Le nostre domande sul male

Redazione

Verbale dalla riunione del 14-04-2007
 

Aparo:

  • Cosa stiamo cercando per il convegno sul male del 28 giugno?
    Quali domande possiamo formulare?

 

Karim:

  • Come abbiamo costruito la nostra idea di male?

 

Da una riunione del gruppo femminile:

  • Che piacere, che soddisfazione ricava una persona dalla pratica del male?

 

Giulio:

  • Come mai il male che prima tenevo dentro, tutto a un tratto l’ho buttato fuori? Cosa mi ha portato all’esplosione?

 

Silvia:

  • Qual è la caratteristica che rende il male irresistibile all’uomo?

 

Secondo:

  • Perché si giustifica, anche passivamente, il male? Il fascino del male: i giornali che [in]volontariamente cercano di alimentarlo (dando risalto e seguendo ogni particolare della vita degli autori dei fatti di Erba, Novi Ligure ecc.).

 

Mirko:

  • Penso che il dott. Aparo ci voglia fare riflettere sulle cause per cui abbiamo cominciato a praticare il male. La domanda potrebbe quindi essere: Cosa fa nascere dentro di noi la voglia di far male?

 

Vito:

  • Io credo che il male venga praticato sempre per ottenere un proprio bene o quello che si crede tale. Questo vale anche quando uno fa una rapina; lo si fa per ottenere qualcosa, il denaro, che a noi fa piacere. E allora mi chiedo: per raggiungere il bene è proprio indispensabile fare il male?

 

Alessandra:

  • Si può reggere all’urto del male senza rimanerne annientati?

 

Livia:

  • Qual è la domanda implicita nel fare male?
  • A volte accade che il male che si ha dentro esplode, ma come mai a volte si riesce a convertire il male che prima esplodeva, in relazioni positive?
    Cosa occorre per dare avvio a questa inversione di tendenza?

 

Enzo:

  • Perché chi fa male in maniera semplice e diretta viene identificato facilmente e giudicato da tutti e chi fa male in maniera più raffinata spesso riesce a farla franca e, di solito, non viene giudicato con la stessa severità? Perché il male di chi ha una buona preparazione culturale, agli occhi della gente e della Legge, risulta meno grave di quello di chi commette una rapina? Eppure, non si può dire che il male di chi sottrae il bene pubblico sia meno grave di chi attacca il privato.

 

Aparo:

Le domande che ci poniamo non debbono essere confezionate per essere rivolte agli altri. A un convegno occorre portare le domande che ci incuriosiscono e per le quali noi stessi cerchiamo una risposta, anche se, ovviamente, è gradito che anche altri ci aiutino a rispondere o a migliorare le nostre domande.

Inoltre lo scopo principale di questo convegno non è fare riflettere la persona sui propri errori o ricostruire come si è giunti a fare del male; anche se questi quesiti sono accettabili.

La domanda centrale è più radicale: Che cosa è male per ciascuno di noi? Ed è un domanda che riguarda tutti, cui ci si può dedicare insieme e per la quale ciascuno può portare il proprio patrimonio di esperienze, conoscenze, immagini ecc.

  • Cos’è che ciascuno di noi definisce male?

 

Livia:

Riassumo alcuni punti dell’incontro di 2 settimane fa, in cui abbiamo raccolto le immagini che ciascuno aveva associato a male e ad alcune corrispondenze che abbiamo trovato.

Il male è abuso di potere su qualcuno che viene reso impotente.

Nelle immagini di due settimane fa il male era quasi sempre riconducibile ad una relazione in cui qualcuno usa la sua forza per schiacciare una persona (di solito un bambino) che non può difendersi, ad esempio la punizione del balcone.

Inoltre è facile immaginare che chi abusa del proprio potere si sia sentito, a suo tempo, anche lui impotente, e che per superare questa condizione esercita ora il suo potere – in un circolo che si perpetua. Esempio, la sveglia che ho gettato e rotto.

Come è che è irresistibile? Perché il male rappresenta uno strumento?

E’ un tipo di potenza completamente all’opposto rispetto a Enzo che studia e lavora per gli alunni in una scuola nell’ottica ecc. ecc. In questo caso il potere Enzo lo sfrutta per promuovere la crescita; il rendere impotente equivale ad impedirla.

 

Silvia:

Quindi il circolo di cui parla Livia comprende contemporaneamente abuso di potere e senso di impotenza. Il potere può esprimersi in due modi: il potere che porta all’impotenza dell’altro e quello che alimenta la potenza dell’altro.

 

Aparo:

Un potere che mortifica e uno che attiva le risorse dell’altro.

 

Enzo:

Qual è il fattore principale che ti fa riconoscere di fare male?

 

Gio:

  • Già, come si riconosce il male?

Con lo schema ricostruito da Livia, abbiamo un modello che ci permette di riconoscere il male dal di fuori. Ma forse il male lo sente e lo riconosce più facilmente dentro di sé chi lo subisce, chi è reso impotente piuttosto che chi esercita l’abuso.

Non è facile riconoscere l’impotenza che causiamo; ad esempio rimanendo oppositivo, chiuso o triste a tavola, faccio passare agli altri la voglia di scherzare o perfino di parlare, ma non riconoscerò che questo avviene a causa mia – anzi facilmente darò la colpa agli altri.

Alle medie tendevo a darmi la colpa della mia esclusione dagli altri compagni, mi sembrava che il mio isolamento, il mio senso di impotenza fossero una mia responsabilità, una mia vergogna; in generale una cosa mia. Non è detto che non fosse per buona parte così, ma escludevo che la cosa potesse dipendere anche dall’azione di altri.

Paradossalmente, mi sono sentito più responsabile (anche se in maniera distorta) quando ho subito che quando ho fatto subire l’esclusione e l’impotenza. Forse questo c’entra col piacere del male, col suo fascino e con l’inclinazione a replicarlo.

 

Enzo:

Si può individuare una soglia oltre la quale la quantità di male subito porta alla voglia di far male?

 

Aparo:

Credo di no. Penso piuttosto che si cede alla forza invasiva del male fino a replicarlo, soprattutto in relazione al fatto che il male subito sia riuscito a spegnere la forza creativa che ognuno di noi ha. Non credo che si diventi protagonisti di abusi in relazione alla quantità di mortificazione subita, ma piuttosto in relazione al fatto che gli abusi subiti risalgono ad un’epoca in cui la persona non aveva ancora le risorse per reagire creativamente alle mortificazioni.