Alberto Maffeis

Biblista della Facoltà di Teologia di Bergamo


A cura di Luca Raineri Intervista sulla punizione Le altre interviste

 

Ci dica 5 parole che lei può associare al termine “punizione”.
Pena, espiazione, giustizia, colpa, tempo.

 

Ci può parlare brevemente di una punizione che ricorda di aver subito?
Ricordo al liceo una professoressa che si era molto arrabbiata per cose successe in classe e ci aveva caricato di compiti in modo abnorme, esagerato.

 

E lei ha mai punito qualcuno?
Punito coll’autorevolezza di chi costringe uno a qualcosa, credo di no. Punito nelle relazioni personali per cui uno ti fa arrabbiare e tu gliela fai pagare –che so- con il silenzio o togliendogli disponibilità, questo sì.

 

Di solito si punisce un comportamento, ma quali sono le costanti dei comportamenti che vengono puniti, quali sono gli atteggiamenti che di solito accompagnano il comportamento che si ritiene di dover punire?
Si punisce qualcosa che è sbagliato, o perché contro la legge codificata, o perché va contro certi valori morali. La punizione fa sì che chi ha trasgredito non dia per scontato che va bene così, che si può fare, che sia una scorciatoia di vita applicabile. Questo vale tanto per l’eccesso di velocità punito con la multa, quanto per la bugia che la mamma punisce in altro modo.

 

E quale atteggiamento, invece, manca o è carente nella persona che si ritiene di dover punire?
Dipende dal contesto. Dovendo cercare qualcosa di comune, direi che manca la responsabilità, nel senso che se devi intervenire con una punizione forzata vuol dire che credi che la persona, da sola, non risponda di quello che ha fatto.

 

Che cosa si prefigge di ottenere colui che punisce?
Questo varia molto. Talvolta si prefigge di farla pagare all’altro, semplicemente. Oppure può prefiggersi una sua soddisfazione personale (“tu hai sbagliato verso di me, e adesso soffri”); può prefiggersi di ottenere il male minore (“tu hai commesso un crimine, non posso evitare il passato ma ti impedisco di commetterlo nuovamente in futuro”); la punizione invece può prefiggersi il fatto che tu capisca che hai fatto male, e che diventi in grado di cambiare: è il caso dei rapporti personali, quando ha di mira la riconciliazione; ma può anche essere un sfogo d’ira, e avere di mira la pura sottomissione dell’altro: è ciò che avviene nei regimi totalitari. La casistica è talmente varia che diventa capitale capire in che direzione si sta andando.

 

Cosa rende più probabile che la punizione sortisca l'effetto desiderato?
Quando gli obbiettivi sono positivi la punizione raggiunge più facilmente il suo effetto quando il punito capisce, e vive la punizione non come un’imposizione esterna, ma la fa diventare un momento di crisi che poi fa scaturire qualcos’altro. Non c’è una punizione che funzioni in maniera meramente esterna. Sennò i meccanismi che scattano sono analoghi a quelli che si verificano fra un adolescente e un genitore, che ti impone che “non devi fare così”, e tu per reazione ti intestardisci ancora di più e rivendichi la tua autonomia. Questo può succedere anche presso gli adulti.

 

La punizione può sortire a volte l'effetto contrario a quello cercato?
Sì, può capitare appunto quando si esaminano punizioni fondate esclusivamente sulla imposizione esteriore, prive di un senso altro: allora spesso scatta il meccanismo della vendetta, della rivendicazione del proprio orgoglio che attende solo l’occasione di rifarsi.

 

Può citarmi un esempio di punizione che abbia raggiunto lo scopo?
Potrei raccontare di un rapporto fra due fidanzati che si accingevano a sposarsi. Lui stava investendo la sua vita in questa relazione, mentre a lei era venuta la nostalgia degli ultimi momenti di libertà e aveva voluto divertirsi con un’altra avventura. Scoprendo questa cosa lui l’ha –possiamo dire- punita, non perché l’abbia picchiata, ma forse ancor più pesantemente tenendola lontana, rifiutandola... è una forma di punizione anche questa. Però ha funzionato, perché non si trattava semplicemente di una vendetta: c’era l’idea di far capire all’altro il male che si era subito, l’errore che si era commesso: queste durezza di rapporti ha infine ricondotto a una completa riconciliazione.

 

E quello di una punizione che lo ha mancato completamente?
Per esempio, quando ero in seminario di fronte ad alcune piccole libertà che ci prendevamo, qualche piccolo ritardo, ecc., i superiori avevano reagito con un irrigidimento, restringendo gli orari e caricando di impegno ogni nostro istante libero. La trovavo una punizione stupida, non giustificata, e la mia reazione è stata contraria a quella auspicata: di sera ho scavalcato il muro e sono scappato per andare a fare una cosa che piaceva a me. Mi accorgo che il meccanismo esattamente contrario era scattato proprio a causa dell’imposizione

 

Abbiamo davanti a noi un quadro con dei personaggi, di cui qualcuno punisce e qualcuno viene punito. Quali persone e quali situazioni caratterizzano questo quadro?
Immagino fondamentalmente un tribunale, dove c’è un accusato, un accusatore, un’indagine e un giudice che emette la sentenza

 

Mi può descrivere almeno un altro “quadro tipico della punizione”?
Direi il rapporto genitore-figlio.

 

Quale immagine hanno l'uno dell'altro chi punisce e chi viene punito?
Semplificando, credo che spesso colui che punisce abbia sfiducia verso l’altro: pensa “da te non mi posso aspettare che questo! È meglio che ti punisco perché tanto altrimenti lo rifai"; dal canto suo, chi è sotto accusa ha l’immagine di chi accusa come di un rompiscatole invadente

 

Riportiamo lo stesso discorso al piano genitore-figlio: quali stati d'animo prova un genitore che punisce?
Nel caso genitore-figlio la situazione è diversa, perché paradossalmente la punizione si può accompagnare all’amore: c’è un amore più grande del male che il figlio può aver commesso, e la punizione è certamente un metodo per cercare di ripescare, di riprendere il figlio: non c’è quella situazione di sfiducia radicale verso colui che viene punito, c’è un legame di sangue e di amore che è più forte del male che tu puoi aver fatto.

 

Con quali forme di potere è compatibile il ricorso alla punizione?
È chiaro che la punizione la può infliggere chi ha il potere di farlo, perché è l’ordine costituito, perché ha il potere della violenza (ti prendo, ti lego, ti metto le manette quindi ti punisco). Però ci sono anche dei poteri molto più sottili, al di là di quello puramente coercitivo: per esempio il rapporto genitore-figlio non sarà mai sullo stesso livello. A volte nei rapporti a 2 c’è un potere sottile e terribile: ad esempio quando dopo un litigio di coppia lei si mette a piangere, e lì sta dicendo “Sei un cane, non vedi come mi fai soffrire?”. Ecco, questo è un potere a volte subdolo ma molto forte: magari sarebbe più forte l’uomo, ma il potere dei sentimenti tante volte scardina questo meccanismo.

 

Che obbiettivi perseguono i diversi tipi di potere con la punizione?
Anche qui dipende. Se il potere è potere statale spesso la punizione non fa altro che limitare il male, o il male possibile. Semplicemente fai in modo che chi ha avuto attraverso il male un vantaggio indebito paghi quello che ha fatto mediante delle privazioni, ad esempio la privazione della libertà. Cioè, tu hai rapinato quella persona dei risparmi di una vita, ora quei risparmi non ci son più, non li posso recuperare, per cui non ottengo nessun bene con la punizione in realtà, però faccio in modo che tu paghi il male che hai fatto: spesso è solo questo. Molto diverso è invece il caso della punizione in un contesto come quello, ad esempio, genitore-figlio, dove non si mira solo a far pagare l'errore ma a ottenere qualcosa di più alto. Qualche volta, stringi stringi, la punizione dello stato è un limite al desiderio di vendetta, e in questo senso anch’essa ha anche una funzione positiva.

 

Pena e punizione: trova che esistano delle differenza rilevanti?
Sinceramente non sono sicurissimo. Mi sembra che “punizione” richiami più la responsabilità, le conseguenze di ciò che hai fatto. Pena dice di più il soffrire, il penare imposto da altri.

 

Quali sono le finalità della pena inflitta dalla legge?
Limitare il male possibile, ripagare il torto arrecato, nell’impossibilità dei svolgere una funzione positiva di “creare il bene”.

 

Di solito, gli scopi della pena vengono raggiunti?
In parte penso di sì, in parte sicuramente no. Non faccio valutazioni, faccio solo una descrizione dei fatti. In parte sì perché, detto brutalmente, se tu fai rapine, commetti omicidi, lo stato ti mette in prigione ed è una punizione per le cose passate ma nello stesso tempo ti impedisce che per questi anni tu possa fare del male ad altre persone: in questa senso c’è una efficacia, naturalmente mi sembra molto limitata. È un male minore: faccio del male a te perché tu non possa fare del male ad altri, privo te di qualcosa (la tua libertà, il tuo tempo, ecc.) perché tu non possa privare altri. Ma questo è solo un aspetto minimo.

 

Se l’obbiettivo della punizione è –e penso più all’ambito dei rapporti umani e personali che a quelli istituzionali- che tu capisca, che tu riconosca lo sbaglio fatto, che tu diventi capace di evitare il male e di fare il bene, anche solo dal punto di vista sociale, mi sembra evidente che è piuttosto raro che la punizione carceraria da sola aiuti a ottenere questo.

 

Quali motivazioni vivono verso il condannato il giudice che punisce e gli operatori preposti all’espiazione della pena?
Qui stiamo parlando proprio del carcere? Tra quelli che ho incontrato io [l’intervistato è stato cappellano nel carcere di Rebibbia, ndr] ci sono persone molto diverse. Ci sono dei giudici veramente mossi dalla volontà di costruire una società più vivibile, mossi da attenzione alle persone e di attenzione al bene della vittima e dell’imputato (perché spesso anche colui che è reo di un male, è vittima a sua volta di altri mali, che magari non sono sotto processo in quel momento lì, ma ci sono): ho conosciuto quindi giudici capaci di attenzione ai valori e all’umanità. Ho conosciuto altri giudici invece che molto più meramente lo fanno di mestiere, fanno osservare le norme e basta, senza attenzione né per l’uomo né per i valori, ma semplicemente per la legalità nel senso più ristretto: quello che dice la legge è così, quindi a te spetta questa cosa qui, punto. Ed è molto diverso.

Qualcosa di analogo mi sembra che valga per gli agenti di custodia. Nella mia esperienza di carcere –ci ho fatto un anno e mezzo- ho visto persone... beh, intanto c’è un’accettazione di fondo della situazione esistente: mi sembra raro che a un agente –che so- gli “ribolla il sangue” per il senso di ingiustizia, o simili. C’è una generica accettazione molto tranquilla e a-problematica per lo stato di fatto delle cose. E anche qui... tu vedevi i condannati, vedevi gli agenti, e pensavi che veramente c’è poca differenza fra gli uni e gli altri. Nel senso che ho visto anche agenti di polizia penitenziaria fare delle scorrettezze che se passassero sotto tribunale meriterebbero sicuramente di essere condannate: c’è il secondino che ti fa entrare la droga perché ci si guadagna, c’è quello che si diverte a farla pagare a questo o a quell’altro; ho conosciuto persone a cui non interessa niente delle persone, ma interessa solo la paga alla fine del mese facendo il meno possibile; ho conosciuto invece delle persone capaci di simpatia, di sintonia, di attenzione anche ai carcerati, di interesse alla persona, capaci di quel tipo di piccoli favori che possono rendere la permanenza in carcere più lieve, più umana, capaci di ascolto. Tutto questo dipende molto dall’umanità della persona.

 

Esiste una pena ideale? Una pena coerente con il fine che si propone?
È quella che serve il meno possibile perché ha raggiunto il suo obbiettivo. L’obbiettivo della pena in fondo è ristabilire la giustizia: dunque la pena ideale è quella che smette di servire mentre è in atto, che non deve arrivare alla fine perché non serve più.

 

Fra i tipi di pena e di applicazioni che esistono oggi nel nostro paese, lei ritiene che ce ne siano alcuni che sono più conformi agli scopi che abbiamo detto?
Sicuramente quando una pena è accompagnata da attività e opportunità di reinserimento sociale
(l’istruzione, imparare una professione) è più utile, perché quando termina la detenzione non sei sbattuto fuori dalla porta, ma sei accompagnato anche fuori: per chi lo vuole e lo sa usare questo è un aiuto grande.

 

Ha dei suggerimenti per aumentare la probabilità che la pena raggiunga il suo scopo?
Credo sia determinante che la struttura garantisca il rapporto personale che ti accompagna in questo cammino, perché se tu hai vicino qualcuno che conosci che ti dà fiducia e ti sostiene questo è determinante.

 

Quale tipo di relazione fra operatori e condannato è più confacente al conseguimento dell’obbiettivo evolutivo o “rieducativo” della pena?
La relazione dipende da persona a persona: sicuramente non deve essere puramente professionale; non deve essere quella dello psicologo che si limita a controllare che tu non sia fuori di testa per qualche incontro e poi comunque non avrà più niente a che fare con te. Una relazione in cui chi sarà con te dopo che sei uscito comincia ad esserci prima e continua dopo.

 

Una pena che punti alla rieducazione può prescindere dalla motivazione del condannato?
No, per fortuna nessuno può rieducarti se non sei tu a voler fare un cammino. Pensavano così nei lager siberiani o cambogiani, ma non esiste una rieducazione che passi al di sopra di te. Sei tu che cammini, che credi, che pensi, che speri, che decidi...

 

Ma quali strumenti, quali condizioni, quali strumenti ritiene che possano attivare tale motivazione?
Faccio fatica a determinarli con precisione... direi che la motivazione dipende fondamentalmente dal fatto di poter presentare una speranza concreta. Cioè io cammino se so che c’è qualcosa che posso raggiungere, che vale la pena e che è a portata di mano. Per esempio, se io so che tanto per 20 anni per me non cambierà niente, io non cambio, non lavoro, non cammino per fare un piacere a te che sei un operatore. Se io non ho una speranza e uscito dal carcere so che tanto la mia vita è quella, io non lavoro e non cammino, non ne ho motivo. È solo su una speranza concreta di vita accettabile che uno può impegnarsi, purché rimanga entro un tempo sensato.

 

A suo avviso, per il conseguimento di questi obiettivi, esistono delle alternative alla pena?
Qui tocca intendersi: dipende qual è l’obbiettivo della pena. Se è farla pagare, se è limitare e contenere la possibilità del male, va bene così com’è. Se l’obbiettivo è reintegrare in modo positivo nella società una persona che ha fatto del male, allora certamente esistono delle alternative: nel momento in cui raggiungo l’obbiettivo –magari con altri metodi- la pena diventa inutile. Se la pena è lo strumento per il raggiungimento di un obbiettivo, allora se io raggiungo l’obbiettivo quello strumento non mi serve più.

 

Parliamo dei punti di contatto, delle analogie e delle differenze che esistono fra la punizione nel rapporto genitori-figli e la pena inflitta dalla legge...
Le differenze sostanziali le abbiamo già viste prima. Ci sono sicuramente anche dei tratti in comune, perché anche il padre in qualche modo giudica il figlio ed emette una sentenza, perché ne impone il rispetto, perché cerca di ottenere la confessione da parte del figlio (“come mai sei rientrato alle 4 di notte? Dov’eri?”): per cui ci sono delle analogie anche nel linguaggio.

 

Gli obbiettivi della pena decisa dalla Legge e quelli della punizione in famiglia hanno dei tratti in comune e/o delle differenze?
Il giudizio di tribunale dà una pena perché “è giusto”, e agisce sul colpevole in modo da limitare il male. Si tratta però di un tipo di giustizia limitato, che impone dei paletti perché il male faccia meno male possibile, ma è ben lontano dal “rifare la giustizia”; e la seconda ambiguità della giustizia del tribunale è che siccome gli uomini non possono estirpare la violenza dall’uomo, non possono punire la violenza salvando l’uomo: io faccio violenza al colpevole (perché gli tolgo la libertà) per punire una violenza che ha fatto. È giustizia questa?

Beh, è una giustizia per lo meno con la “g” minuscola, che limita il male ma che è evidente che è inadeguata. In fondo anche lo Stato fa un atto di violenza verso una persona perché è colpevole, ma non credo che fare violenza a una persona sia Giustizia. Questo è diverso, ad esempio, dalla giustizia divina, dalla giustizia che trovo nella Bibbia, per cui si dice che Dio è un giudice però in maniera un po’ diversa. Anche rimanendo nell’ambito dei rapporti umani, come si fa a ristabilire la giustizia –ad esempio- in famiglia? Io ristabilisco la giustizia non se faccio un atto di violenza a te che sei mio figlio perché -poniamo- hai preso l’auto senza chiederla e me l’hai rovinata, non faccio giustizia se ti riempio di legnate. Ma faccio giustizia perché il rapporto, fra me che sono il padre e te che sei il figlio in questo momento non è giusto, è rovinato, manca la fiducia, perché tu mi menti, perché tu hai bisogno di nasconderti da me per agire. Allora cosa è che è giusto? Giusto è che noi torniamo in un giusto rapporto di padre e figlio, in cui io posso fidarmi di te, e tu sai che io ti spingo al bene e sai di poter contare su di me, un rapporto in cui tu riconosci che qui è casa tua: questo è Giusto. E allora anche il castigo, se serve (e non sempre serve), serve a ristabilire questo giusto rapporto. Questo esempio si avvicina molto al modo di lavorare della giustizia divina, che è tale non semplicemente perché punisce il colpevole, ma perché ti mette in condizione di ritornare in un rapporto giusto con Dio e con gli altri.

 

Le pare che possa essere di qualche utilità il confronto fra queste due realtà?
Certo, io sono convinto che possa essere utile, anche se mi rendo conto che socialmente non è immediatamente codificabile in una legge migliore che la giustizia dello Stato possa fare propria. Però credo che anche la giustizia statale, la legalità, debba comunque guardare al mondo delle relazioni umane, debba avere la voglia di puntare più in alto.

 

Nel tempo le finalità e l’attuazione della pena hanno subito dei cambiamenti?
A me risulta di sì, mi sembra che da una logica di giustizia vendicativa, idealmente ci si muova attraverso la legge del taglione (che dà una proporzione alla vendetta), a una giustizia che passa per la logica carceraria (per cui ti metto in condizione di non fare dell’altro male, e per un po’ non nuoci più); infine mi sembra che –almeno idealmente- si stia crescendo, mi sembrano abbastanza recenti le attenzioni a una giustizia che sia un po’ più rieducativa, che si fa carico del reinserimento sociale... mi sembrano passi in più che sono stati fatti nei decenni scorsi. Molti altri ne rimangono da fare, ma credo comunque che qualche miglioramento ci sia: penso che chi finiva in carcere qualche secolo fa aveva delle prospettive un po’ più ridotte.

 

Lei è a conoscenza di altre società dove gli obbiettivi e l’attuazione della pena siano significativamente diversi che da noi?
Bisognerebbe parlare della pena di morte in Cina (più ancora che in America) dove si ritiene che il male che tu hai fatto possa essere così grande che tu meriti di essere estirpato dalla vita e dalla società: tu non meriti di vivere. E questo è diametralmente diverso, perché qui la pena rinuncia costitutivamente alla rieducazione, non ci crede, non spera. E ci sarebbe da parlare poi di quello che succede non in tutti ma in parecchi dei paesi dove anche la legge civile si ispira all’Islam, e dove ad esempio il ladro viene punito con il taglio della mano... è evidente che sono logiche diverse dalle nostre.

Mi sa dire qualcosa sulla punizione o sulla pena che faccia ridere ?
Posso raccontarti un paio di episodi personali che mi sono capitati qualche anno fa. Ero andato per un certo periodo a sostituire un cappellano anziano, malato, in carcere. E il luogo dove andavo  a celebrare la Messa era ridotto proprio male, per cui avevo procurato anche solo una croce, due candelabri per l’altare... era robetta di ottone, niente di gran valore. Ma dopo due settimane dalla risistemazione questi due candelabri erano spariti, qualcuno li aveva fregati. Accidenti, anche nel carcere rubano! E io che ero partito tutto entusiasta... insomma, alla fine scopro che li avevano rubati sì, ma era stato un secondino: ecco un paradosso curioso.

Un’altra cosa che mi aveva divertito. Ricordo di uno che aveva ottenuto il privilegio, con il carcere sovraffollato, di godere di una cella singola, che gli era stata assegnata per diritto di anzianità. Questo era tutto contento, era entusiasta. E siccome era anche uno di quelli che venivano a parlare e partecipavano alla Messa alla domenica, mi aveva detto “la settimana prossima venga con gli attrezzi del mestiere,  così potrà benedire la mia cella... ci ho messo anche la Madonna nella cella, venga, perché ci tengo”. Io un po’ perplesso, però la domenica dopo vado, porto anche l’acqua benedetta, mi faccio accompagnare nella cella, e quando arrivo questo mi fa “ecco, avanti, venga, guardi qui, ho anche attaccato la Madonna sulla parete, ecco guardi! Guardi!” Io ho guardato e effettivamente c’era un’immagine della Madonna attaccata sulla parete, solo che era attaccata su una parete completamente piena di donne nude, e in mezzo c’era anche ‘sta Madonnina piccolina: probabilmente a lui appariva del tutto naturale, quindi non ci badava. Penso di aver fatto una delle benedizioni più veloci della mia carriera...