Informazioni dal carcere: Il piacere dell'onestà

Ornella Favero

07-04-2011

 

Informazione dal carcere: “Il piacere dell’onestà”

Quando, quasi quindici anni fa, ho deciso di provare a fare informazione dal carcere, ricordo che per cercare di spiegare alle persone detenute che avevano deciso di partecipare a questo progetto che tipo di informazione avrei voluto fare, non ho trovato niente di meglio dell’aggettivo “onesta”, volevo esattamente provare a fare una informazione onesta: ragionare prima di tutto, cioè, se il valore così fuori moda dell’onestà, associato all’informazione, potesse essere messo come fondamento del lavoro di una redazione di “ladroni”, come si definivano alcuni di loro.

”Il piacere dell’onestà” in carcere lo avevano ovviamente sperimentato davvero in pochi, e così abbiamo iniziato un complicato percorso alla ricerca esattamente di questo, di quel piacere sottile che ti dà l’idea di non ingannare i tuoi lettori, di non raccontargli bugie, di non cercare di passarti per quello che non sei.

Ma la fatica di essere onesti nell’informare per chi sta in carcere è tanta, perché si tratta, spesso, di “mettere al servizio” degli altri il peggio di sé, la parte più negativa della propria vita, che è anche il modo più profondo per dare un senso all’informazione, quando è fatta realmente da persone detenute. Perché la loro vera “competenza” sono le testimonianze dirette, il fatto che un detenuto vive sulla sua pelle la desolazione del carcere, così come ha vissuto direttamente la conoscenza del “male”, qualche volta ha scelto lucidamente di farlo, qualche volta non è riuscito a controllare la sua vita che deragliava, ma comunque sa cosa vuol dire fare del male. Ed è un’esperienza che va raccontata, perché sentire il racconto di come si può arrivare a commettere un reato, e capire che non capita solo agli “altri”, altri da noi naturalmente, è, per i giovani in particolare, uno straordinario allenamento a “pensarci prima”.

 

Non ci hai pensato prima? Paga

Quando è morta mia madre, mi è caduto addosso un senso di colpa pesante per non essere riuscita, nei suoi ultimi anni, a starle davvero vicina e per aver mostrato a volte tutta l’insofferenza che è facile provare per le piccole manie e le pesantezze delle persone anziane. In quella occasione mi è venuta in mente la domanda ossessiva che fanno i ragazzi, nel sentire i racconti dei detenuti: ma non potevate pensarci prima? C’è in loro, ma anche in tanti adulti una cieca fiducia nella propria razionalità, nel fatto che, conoscendo i rischi connessi al male, loro sceglieranno sempre il bene, e se non lo faranno meritano la più dura delle punizioni. E invece, le vite di tutti noi sono piene di situazioni in cui, anche da persone adulte, mature, non siamo riusciti a pensarci prima, e di rimpianti per non averlo fatto.

L’informazione che noi riusciamo a fare dal carcere è allora una specie di “allenamento a pensarci prima”, in contrapposizione a tanta informazione ufficiale, che tende a far credere alle persone che il mondo è diviso fra i buoni, che sanno sempre razionalmente pensarci prima, e i cattivi, che invece se ne fregano delle conseguenze delle proprie azioni e quindi vanno puniti senza pietà.

La creazione del “mostro”

Ma l’informazione dal carcere può aprire un’altra finestra su una realtà complessa, che giornali e televisioni riducono spesso al fatto nudo e crudo, l’omicidio in famiglia, condito di dettagli agghiaccianti. Sono fatti presentati puntando a costruire l’immagine del mostro, il marito che ammazza la moglie selvaggiamente, e andando a raccogliere i commenti dei famigliari della vittima per avallare questa idea del mostro. La realtà invece non è così semplice, lineare, questa mattina ho sentito un detenuto raccontare agli studenti la sua storia, una vita tutta per la famiglia e il lavoro, ma anche dei problemi irrisolti e taciuti, la moglie che soffriva da anni di depressione, la malattia di cui non si doveva parlare, e nello stesso tempo però anche delle cose belle, un figlio, una carriera come dirigente di banca, una famiglia unita nonostante la malattia, ma anche tanta fatica. Poi arriva un periodo di crisi sul lavoro, una sensazione come di sentirsi accerchiato, il ricorso ai farmaci per uscirne, e una mattina in cui si è trovato a svegliarsi in ospedale, intubato, e ad apprendere di aver massacrato la moglie, ferito il figlio e rivolto l’arma contro di sé. Se riusciamo a sfrondare i fatti dai particolari inutili, da qualsiasi morbosità, e a raccontare una storia così, noi riusciamo anche a trasmettere ai nostri lettori l’idea che non ci sono i mostri, ci sono persone che possono fare cose mostruose. Una sottile distinzione, importante per non “rassicurare” chi ci legge, perché l’informazione non deve essere rassicurante, deve far capire, deve portare per mano a vedere le tante facce della realtà. E la realtà è anche quella di famiglie come le nostre, dove a volte un conflitto, una malattia, una improvvisa fatica di vivere fa saltare tutti gli equilibri.

Vedere la persona che c’è dietro un reato, sentire la sua storia, aiuta a trovare quanto di umano c’è anche in chi compie gesti disumani e, in fondo, a “riconciliarsi” con gli altri, non a giustificare quello che hanno fatto, ma a capire e a portare con sé la ricchezza che viene dell’aver capito un pezzettino nuovo di animo umano.

 

La passione della testimonianza, la forza della notizia

La passione della testimonianza, la forza della notizia: è stato faticosissimo trovare allora questo equilibrio nel fare informazione, prima di tutto perché la testimonianza, “le storie” sono un elemento prezioso dell’informazione, ma sono anche un grande rischio. Penso a come certe trasmissioni televisive si rivolgono a noi, che abbiamo a che fare con il carcere, per avere appunto delle “storie” da raccontare: storie di detenuti che si sono reinseriti, storie di figli di detenuti, storie di mogli che hanno seguito i mariti per anni, STORIE. Ma le storie che si possono trovare in galera sono “materia incandescente” per tante ragioni: perché i protagonisti hanno avuto delle vittime, e rispettarle impone di raccontarsi con cautela; perché hanno delle famiglie, che spesso sono altrettanto vittime, che hanno subito la vergogna e l’isolamento di chi ha un padre, una madre, un fratello in carcere; perché chi ha una storia di galera da raccontare non può non essere tentato di cercare giustificazioni al peggio della sua vita; perché la vita in carcere è sempre, ma lo è in particolare oggi, ai tempi del sovraffollamento, così degradante, che finisce per essere inevitabile sentirsi vittime e innescare un perverso cortocircuito, del “carnefice” che si lamenta di quanto male sta e di quanto lo maltrattano.

 

Il lettore, “l’altro” a cui non ho mai pensato

E invece l’unico modo per comunicare e informare dal carcere è scrollarsi di dosso qualsiasi “sentimento da vittima” e affrontare, anche informando, il tema della responsabilità: perché il primo passo per “spezzare la catena dell’odio” è far percepire agli altri, a quelli che stanno fuori e tendono ad assumersi il ruolo del giudice, che hanno di fronte una persona consapevole del male fatto, non una che ti sbatte in faccia la solita formula “io ho pagato il mio debito con la giustizia” e se ne frega dei debiti di umanità ferita che ha disseminato.

Scrivere per un giornale è, da questo punto di vista, uno straordinario lavoro perché, forse per la prima volta, costringe le persone a fare qualcosa tenendo sempre d’occhio l’altro. E siccome in galera ci stanno soprattutto persone che, nel commettere reati, se ne sono fregate degli altri, è interessante vedere come quelle stesse persone imparano a raccontare le proprie esperienze, a capire che le parole vanno maneggiate con cura, scelte, usate scartando quelle che si sa che possono fare del male. E che la scrittura richiede un altro passo “ostico” per chi ha fatto della violazione delle regole la sua legge: perché la scrittura ha bisogno appunto di regole, richiede di condurre il lettore quasi per mano dentro un testo, a capire una realtà come quella dei reati e del carcere, che è complessa e che non può essere banalizzata. E che va raccontata con i caratteri del racconto sobrio, usando quella che era la regola di Italo Calvino: “La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso”, “Se puoi tagliare una parola, tagliala sempre”. E anche questa è una battaglia importante, riuscire a spiegare ai detenuti che la parola asciutta, sobria, sincera, è molto più efficace dei toni forti, urlati, di denuncia.

 

Se diciassette anni vi sembran pochi

“Dopo solo diciassette anni è già libero”. Per finire, vorrei soffermarmi su questo titolo di un quotidiano, del 2008, riferito a un detenuto particolarmente conosciuto, Pietro Maso, il ragazzo che a diciannove anni uccise i genitori. Il titolo conteneva un errore, e poi un giudizio sulla quantità di pena scontata, che nulla hanno a che fare con la notizia vera. L’errore è dire che Pietro Maso sia già libero, no, lui ha ottenuto la semilibertà, che è una misura alternativa per cui si lavora all’esterno, con un programma rigidissimo e possibili controlli della Polizia in qualsiasi momento, e si rientra in carcere alla sera, e se si sgarra ci si ritrova in un battibaleno rinchiusi; il giudizio invece è ritenere che diciassette anni siano niente per un omicidio. Può darsi che diciassette anni di galera siano pochi per una persona che ha ammazzato, ma ai ragazzi delle scuole che entrano in carcere per incontrare i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti noi abbiamo posto due domande elementari: Quanti anni avete? Vi sembrerebbe davvero una cosa da niente passare in carcere tutti gli anni della vita che avete vissuto finora? Io credo allora che un giornalista non possa scrivere “solo diciassette anni”, non è onesto dare alla gente, ai lettori la sensazione che diciassette anni di galera, in cui non sei padrone di un minuto della tua vita e dipendi in tutto da un agente, anche per spegnere la luce di notte, andare in doccia, chiamare a casa per i miseri dieci minuti consentiti, non siano niente. Non è onesto, e infatti i giornalisti “regolari”, liberi, il piacere dell’onestà dell’informazione, almeno rispetto al carcere, sono sempre più disabituati a provarlo.