Il sommergibile di cemento

Cristina Freghieri

27-04-2009 - San Vittore Il sito di Cristina Freghieri

Così l’acqua, oggi nelle sembianze di pioggia mi accompagna in questa “esplorazione” all’interno del carcere di San Vittore. Pioggia incessante e fastidiosa, direbbero in molti, in realtà per me è sempre un momento di rinnovo, di lavaggio del “respiro”

Dopo aver aspettato che la maestosa porta d’entrata del carcere si apra lentamente, varco l’ingresso ritrovandomi avvolta nel colore ambrato di un ingresso poco illuminato. Il portone si serra alle mie spalle con cupa maestria quasi a voler dire “ Ora sei mia”

L’atrio è ricco di rumori che provengono dall’interno, non me l’aspettavo. Cerco la fonte di questi rumori, ma l’unica provenienza è una porta che si apre costantemente, da cui si accede ad un corridoio. La gente entra ed esce come in una stazione di viaggio. Forse anche questo è un viaggio.  Molti si conoscono, si salutano, altri non si fermano. La guardia dal suo angusto luogo d’osservazione protetto da vetri, posto nel lato sinistro dell’entrata, rialzato di un paio di scalini, osserva ogni persona.

Angelo mi accoglie con una stretta di mano prima di varcare quella seconda porta, dove sbrighiamo le mie pratiche d’obbligo d’entrata al carcere. L’ufficio di una signora sorridente è in fondo ad un corridoio. Nel lato sinistro dietro ad un vetro spesso ci sono delle piante. Il mio primo pensiero è “Incredibile, anche qui riescono a crescere le piante”

Lasciamo l’ufficio e ci dirigiamo verso i controlli.

E’ un po’ come essere sotto i raggi X del cilindro che si incontra nei controlli aeroportuali, entri alzi le braccia e clic, tutto è filtrato in un secondo, ogni cosa, ogni parte del tuo corpo, senza rispetto e senza pudore. Così forse è anche il carcere in questo atrio che odora di vita frenetica. Strano vero?

La mia mente proiettata al mondo sommerso si incanala alla ricerca dell’accoppiamento di queste sensazioni nuove ma in un certo senso già conosciute.

Certo, anche quando scivoli in un boccaporto di un sommergibile, varchi una soglia che divide il mondo esterno dalla dimensione tenebrosa e scura, dell’interno di un luogo poco agibile. Poco spazio, poca aria, poca mobilità.  E’ il brusio delle voci che si rincorrono all’interno di corridoi dal tetto basso e dalla poca luce che arriva dalle finestre laterali, che mi ha fatto associare il carcere ad un sommergibile.

L’aria nei sommergibili è sempre stagnante e umida, qui invece è calda e odora di disinfettante. Come nelle operazioni di attacco le paratie si chiudono alle spalle esattamente come si aprono e si chiudono i cancelli dalle griglie spesse che uno ad uno superiamo. Quanta strada devono fare i detenuti per arrivare alle loro celle? Non riesco ad identificarlo, ma avverto che i corridoi offrono uno spazio orizzontale superiore a quello di un sommergibile, qui si cammina.

Una cappella, non ci avevo pensato, un cartellone scritto a mano e poi un’altra paratia che si chiude, un altro corridoio, un altro percorso orizzontale, poi ancora pareti e griglie ai cui lati si vedono persone in piedi e accalcate. Ciò che mi colpisce di più è il gesto delle mani di qualcuno che ha afferrato le sbarre e con lo sguardo mi interroga silenzioso. Tra lui e me c’è solo acciaio, poi mi saluta con fare ironico, rispondo, anche se comprendo che forse non serve.

Le guardie sono ovunque ci sia una griglia d‘acciaio. Aprono e chiudono con le chiavi antiche che sembrano appartenere ad un disegno dell’ottocento. Sono grandi e pesanti come se dovessero mostrare il peso dell’espiazione delle anime prigioniere in questo luogo chiuso e perché no, sommerso nell’isolamento dalla vita esterna. Forse in questo luogo la vita scorre più invadente. Anche nel sommergibile accade così; cuccette una sull’altra, spazio vitale inesistente e privacy annullata. Si dorme a pochi centimetri dai compagni, non si può sognare ad occhi aperti perché questo farebbe già rumore. Resta il pensiero, unico elemento di scappatoia di una prigionia.

Anche qui come in un sommergibile il pensiero è vitale, liberatorio. Dopo infinite giornate vissute nel buio del profondo, di un abisso che nemmeno l’acqua conosce, il pensiero naviga, viaggia, individualmente. Riflette la propria ombra su chi vive nella libertà al di fuori di un involucro, ed aspetta con ansia il ritorno di un fantasma.

Così “dentro e fuori” regna l’agonia.

Non meno dolorosa di quella chi espia un errore, è l’attesa relegata fuori del carcere, privata del contatto con chi si trova dietro ad una paratia d’acciaio fatta di sbarre perché forse, un giorno lontano non ha accettato la realtà di dover camminare sul terreno ed ha scelto di volare alto senza avere le ali.  La differenza tra una parete d’acciaio di un sommergibile che custodisce pregi e difetti dei suoi uomini e quella di cemento con alcuni oblò fatti di sbarre, è la motivazione per cui molte anime umane si ritrovano ingabbiate e private del potere decisionale della propria vita. 

Superato l’impatto di avere varcato lo stretto” boccaporto” del carcere per penetrare questo ambiente stantio, non resta che adattarsi. Scopro così la realtà di una nuova società, diversa da quella esterna, ma non priva delle stesse regole. Anzi, qui le regole sono ancora più evidenti. Ognuno ha il suo compito come ogni equipaggio, con la differenza che in questa società racchiusa tra le mura di cemento nessuno si fida di nessuno. Mentre i pensieri e i sogni che si impossessano delle menti dei marinai sdraiati sulle cuccette al buio in uno stretto e angusto luogo che odora di olio cotto e nafta, nelle notti senza testimoni, come sarà vissuta qui, la notte.

Ci sono voci, lamenti, pensieri dignitosi e solitari?

E’ questa la parte più dura dell’espiazione di un errore? E’ il dolore che prende forma tra le sembianze di un sogno giocato alla roulette russa della vita?

Certo, ora è una vita privata dal rapporto con le regole sociali, quelle che forse hanno fatto pensare che la forza stava nel rinnegarle e rischiare qualche cosa, ma quanto e cosa?

Superati i diversi cancelli e corridoi, che mi portano sempre più all’interno di questo sommergibile di cemento, mi ritrovo tra persone che osservano senza essere invadenti, chiacchierano e poi mi attorniano con espressioni di curiosità. .

“Sono qui con il mio amico…” Domande su di me, su ciò che faccio. Poi un agente invita ad entrare in un’altra paratia dove un grande tavolo sarà lo spettatore d’onore di questo incontro che mi coinvolge. Confusione, qualcuno arriva col sorriso, Mario. Si occupa della gestione di questo spazio e dei compagni detenuti. Mi guarda diretto negli occhi è certo il più preparato, forse sta realizzando un percorso che lo avvicinerà ad una nuova vita libera?

Niente domande a me stessa, solo disponibilità e attenzione, però quel detenuto che mi ha raccontato brevemente della sua vita, potrebbe scrivere un libro giallo!

Ok è il tempo della riunione. Ancora confusione, forse non sono piaciuta come progetto? Lentamente tra riprese di comportamento e silenzi comunicati (come fanno a dialogare immediatamente tra loro?) arrivano altri detenuti. In breve il tavolo di riunione è al completo.

Non mi sono preparata un discorso programmato, ma guardando i loro sguardi decido che strada intraprendere nel descrivere del mio vissuto sommerso basato su di una libertà fatta di grandi costrizioni e fatiche fisiche e mentali. Qualcuno chiude l’oblò (una finestra) definitivamente e la poca luce esterna scompare. 

“Pronti alla rapida” direbbe l’ufficiale addetto alle operazioni di immersione.

In effetti, questa è la seconda volta della mia vita che effettuo “un’immersione a secco” la prima era stata in camera iperbarica. Pochi minuti di presentazione da parte del responsabile Dott. Aparo e mi ritrovo a parlare. Parlo, e penso contemporaneamente al modo di creare un contatto con quelle menti sconosciute appartenenti a una dimensione a me nuova. In realtà è facile, sento che posso parlare di me senza tanti filtri, certo qui, i filtri sono già stati selezionati, ed io mi trovo a mio agio in questo involucro, in un certo senso protetto anche per me dall’esterno. Dopo circa tre quarti d’ora in cui esprimo parte di ciò che vivo e svolgo sott’acqua, arriva il loro turno per fare domande. Inizia così, passo dopo passo il nostro incontro tra qualche ironia divertente di sembianze diverse tra la mia vestizione da “astronauta sommerso” e quella di qualcuno che, anziché navigare nello spazio, percorreva i corridoi delle banche.

Tra risate generali che rilassano l’atmosfera intensa, proseguiamo sino ad avvicinarci sempre più nel profondo, quello vero, quello viscerale che io vivo laggiù negli abissi. Penso che potrei avere molti compagni subacquei con una sensibilità sviluppata verso il significato di un incontro interiore con l’abisso, forse sarebbero anche bravi subacquei.

Sono spalmata energicamente da questa rivelazione, dalla capacità di pensiero e osservazione che emerge in questo spazio limitato, anche per la mente. In realtà alla mente serve solo la tranquillità e l’atmosfera per captare e carpire i segreti dei sentimenti e delle dimensioni che si sviluppano intorno. Forse il carcere funziona anche come catalizzatore del pensiero?

Il sommergibile ha iniziato la “discesa rapida” siamo a quota “delicata” ora le domande che mi sono poste richiedono un’estrema serenità e la sincerità più pura. Non mi disturba, anzi, ho di fronte un pubblico che si interessa allo stato emozionale interiore che ha molte pagine da leggere e da scrivere.

Un intervallo medicamentoso mi permette di prendere fiato. Non resto sola più di trenta secondi, poi ancora domande, ma accompagnate da apprezzamenti. Sarà perché non me li aspettavo che resto spiazzata? Sarà che, come un educatore mi aveva spiegato, i detenuti apprezzano tutto? Certo l’aria all’interno del sommergibile richiede un ricambio costante. Mentre i marinai a turno escono in torretta a fumare la classica sigaretta, qui a parte l’ora d’aria, il resto è ricco di anidride carbonica e la boccata di ossigeno la portano le persone che dall’esterno vengono a condividere alcune ore con loro. Rientriamo nella paratia stagna con un atmosfera ben più distesa e pronta a scendere totalmente, nelle viscere dell’abisso delle emozioni e delle motivazioni che ora conduce l’intero gruppo verso un obiettivo ignoto rivestito da scoperte e similitudini.

Riprendono le tante domande: Perché stai bene laggiù, che rapporto hai con l’acqua, perché l’acqua e non la montagna?”

Qualcuno racconta che quando arrivi alla vetta si fonde un’unione psicologica rara coi compagni, difficile poi da scordare. Si è vero, anche sott’acqua si crea un’intesa particolare che apre le porte della comunicazione silenziosa con le persone con cui dividi queste esperienze che resteranno dei sigilli, timbri sulla pelle, nel sangue, ma soprattutto nella mente dove tutto è registrato, positivo e negativo. Domande importanti, risposte che mi mettono a nudo, ma tutto sommato mi fa piacere, forse riesco a lasciare un messaggio positivo? Sarebbe il mio intento.

Scendiamo ancora in questa voragine emozionale. Angelo pone la fatidica domanda: “L’acqua in qualche modo ha una relazione per te con il rapporto coi tuoi familiari” risposta “Credo di sì, poiché l’acqua e il profondo in particolare, mi hanno insegnato a vivere in superficie. Da quel dì lontano, in cui ho messo la testa sott’acqua, ho iniziato a vivere con vero equilibrio la mia vita, privata da molti affetti importanti, basilari per crescere”

A questo punto è come essere in piena battaglia, all’interno di questo sommergibile di cemento, le “bombe emozionali” che calano dal cielo mirano al centro delle sensazioni profonde sviluppate dai relitti e del significato di ognuno. L’argomento scivola proprio su di un sommergibile che sto cercando, poco accessibile per la grande profondità cui si trova. Con una punta di ironia, qualcuno esprime la possibilità di andare ad una quota improbabile per la vita umana per filmare il sommergibile e riscattare poi con questa azione eroica, la libertà. Due sguardi si incrociano, quello del detenuto che si è espresso e quello di Angelo.

Il dialogo all’interno del profondo dell’acqua e delle motivazioni che mi conducono laggiù, prosegue. Le nuove domande esprimono sensazioni ancora più nascoste.

L’”immersione” oggi è particolarmente “profonda” e gli specchi interiori si mostrano con semplicità.

Quando Angelo sottolinea che il nostro tempo è scaduto, ricevo dalle mani di Mario un grande regalo: un dipinto d’acquarello che ritrae barche ancorate al molo. Le strette di mano mi confermano che questo viaggio tra i tesori del mare e degli uomini, lo abbiamo fatto insieme. Lascio alle mie spalle gli sguardi di questi uomini e le porte, come le paratie, si riaprono per richiudersi velocemente. Sta per calare la sera in questo luogo e come in un sommergibile tutto è sistemato per il prossimo giorno che verrà. Sbarco, traballante mentre riemergo all’esterno. Alle spalle lascio il silenzio, sotto la pioggia ritrovo i miei pensieri che elaborano ogni minuto vissuto.  

Ora vorrei essere sul mare come le barche del dipinto che porto con me.

Grazie a tutti

Cristina  Freghieri

 

Navi, Mario Di Domenico - Dimensioni originali

 

Il verbale dell'incontro