Arte e psicoterapia

Giuseppe Raniolo

05-04-2005  

Mi occuperò in questa breve nota solo di un aspetto della produzione artistica dei nostri pazienti, cioè del ruolo che essa svolge all’interno della relazione terapeutica.

Avviene talvolta che un paziente, una persona, porti in visione o in regalo al terapeuta, a un'altra persona, delle produzioni artistiche. Si tratta di poesie, di racconti, di drammi, di brani musicali, di pitture, di sculture… A volte queste opere appartengono ad un’epoca precedente la terapia stessa, altre volte vengono prodotte durante la terapia. A volte gli autori scoprono durante la terapia la propria creatività e la capacità di produrre opere d’arte.

Mi chiedo perché i pazienti sentano l’esigenza di portare le proprie opere in terapia e, soprattutto, perché le regalino al terapeuta. Certo, io do molta importanza alla creatività e alla capacità  del paziente di mobilitare risorse per potere accedere al suo mondo interno e rappresentarlo o narrarlo ma ciò, da solo, non spiega l’esigenza del dono dell’opera al terapeuta. Il dono è anche segno di gratitudine, ad esempio per il riconoscimento e l’attivazione della funzione creativa, ma se la gratitudine spiega il gesto del dono non ne spiega l’oggetto, l’opera stessa.

La mia ipotesi è che l’opera prodotta durante il percorso terapeutico o comunque portata all’interno del setting costituisca una rappresentazione dinamica della relazione terapeutica stessa. Essa quindi non può essere interpretata solo in sé, in quanto prodotto di un individuo isolato, come “spaccato” del suo mondo interno, ma anche come oggetto o prodotto che illumina, se interrogato, sulla relazione.

Il tema si complica se ci si chiede per chi viene prodotta l’opera d’arte. A chi viene proposta e in che forma?  Di simbolo, di allegoria, di emblema, di spia, di traccia, di enigma… La mia ipotesi è che l’interlocutore ci sia sempre; palese o nascosto, terreno o ultraterreno e che l’opera testimoni sempre dello “stato” della relazione con questo interlocutore.

Nell’opera d’arte, letta in questa accezione, il passato, il presente e il futuro così come i luoghi in cui un’azione si è svolta, si svolge e si svolgerà, sono piani intersecati per cui (come è giusto che sia in una terapia) ciò che accadrà è già accaduto e ciò che è accaduto deve ancora accadere o deve riaccadere, magari per essere rivisitato.

Questo oggetto, questo prodotto, contiene allora un germe vitale ed è un attivatore della ricerca di senso, esso non è quindi mai un oggetto morto o un escremento. Anche se l’oggetto trae le sue origini, come si è fatto da certuni rilevare, dalle deiezioni, dai suoni e rumori emessi dal corpo e dal piacere di imbrattare, esso se ne è poi allontanato, inoltrandosi in un viaggio nel mondo dei significati, che è mondo delle relazioni.

Trae la sua origine allora dalla relazione con la madre e dalla capacità di questa di trovare belle e ricche di senso le produzioni del bambino. Se in un primo tempo, queste produzioni si riferiscono a manifestazioni corporee, attestanti il fatto che il piccolo è vivo e intento a mantenere la relazione con la madre, l’unica relazione alla quale attribuisce, e non a torto, il potere di mantenerlo in vita; in un secondo tempo, si apre uno spazio tra di loro in cui vengono collocate e assieme godute le produzioni che dicono della loro relazione. Si può trattare di lallazioni come di canzoni, di gesti come di balli, di scarabocchi come di disegni… Ciò che viene creato è “un mondo interno alla relazione”, che la relazione ha suscitato e che la relazione difende, accudisce, stimola.

E’ un mondo in attesa dell’Altro (con la a maiuscola), del padre, della famiglia, del sociale. Un Altro “presentito”, costantemente presente nella mente degli attori di questa vicenda. “Mondo interno alla relazione, in attesa dell’Altro” non chiuso e autosufficiente, pernicioso e mortifero.

L’opera d’arte portata al terapeuta diventa un “oggetto analitico”, che necessita di interpretazione alla stregua di un sogno, o di ogni altro aspetto della vita del paziente, ma è un oggetto analitico che va interpretato anche in quanto frutto di una relazione creativa e quindi sessuata e nella quale la dinamica del desiderio e la dialettica del transfert-controtransfert si esprimono all’interno del campo in cui si pone la coppia analitica al lavoro.

Questa opera d’arte è portata per essere riconosciuta tale: a volte è stata nascosta per anni in attesa di un riconoscimento che non sembrava potesse mai arrivare. In un caso una paziente afferma di avere scritto un libro all’età di otto anni e me lo descrive: con la copertina e i disegni sulla copertina e ad ogni capitolo, con l’indice degli argomenti e poi i contenuti, tutto ciò che aveva appreso sul cervello e il suo funzionamento. Lo fece vedere ai suoi genitori che lo trovarono non originale, scontato e scopiazzato, realizzato senza perizia. La paziente lo buttò via come oggi tutte le opere che realizza e che poi ritiene inadeguate, di scarso pregio e così ogni cosa che produce deve scomparire rapidamente dalla realtà e dalla sua mente: apprendere equivale a perdere e dimenticare. Per esempio: in pochi mesi legge tutto quello che è stato tradotto in italiano di un noto pensatore francese, scrive un libro sul suo pensiero, quindi lo ripone non sa più dove, rabbrividisce quando tra i file del computer ne trova alcuni che si riferiscono a quell’opera e il filosofo è perso anche nella sua mente. Mi dice: “Ricordo ciò che ho letto ma non riesco a metterlo in relazione  con gli altri miei pensieri” e così accade per ogni cosa che la interessa e la coinvolge…. Vivono nella sua mente ma isolate e irrimediabilmente private della possibilità di attivare un legame con altre parti del mondo interno.

Un’altra mia paziente, schizofrenica, componente di un gruppo che avevo chiamato “percorsi narrativi per immagini”, mise come titolo ad un suo disegno: “Il sole è solo dentro di noi” che poteva significare infinite cose e tra queste: Possiamo trovare il sole solo all’interno di noi stessi (intesi come individui); il sole è isolato dentro noi stessi (intesi come individui); possiamo trovare il sole solo dentro di noi (cioè dentro il gruppo); il sole è isolato dentro di noi (dentro il gruppo). Questa paziente disegnava isole e arcipelaghi, oggetti isolati nello spazio, sempre incapaci di una relazione, irrimediabilmente appartati e solitari. E’ a questo sole che non entra in relazione con alcuno che attribuisce il potere di renderla sterile, desertica. Ultimamente mi ha detto: “Mi sono inaridita come una bifolca”, un sole impietoso brucia il contadino piuttosto che dargli la vita. Ambiguità del sole, ambiguità della madre che si può rendere tanto vicina fisicamente ma altrettanto distante affettivamente da abbagliare e bruciare piuttosto che illuminare e scaldare o del conduttore del gruppo che può essere vissuto come un sole mortifero, incapace di attivare un legame vitale.

Quando il paziente porta un’opera del suo passato nella terapia ciò che intende comunicare è la necessità di ricevere quel riconoscimento che è mancato un tempo o che è stato difettuale e sicuramente l’opera parlerà, se interrogata dai due attori della vicenda analitica, del mancato riconoscimento e del modo o dell’ambito in cui esso si  è espresso, parlerà di una mancanza, di un’assenza, di una deformazione… e ne parlerà spesso con modalità che definiremmo metafisiche perché l’oggetto della relazione alla quale le opere venivano dedicate era così distante da essere considerato divino. Una divinità inattingibile, irraggiungibile.

Quando l’opera d’arte è stata prodotta prima della terapia, spesso è un’opera superstite, le altre sono state distrutte o rischiano di esserlo, se non dall’autore stesso, da chi, dopo la sua morte, le considererà spazzatura, escremento, scarto. Così è accaduto troppe volte. Solo raramente accade che le opere vengano conservate. Valga come esempio quello di Filippo Bentivegna, il Signore delle Teste, che a Sciacca aveva riempito il suo “castello incantato” di teste scolpite, nella pietra come nei tronchi d’albero. Alla sua morte il suo castello rischiava di essere distrutto, e in parte lo è stato, anche a causa delle opere di restauro che avrebbero dovuto conservalo.

In questi casi che tipo di relazione l’autore stabilisce  con il proprio gruppo, interno e reale? Sembra che essa sia spesso distruttiva, sia quando è l’autore stesso ad incaricarsi di eliminare l’opera, sia quando se ne incaricano gli altri.

Un mio paziente, psicotico, tossicodipendente, alcolista, affetto da AIDS, mi ha donato un’opera superstite. Le altre sono state distrutte dalla moglie o da lui stesso. Come quelle eliminate, è una scultura in pasta di sale spruzzata di vernice dorata che rappresenta una testa fatta di teste. Quando orgoglioso me la descriveva, il giorno in cui me l’ha regalata, mi ha fatto notare le bocche, innumerevoli e aperte, che incutevano paura alla moglie. Lei ha sempre considerato queste opere delle “schifezze”. Quelle bocche spalancate, che facevano pensare alla fame, e la pasta di sale, possibile cibo divenuto d’oro, mi ha ricordato il mito di re Mida che per avidità aveva chiesto a Dioniso di potere trasformare in oro tutto ciò che avesse toccato. Re Mida aveva rischiato di morire perché anche l’acqua e il cibo che portava alla bocca si trasformarono in oro.

L’avidità del mio paziente, non poteva essere soddisfatta, invasiva, traboccante, apocalittica. Un giorno una voce, proveniente dalla caldaia, gli comunicò che lui era il prescelto salvatore di poche migliaia di individui che sarebbero scampati al diluvio. Doveva convincerli a rifugiarsi sull’Etna accanto alla bocca del vulcano che non smette mai di eruttare lava. Fu dopo il ricovero che distrusse tutte le teste tranne quella che mi ha regalato.

Il dono dell’opera al terapeuta, oltre ad esprimere la speranza di essere riconosciuto da un interlocutore non più soprannaturale e di riconoscergli la funzione di interprete (di una relazione, di un rapporto che si avverte proficuamente creativo e reciprocamente arricchente), gli impone la nuova funzione di testimone, depositario e custode.

Si tratta di una responsabilità che va assolta a favore del paziente, della relazione, del gruppo (la comunità dei pazienti e dei terapeuti, la società tutta). Un’opera donata altera irrimediabilmente la relazione terapeutica perché verrà considerata sempre presente, anche quando i sensi non lo confermeranno,  e ad essa si farà spesso riferimento implicito o esplicito nel corso della terapia.

Diverso è il caso dell’opera portata in visione o donata che è stata realizzata durante la terapia stessa. In questo caso essa è testimonianza della relazione avviata e ne è una rappresentazione. Mantiene una chiara funzione di interlocuzione ed è segno della funzione creativa che viene attribuita alla relazione terapeutica.

In un caso, per la prima volta nella vita, un’artista aveva riconosciuto di essere tale e ha cominciato così, durante la terapia, a produrre opere pittoriche. In un altro un artista gravemente disturbato, che non ha mai mostrato le proprie opere al alcuno, se non ai suoi familiari, e che divide le sue opere in cicli, uno dei quali è dedicato alla sua malattia, ha potuto finalmente dipingere un altro essere umano nelle sue opere, un compagno nella sofferenza e nel dolore, e me ne ha fatto dono. In un altro caso ancora, l’esperienza terapeutica è diventata scoperta di un talento letterario, racconto e quindi libro, dato alle stampe, che mi è stato donato.

La psicoterapia è il luogo in cui primariamente si manifesta la pubblic-azione. In ognuna di queste opere la terapia è rappresentata nella sua interezza e gli attori della relazione vi si possono riconoscere.

Ogni opera è rappresentazione e narrazione ma anche enigma. Ogni opera chiede di non essere interpretata del tutto, di non essere “esaurita”, cioè svuotata di senso attraverso letture troppo sature. Ogni opera chiede di restare, nel fondo, enigmatica e quindi continuamente interrogabile, oracolare.

Un’ultima considerazione: l’opera d’arte può anche essere intesa come mito della coppia analitica al lavoro, pubblic-azione di un mito personale che si riferisce al legame analitico. A questo mito, come scrive Romano, “la coppia analitica farà riferimento non soltanto per confermare, ma anche per distinguere, procedere, approfondire o ampliare l’analisi…” e questo mito può essere raccontato agli altri, mostrato, letto, suonato, perché anche gli altri possano essere in grado di ritrovare i miti dentro di loro e di inventarne di altri in una catena infinita di sogni e di narrazioni.