Il sapore della conquista

Antonella Cuppari

20-03-2004  

Ecco che quel bel vasetto di marmellata ora posso prenderlo. Il girello non mi serve più, le mie braccia sono forti, i miei occhi vedono bene, le mie gambe sanno muoversi sicure. Prendo la sedia, ancora più grande di me, e a fatica la posiziono proprio sotto quella mensola, che sostiene il mio obiettivo.

Mi arrampico sulla sedia, ci salgo coi piedi, allungo il braccio.
Finalmente!

Da mesi ormai guardavo quel barattolo di marmellata di fragole, che un giorno la nonna portò a casa mia, e che mia mamma posizionò su quella mensola. Da mesi lo guardavo senza poterlo raggiungere, incapace di coordinare bene il mio sguardo con i miei movimenti, incapace di muovermi in quello spazio così grande per una bambina di pochi mesi.

Con quel vasetto di marmellata nella testa, ho però iniziato a fare progressi; a poco a poco sono diventata padrona dei miei gesti. Le mie braccia tenere e cicciotelle si sono fatte via via più abili e le mie gambe più forti e sicure.

Allungo il braccio e prendo quel barattolo, il mio premio, il premio per essere diventata grande, per esser riuscita a impadronirmi di quello spazio. Svito il tappo. Il dito, in festa, si immerge nella dolcezza rossa.
E quella marmellata sa un po’ di fragole, un po’ di sogno, un po’ di orgoglio, un po’ di nonna, un po’ di girello.

 

 

Entro in carcere per la prima volta; mi sento piccola, formica, invertebrata. Mi prendono il documento di identità, lo tengono in ostaggio. La mia borsa viene ispezionata.

Sono libera di entrare… ma io, libera, mica mi sento tanto.

Passo un cancello con le sbarre, poi un altro, poi un altro ancora.
Faccio un passo incerta su cosa avverrà dopo. L’aria che respiro è un’aria estranea, che non conosco.

Arrivo al convegno Luci ed Ombre, vedo Aparo, il prof del corso, vedo alcuni studenti. Comincio a sentirmi nel posto giusto, comincio a sentire che ci sono anche altre formiche con me. L’aria diventa più familiare.

Passano due anni.

Oggi entro in carcere, lascio il documento di identità, come si può appendere il cappotto all’attaccapanni di casa. Percorro lo spazio, e ad ogni passo sento che mi sto avvicinando a un mondo che io conosco, che per me è importante, a cui devo il fatto di stare così bene, ora, quando vi entro. Non entro sola; insieme a me ci sono Livia, Cosimo, Silvia, Margherita, il prof e altri studenti del gruppo. Dentro ci sono altri alleati, Dino, Enzo, Fabio, Pippo, e c’è il “cantiere” coi mattoni già posizionati e il materiale che ancora aspetta di trovare un posto.

Mi racconto, sento l’importanza della mia presenza in quello spazio, sento il posto prezioso di Livia, e di Eric, e di Felice. Mi rendo conto dello scambio, avverto l’incontro… ci mettiamo al lavoro.


Siamo piccole io e le mie sorelle. La mia mamma è rimasta sola, papà non c’è più e lei deve essere mamma e papà insieme. Lavora tanto, ci aiuta nei compiti, ci fa da mangiare, ci sgrida quando combiniamo guai, sorride soddisfatta quando prendiamo bei voti.

Quando sono triste capisco che vuole abbracciarmi e coccolarmi ma non può; così un po’ mi consola, un po’ mi sprona ad essere forte e ad andare avanti.

Di fronte al coraggio di questa mamma-papà, la mia parte fragile progressivamente si nasconde, vergognosa di mostrarsi ed esprimersi.

Lotto per dimostrarmi responsabile, perfetta, diligente, degna erede della forza e dolcezza che la mia mamma-papà ha in sé.

Lei non riesce ad abbracciarmi o a baciarmi o a dirmi ti voglio bene, anche se il suo bene lo sento comunque in ogni suo gesto e in ogni sua parola. Il mio corpo, però, si sente un po’ abbandonato perché carico di gesti d’affetto che non sa a chi rivolgere. A poco a poco questi abbracci non-dati mi si stringono addosso, mi irrigidiscono i movimenti e le emozioni.

Nella danza classica non occorre essere spontanea, eppure quella rigidità mi sta stretta, mi fa sentire pesante. Una pesantezza che mi dà fastidio, che non mi dà equilibrio, ma mi ingombra.

A ottobre dell’anno scorso cambiamo casa; quella vecchia, in cui sono cresciuta, viene usata per pagare i debiti che mio papà ci ha lasciato.

Mia mamma è più tranquilla e serena ora. Le sue tre bambine ormai sono grandi. Io sto crescendo, vado al Gruppo, le racconto quello che faccio. Vivo l'orgoglio di presentarle le cose belle che al gruppo accadono e un misto di entusiasmo infantile nell’esprimere la gioia e il divertimento di una esperienza che sta progressivamente trasformando la prigione della mia pesantezza in una sensazione di pienezza e vita.

Mia mamma è diventata più mamma, più dolce e comprensiva. La mia parte fragile è meno timida con lei, a volte le parla anche.

Il mio corpo sta diventando meno prigione, meno carcassa di emozioni congelate e mai espresse; ogni tanto nella danza, così come nelle feste in carcere, comincio a sentirlo.


Leggo sul giornale di un medico, professore universitario, che parla di una nuova cura che, lui e la sua equipe, hanno scoperto per la leucemia. Espone lo stato attuale della ricerca scientifica, e illustra i risultati delle sue scoperte nonché le conseguenze che avranno sulla cura di questa malattia.

Vedo il suo nome impresso sulla carta, vedo la sua foto insieme a quella degli altri membri dell’equipe. Sento le ore di analisi, tentativi, ricerca, rinunce, frustrazioni, gioie e soddisfazioni. Sento il lavoro, le alleanze, i litigi, gli accordi.

Rileggo il titolo “Nuove frontiere nel campo della cura della leucemia”.
In quel titolo vedo un traguardo, una meta raggiunta, la realtà di un sogno che viene realizzato.

Mi viene in mente il bellissimo acquerello che mi ha regalato Marcello, dove è rappresentata una strada diretta verso un orizzonte luminoso.

Mi viene in mente anche la foto di Livia, Margherita, Cosimo e Giovanna Martino che il prof ha messo sul sito insieme alle sue riflessioni sul potere.

Mi viene in mente, infine, “Il viaggio” di Aldo e Enzo, che è stato letto lunedì al gruppo, dove i due naufraghi vedono la terra che è il loro obiettivo. Quella terra trasforma le difficili circostanze dei due naufraghi, in un viaggio comune, che ha una direzione. E il tratto di mare che li separa dalla terra, diventa uno spazio da conquistare.

I loro movimenti non sono più solo tentativi di rimanere a galla per non affogare, ma gesti ed energie che vengono coordinati dal desiderio di avvicinarsi alla meta.