A chi vorrà ascoltare


Paolo Teti

Mi è stato chiesto più di una volta di proporre un argomento per contribuire alle nostre riflessioni, e più di una volta io ho cercato di sottolineare quello che per me è uno dei punti cruciali su cui si basa l'espiazione della pena.

Il trattamento, l'osservazione, il potenziale reinserimento in un contesto cosiddetto "regolare", e oggi, nuovi possibili orizzonti lavorativi che dovrebbero precludere la strada al crimine. Ebbene tutte cose che sulla carta dovrebbero servire ad educare il trasgressore, ma che in effetti a nulla, fino ad oggi, sono servite se non ad alimentare il rancore nei confronti della società che lo ha privato di ogni cosa, bene o affetto che sia.

Questa pausa di "sospensione" che ognuno di noi (detenuti) subisce era scritta nel binario del nostro percorso come una sorta di fermata obbligatoria, dal giorno della nostra "scelta" definitiva avevamo la piena consapevolezza che, potenzialmente, questa era una tappa della nostra corsa verso.. il niente. Forse inconsciamente, forse incoscientemente, noi ci trascinavamo dietro delle vite, quelle stesse vite che oggi come noi sono coinvolte, ma che colpe non hanno se non quella di amare delle persone, diciamo, particolari. Certo sto parlando di quelli che di noi hanno la fortuna (o la sfortuna?) di avere una famiglia, ma sicuramente anche per quelli che, o per un motivo o per un altro, non hanno mai avuto la possibilità di crearsela, magari anche a causa del proprio stile di vita.


Qualcuno di noi, nel gruppo, ha accennato al fatto che anche la parte buona di noi stessi sta pagando colpe commesse da quel lato trasgressivo insito in ognuno di noi, ma forse è troppo comodo pensare che soffriamo per il male arrecatoci, magari sottovalutando quello arrecato a chi ci ama.


Ma a questo punto sorgono spontanei interrogativi:
Chi ci giudica ha piena consapevolezza di coinvolgere nella pena anche quelle persone?
Mi domando se si è mai pensato alle "altre vittime" di un carnefice?

Oggi si parla di sperimentazioni, di aree verdi, di affettività, di avvicinamento del detenuto alla propria famiglia, ma perché solo oggi? E fino a ieri? E' mai stata fatta una statistica delle famiglie sgretolatesi durante l'espiazione di una pena?

Perché non si è mai cercato di responsabilizzare di più i detenuti verso la famiglia?
Al contrario, oltre ad escluderli da una vita sociale, li si è anche allontanati da quegli affetti che avrebbero in qualche modo potuto far capire gli errori commessi.
Chi mai ha deciso, ed in base a quali presupposti, ha ritenuto che sei ore mensili fossero sufficienti ad alimentare quel bisogno d'affetto o d'amore necessario ad ognuno di noi?
Perché uno dei principi fondamentali della costituzione è basato sulla famiglia, e nelle legislazioni penali e penitenziarie questo aspetto ha così poca importanza?
Per ultimo, chi si prenderà la responsabilità di rispondere a queste domande?