Nelle mani di un Joystick

 

Tiziana Pozzetti

02-10-2009

 

Oggi il Dott. Aparo ha letto al gruppo un suo scritto che tocca, in modo più o meno esplicito, diversi temi che sono stati precedentemente trattati: le microscelte, l'onnipotenza, il rapporto con le istituzioni, il rancore e così via.

Lo scritto si domanda in primo luogo quali siano le condizioni che consentono al detenuto di uscire dal carcere con la sensazione di aver appreso qualcosa durante il periodo di detenzione, di essere cresciuto, di avere un progetto da realizzare nel tempo, di avere un'alternativa alla delinquenza e un domani da costruire. Questo scritto però compie un passo ulteriore. Oltre a domandarsi quali siano tali condizioni, si domanda anche chi debba impegnarsi affinché esse possano realizzarsi.

Il ragionamento parte da una constatazione, da un dato di fatto: il detenuto si mostra spesso preoccupato del male che ha procurato ai suoi familiari, ma altrettanto spesso non si preoccupa del male che ha procurato agli “altri”, intesi non solo come le vittime dei suoi soprusi, ma anche i famigliari delle vittime e la società in generale.

D'altra parte, fino a che “gli altri” vengono concepiti come se fossero delle pedine di un videogioco, è evidente che non è possibile fermarsi a pensare che possano soffrire e provare quei sentimenti che generalmente provano gli esseri umani. Solo nel momento in cui ci si rende conto di avere davanti un essere umano, infatti, ci si può preoccupare del male che gli si può arrecare.

Il fatto di considerare gli altri come pedine di un videogioco, non riguarda però solo i detenuti e probabilmente questa visione distorta del mondo affonda le sue radici in una fase precoce dello sviluppo. I bambini piccoli, prima di arrivare a provare un amore consapevole per i propri genitori, li amano perché essi soddisfano i loro bisogni e desideri. I genitori vengono considerati come degli oggetti che servono per sopravvivere.

Crescendo però impariamo, con l'esperienza, che gli altri ci somigliano, che provano i nostri stessi sentimenti e che possono diventare preziosi alleati per il raggiungimento dei nostri obiettivi. Ma questo non è ancora sufficiente.

Probabilmente la condizione più matura a cui un uomo può approdare è quella di riuscire a stabilire con gli altri, anche al di là degli affetti familiari più stretti, delle relazioni autentiche. Gli altri, quindi, non sono importanti solo perché ci aiutano a raggiungere degli scopi materiali, ma perché ci permettono di vivere relazioni soddisfacenti, che ci fanno sentire la piacevolezza di impegnarci e di assumere delle responsabilità nei confronti di chi ci circonda, più in generale, nei confronti della società e, di conseguenza, nei confronti di noi stessi e del nostro futuro.

Ma questa condizione pare che sia molto difficile da raggiungere. Quando va bene le persone si accontentano di stabilire legami di convenienza e cortese ma distante rispetto, quando va male si arriva a puntare una pistola verso chi viene semplicemente considerato un ostacolo verso il proprio obiettivo, che sia la droga o i soldi di una rapina. E' proprio come in un videogioco, per vincere devi essere spietato, non puoi fermarti a guardare in faccia nessuno. In questi casi è comodo pensare che l'uomo a cui stai sparando, o il ragazzo a cui stai spacciando, in realtà, sono solo alcune delle tante pedine senza volto a cui noi non dobbiamo niente. Così, per queste persone che hanno avuto la sfortuna di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato, la vita diventa un terno al lotto, affidata alle mani di chi possiede una pistola che diventa come un joystick con cui decidere chi deve vivere e chi deve morire.

Ma lo scritto del Dott. Aparo non si limita a queste considerazioni. In un passaggio successivo egli dice che chi tratta gli altri come delle pedine di un videogioco lo fa perché, probabilmente, si è sentito a sua volta trattato come una pedina. Questo non giustifica il suo gesto ma pone alla società, alle istituzioni, il compito di interrogarsi su quali siano le condizioni affinché le persone possano uscire dalla gabbia in cui si sentono manipolate, affinché possano realmente essere e sentirsi considerate come delle persone, sentirsi protagoniste della loro vita, ovvero protagoniste di quel progetto che porta il loro nome.

Sono molte le istituzioni chiamate in causa. Il percorso che porta le persone a diventare uomini maturi e responsabili è lungo e, come detto, inizia quando siamo ancora piccoli. La soluzione ai problemi difficili non è mai semplice. Ciò che viene in mente, quindi, per promuovere in modo organico e sistematico un cambiamento che sia duraturo e di ampia portata, è la possibilità di agire in modo capillare e a più livelli, all'interno della società.

In primo luogo sarebbe interessante andare nelle scuole, soprattutto quelle superiori, ad incontrare i ragazzi. E' qui infatti che nascono i primi episodi di bullismo, è a questa età che si entra in contatto per la prima volta con la droga, con la voglia di evadere, con le prime delusioni. Spesso sono balzate alle cronache stragi compiute da school shooter appena diciottenni. Con i ragazzi in età scolare, oggi sempre più abituati ad avere in mano un joystick, sarebbe utile e interessante riflettere su quanto si sentano effettivamente protagonisti delle loro vite. Il ruolo dell'istituzione scolastica è quindi fondamentale in tal senso.

In secondo luogo anche l'istituzione carceraria è chiamata in causa. La “rieducazione” del detenuto non è solo una questione che riguarda il detenuto e la sua possibilità di “redenzione”. Non è un “favore” che l'istituzione e la società fanno al detenuto, ma è, invece, l'unico modo per ridurre il numero delle persone che si sentono trattate come pedine e che, di conseguenza, comprano un joystick o una pistola per sentirsi di nuovo protagonisti di una vita che non sentono più appartenergli e da cui hanno preso le distanze.

Dare al detenuto la possibilità di crescere, di assumersi le sue responsabilità, significa dargli una seconda possibilità di poter godere della propria vita, e a tutti gli altri cittadini, compresi i  familiari dei detenuti e delle vittime, significa dare la possibilità di non essere più pedine di un videogioco nella mani di un Joystick.