame imprescindibile che essa conserva con la questione delle regole, fondamento stesso di qualsiasi gruppo e collettività. Ed è veramente di troppo il riferimento all'etica su di un tema che nasce proprio dalla morale e che resta legato, comunque, ai principi di bene e di male e di giusto e di ingiusto? Follie di una stagione della cultura.

Ma non si può continuare a pensare che l'efficacia dell'ultimo dosaggio del farmaco punitivo in via di sperimentazione non obbligherà, prima o poi, anche le scienze dell'uomo al servizio della punizione a fermarsi per riflettere su quanto stan facendo e sui limiti da imporre alla loro azione. L'etica del buon risultato, che giustifica i modi seguiti per raggiungerlo, è una finzione morale, è un non principio di riferimento destinato a rivelarsi tale col progredire delle sperimentazioni. L'imporre ai giovani da punire un forte shock da prisonizzazioneper ottenerne un rifiuto a future azioni criminali; il negare per anni a ragazzi in trattamento qualsiasi legame con le loro famiglie per creare un vuoto colmabile con altri contenuti emotivi­affettivi; il trasformare la sanzione in prese in cura totalizzanti della durata di tutto il tempo dell'adolescenza; l'obbligare i giovani autori di reato a incontri con le loro vittime o a prestazioni di compensazione nei loro confronti o, addirittura - è l'ultimo ritrovato - a subire da parte loro le stesse violazioni loro provocate: queste e tante altre pratiche non possono non obbligare ad un interrogativo sui confini oltre cui non è lecito andare.

È una vecchia convinzione che anche il carcere a qualcuno può far bene: oggi è preoccupante che essa sia diffusa anche da chi e fra chi pratica gli strumenti e le conoscenze della scienza e li mette, senza alcuna remora, a disposizione di un sistema pesantecome quello punitivo. Occorre, dunque, continuare a fare tentativi e sforzi per riportare l'altra cultura lungo i nostri concreti sentieri e attraverso le nostre pratiche.

Molto dell'ottimismo che ha segnato il tempo della cosiddetta ideologia del trattamentoè stato cancellato sotto il peso dei tanti fallimenti e delle tante aspettative tradite e mortificate. C'è dunque forse un po' più di scetticismo circa i risultati cui è possibile arrivare e ci si è un po' meglio attrezzati per difendersi dalle frustrazioni, ma non si è perso un certo clima di attesa attorno alla punizione. In tanti si aspettano da essa qualcosa: la comunità spaventata dal rischio rappresentato dal soggetto reo, la vittima offesa, la famiglia preoccupata o indifferente, gli operatori, il giudice. Dentro il contenitore punitivo si vuole spesso far entrare tutta una giovane vita (e non solo i suoi gesti trasgressivi), tutto l'ambiente di relazioni che le gravita attorno e un intero pezzo di organizzazione sociale (istituzioni e servizi): ogni cosa ne dovrebbe uscire aggiornata e rimessa a nuovo.

Non solo così non avviene, ma a volte le troppe forzature di questa prospettiva finiscono col provocare danni collaterali più gravi di quelli da correggere: ne è certo consapevole chi con le pratiche della diversion si propone come esito fondamentale dell'azione sanzionatoria quello di evitare al giovane i danni del sistema della giustizia penale. È un po' ciò che si sta proponendo nel trattamento dei tossicodipendenti: non più lavorare per il recupero, ma per limitare i danni dell'abuso di droghe. Nel nostro ambito, però, il danno da evitare è rappresentato da quanto fatto da coloro che si aspettano soluzioni magiche dalla punizione stessa.

 

3. La punizione nei mondi vissuti

Chi è in errore? Sicuramente quanti insistono in valutazioni mistificatorie dell'agire penale: i tribunali per i minorenni che risolvono le contraddizioni sociali, i giudici che agiscono come buoni genitori, gli operatori che trasformano gli individui, sono armamentari concettuali che non aiutano a capire e a fare punizione. Resta, comunque, una spaccatura netta fra la concezione della punizione in dottrina (sia essa penale che socio-educativa) e la visione della punizione che si realizza nei mondi vissuti.

Le buone cose della teoria spesso arrivano ai loro destinatari trasformate, incomprensibili e inaccettate, provocando effetti assai diversi da quelli previsti. E non è solo una questione di linguaggi e di confusione di messaggi: le due entità, infatti, della pena comminata e della pena vissuta sono proprio diverse in sé, mai comparabili né intercambiabili. Chi è punito spesso vive la pena come una sofferenza o una violenza non giustificata, così come pratiche che non son definite dai testi come punitive possono essere, invece, vissute come tali (si pensi agli allontanamenti civili di soggetti dai loro contesti). La stessa concezione di durezza della pena è assolutamente relativa; essa è infatti data dallo scarto fra la situazione normale di vita e le condizioni di vita in corso di punizione. Può così anche accadere che l'istituzione dia legittimità punitiva a pratiche che non vengono vissute dagli interessati come tali (quanti programmi di trattamento possono alimentare simili confusioni!).

Inutile, dunque, convogliare sul momento punitivo attese teoriche che non gli appartengono nella realtà: assai meglio ricordarsi il più spesso possibile che alla fine la punizione è solo una sanzione. Molto utile, invece, seguendo questi ragionamenti, non smettere di parlare coi puniti e non delegare ad altri tale incombenza, per non perdere mai di vista la semplice dimensione vissutadelle nostre decisioni.

 

4. Una voglia crescente di punire

C'è nell'aria una voglia crescente di punire che trova origine non solo nei tanti fenomeni di criminalità che soffocano il nostro paese, ma anche nel crescere di insicurezza provocato da alcuni aspetti della realtà sociale (gli immigrati e i tossicodipendenti in particolare). La voce delle vittime allargandosi fa inevitabilmente crescere allarme e paura nel timore che il rischio che per esse si è concretizzato in realtà, possa, domani, tradursi nella stessa sorte per ciascuno di noi.

Quando c'è un ritorno di un bisogno sociale di punire, si sa, a farne le spese per primi son sempre i giovani: le loro trasgressioni sono più rumorose, più facilmente visibili, il loro calcolo dei rischi è più grossolano, la loro necessità di violare norme e consuetudini è anche un po' vitale e normale e quindi più numerose sono le loro violazioni. Dunque è, in assoluto, più facile perseguirli e punirli in quanto rappresentazione più evidente di minaccia e disagio per la società. Pochi, oggi, però, nelle istituzioni, nei servizi e nelle agenzie educative si assumono responsabilità punitive: si preferisce sempre aspettare, rinviare una pratica socio-educativa difficile e onerosa, e cioè affrontare l'ipotesi trasgressiva con strategie passive. In definitiva si vorrebbe poter dire che ci si augura che la punizione sia così grave da poterla delegare alle istituzioni competenti. Quante volte mi è capitato di incontrare operatori sociali assolutamente disarmati di fronte a questa evenienza: punire? sì... ma... però... Tante cose spaventano di questo delicato tipo di gesto educativo. Ma forse è il presupposto stesso della azione punitiva a spaventare il punitore e cioè il fatto che per poter punire bene occorre avere una relazione vera e autentica col soggetto da punire, tale da permettere dopo la sanzione il realizzarsi della consolazione.

C'è un attimo, prima della decisione punitiva, in cui questa necessità diventa assolutamente evidente: in quel momento, allora, si devono far tanti conti insieme per accorgersi che quella condizione relazionale, lì magari, non è rispettata. Pochi sono i luoghi dove un'autentica consolazione è possibile e sono, non a caso, i luoghi dell'amore e della relazione affettiva: ed è solo lì, in definitiva, che la punizione è vera e giusta punizione.

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Duccio Scatolero è Criminologo, giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Torino.

(tratto da Punire Perché? L’esperienza punitiva in famiglia, a scuola, in istituto, in tribunale, in carcere: profili giuridici e psicologici, FRANCO ANGELI, 1993)