Intervista a Franco Rella su "Figure del male"

a cura della redazione di www.feltrinelli.it

Note sul libro

Cosa significa scrivere un libro sul male?
Come hai pensato di poterlo circoscrivere, di poterlo esprimere?

Scrivere non è soltanto, e forse non lo è nemmeno in prima istanza, comunicare idee o fatti. È molto di più. È cercare di dare forma alla domanda di senso che emerge dal nostro rapporto con il mondo: con le cose e gli esseri che abitano il mondo. Ho affrontato la questione del male come essa emerge dal "mio" rapporto con il reale intrecciandola con le riflessioni che su questo tema sono state fatte nel corso della nostra cultura. E qui è nato subito un problema. Come mettere "in trama" i vari punti di vista che inevitabilmente si presentano di fronte a questo problema? Il male è vissuto come sofferenza, come malvagità, certo, ma questo non basta. È necessario tener presente come diversamente queste dimensioni sono vissute e comprese a seconda delle diverse opzioni etiche e intellettuali che sono via via in gioco.

Per questo nel primo capitolo ho dato corpo a diverse prospettive in tre diversi personaggi, che affrontano dialogando il problema da un punto di vista legato alla razionalità filosofica, da punto di vista connesso a una visione in qualche modo religiosa, e infine dal punto di vista di un testimone che dà conto del male come di una propria inaggirabile esperienza.

Il discorso si è dipanato poi in una serie di capitoli che affrontano il male come sofferenza, come assenza di bene, come banalità. Ho cercato di interrogare l’orrore di Auschwitz, e il male più sottile della noia, per calarmi poi in quello che Montale chiama "il male di vivere", quello che avvertiamo quasi ad ogni respiro mentre procediamo nel mondo e nelle nostre relazioni o quando, invece, entriamo in noi, nei nostri labirinti interiori. Alla fine ho affrontato anche il male che è implicito nello scrivere stesso, in quella dose di egoismo e di narcisismo che esso sempre comporta.

 

Nell’epilogo si parla infine anche dell’orrore dell’11 settembre
e di quello che a quell’evento ha fatto seguito.

Ma i personaggi che avevo creato e messo in scena all’inizio non mi hanno abbandonato. Mi hanno seguito lungo tutto il mio percorso, e sono via via riemersi con la loro voce per dire quello che il saggio, nel suo andamento più argomentativo, rischiava di lasciare ai margini. Alla fine, quando ho deciso di chiudere il libro è quasi con dolore che li ho lasciati andare: facevano ormai parte di me, facevano parte della storia che si era intessuta scrivendo.

L’esito di tutto è un libro forse inconsueto. Ma è il libro, tra quelli che ho scritto finora, che più ho amato e che continuo ad amare, perché mi pare di essere riuscito in esso a dare una visione complessa e problematica del problema, ma al tempo stesso di essere riuscito a partecipare al lettore il senso non solo di un pensiero ma di una esperienza. Di aver fatto appello ad esso come a un amico, o a un fratello, o ancora più come a un complice.