Il jostick e le forze alleate

 

Angelo Aparo

01-10-2009

 

Sono Angelo Aparo, il mio progetto è il Gruppo della Trasgressione.

Ringrazio prima i numerosi detenuti che dalla ripresa di settembre stanno contribuendo con la serietà del loro impegno alla riflessione comune. Spero che anche loro, dai più giovani ai tanti che sono miei coetanei, possano a loro volta ringraziare fra qualche anno me, il gruppo e chi vorrà aggiungere forza al nostro progetto.

Un pensiero affettuoso va agli ex detenuti che hanno contribuito alla nascita del gruppo, ai molti membri esterni e interni che oggi ne sono pilastri, ai tanti che, con le loro testimonianze nelle riunioni in carcere e negli incontri con le scuole, motivano i detenuti più giovani e gli studenti delle medie superiori a dialogare con la loro rabbia, in alternativa a perdersi nei deliri di onnipotenza e ad affossare i loro progetti nella droga.

 

 

In questi giorni sto leggendo decine di documenti provenienti dai tanti detenuti che fanno parte del Gruppo Trsg, oggi presente nelle carceri di San Vittore, Bollate e Opera. In quasi tutti gli scritti c’è qualcosa che mi sorprende: per un verso, l’arroganza, la superficialità del pensiero, la spinta a nascondersi dietro un dito;  per l’altro, la capacità di raccontare, il piacere della scoperta, l’emozione della crescita, l’eccitazione di accedere a nuovi orizzonti, l’entusiasmo del lavoro di squadra.

La mia posizione privilegiata all’interno del carcere mi lascia cercare dentro la superficialità e l'arroganza senza stigmatizzarle e senza difendermene; il mio ruolo, certamente gratificante, mi incoraggia a riconoscermi nei risultati e nella evoluzione di tante persone; la mia funzione, all’interno del progetto del gruppo, mi permette di essere duramente critico senza la paura di essere rifiutato.

Appena ieri, mi chiama a casa Ivano, scarcerato da un paio di settimane perché le sue condizioni di salute non sono compatibili col regime carcerario (una vita di reati e di droga assunta in tutti i modi possibili): “Dottore, sono Ivano, ho preso 4000 euro di pensione, ho deciso che compero un motorino di seconda mano per muovermi e non un solo grammo di droga. Mi sono fatto di coca il primo giorno che sono uscito, ma ho deciso che non voglio più farlo e mi sento contento come un bambino che ha appena ricevuto un regalo. Sono anche tornato a casa con i miei genitori”. Ci siamo incontrati davanti a San Vittore un quarto d’ora dopo e, in effetti, stava bene, desideroso di mantenere i contatti col gruppo anche adesso che è fuori, anche adesso che è libero di distruggersi ancor più di quanto abbia fatto quando era dentro, più di una volta e ricorrendo ad ogni mezzo possibile.

Quanto durerà e da cosa dipende? La volontà, l’ambiente attorno a lui, l’equilibrio che ha provato a raggiungere, l'immagine che ha di se stesso, il suo senso morale, il caso, le microscelte… mille risposte, inevitabilmente parziali… e, d’altra parte, non ce ne sono d’altro tipo!

 

 

E intanto continuo a leggere scritti e osservo che da ognuno traspare una particolare visione delle cose. A volte riesco a cogliervi una immagine di sé e delle proprie relazioni più o meno organica, più o meno consapevole; spesso li sento attraversati da un bruciante desiderio di esserci e di riscoprirsi; altre volte mi sembra che non esista nemmeno un tentativo di individuare una propria idea di se stessi, un proprio ruolo nel mondo.

Ma, inevitabilmente, un’immagine di sé, al fondo, esiste; per quanto disarticolata, è pur sempre l’immagine che ciascuno ha di sé, del proprio ruolo nel mondo, quella che permette di aggregarsi in bande per aggredire il disabile, drogarsi, spacciare, rapinare; o al contrario, lanciarsi verso l’esercizio delle proprie qualità. Sono insomma gli occhiali con cui guardiamo dentro e fuori di noi a permetterci di sparare all'estraneo che viene tenuto deliberatamente nella nebbia, rubare con destrezza o con violenza qualcosa dagli altri, lasciare sulle strisce pedonali un uomo appena investito,abusare del nostro potere, oppure godere dei risultati ai quali noi abbiamo contribuito.

Perché nella grande maggioranza dei casi i detenuti riescono al massimo a ricordarsi del dolore causato ai propri familiari?  Il fatto che non ci si ricorda degli altri a cosa è dovuto? E soprattutto, possiamo realmente credere che tale dimenticanza possa essere curata attraverso la pena? Possiamo concederci di credere che la punizione possa contribuire ad aggiornare la visione del mondo di chi dimentica tanto facilmente l’altro?

E poi, agli occhi di chi viene punito, quanto è credibile che fra gli obiettivi della pena ci sia l’evoluzione del condannato? Agli occhi di chi si è consegnato all’eccitazione e/o alla beanza delle droghe, quali caratteristiche sostanziali e riconoscibili deve presentare un’autorità che punti a bonificare le paludi interne nelle quali l’immagine delle prime autorità si è degradata? Quali interventi devono essere praticati su queste paludi, su quelle autorità e sull’immagine di sé, affinché la persona possa puntare a mete diverse rispetto all’eccitazione senza obiettivi?

 

 

Osservo che ci sono modi di sentire se stessi nel mondo che non possono portare a nient’altro che all’esclusione degli altri dalla propria vita, ad una visione degli altri come figure di un videogioco e di sé come un giocatore che cerca di vincere punti. Mille volte nei miei colloqui in carcere ho sentito parlare di: un giocatore "... sfortunato se all’uscita dalla banca una volante della polizia lo sorprende"; un giocatore "... costretto a picchiare un gioielliere ostinato a difendere un capitale che gli verrà sicuramente risarcito dall’assicurazione"; un giocatore che, "... senza avere obbligato nessuno a consumarsi con l’eroina, viene considerato alla stregua di un assassino".

Possiamo anche affermare che ciascuno è libero di scegliere… anche se è utile ricordare che esistono gradi diversi di libertà!

Sappiamo bene, soprattutto, che, indipendentemente da cosa sia e da come si costruisca la libertà, per vivere in collettività, dobbiamo comunque assumere che ciascuno è responsabile delle proprie scelte!

Ma quando abbiamo le prove che queste scelte sono distruttive, non abbiamo anche il dovere e la convenienza di chiederci a quale visione del mondo corrispondano? Se sia possibile con quegli occhiali agire diversamente?

 

 

E se poi giungiamo alla conclusione che non è possibile; se l’osservazione di ennesime recidive ci porta a concludere che è solo per un caso che il tabaccaio (e qualche volta il rapinatore) non siano morti come bersagli di un video gioco; se l’ascolto di tanti adolescenti e di tanti detenuti impone di constatare che esistono occhi che si sentono esterni al mondo tanto da riuscire a guardarlo solo tenendo degli assurdi joystick in mano; se l’esperienza di chi lavora in carcere e nelle scuole dice questo, che senso ha, a quale criterio etico, a quale logica economica corrisponde lasciare che la nostra vita sia decisa (e oltretutto per caso) da chi si sente fuori dalla vita?

E allora quali sono le istituzioni deputate a chiedersi che senso abbia lasciare le nostre vite al caso? Quali quelle dove provare a nutrire le persone di cultura e di emozioni fino a permettere che i bersagli occasionali del video gioco diventino loro amici o addirittura loro concittadini?

Dove e con quali alleati ci si deve chiedere di cosa, di quali occhiali, di quale nutrimento l’uomo ha bisogno perché possa abbandonare i joystick senza sentirsi egli stesso bersaglio o pedina marginale di un gioco giocato da altri?