La mia trasgressione

Romeo Martel

1998  


Ritengo piuttosto difficile che il carattere umano possa migliorare ed evolversi senza il contributo della trasgressione. L'uomo, il bambino, il ragazzo trasgredisce per sopperire alla mancanza di uno spazio che gli è stato rubato e la cui mancanza non permette la sua realizzazione come essere cosciente. Lui sa che vuole essere, ma non riesce a seguire la sua strada perché continuamente interrotto e accecato dalla rabbia per le molteplici circostanze che gli impediscono di crescere. La sua rabbia quindi viene fuori quando è inconsapevole di quello che cerca, mentre la consapevolezza, invece, può regalare serenità a colui che trasgredisce uscendo fuori dai margini, dai soliti canoni.

Io sento di potermi inserire nella prima categoria di persone; io non crescevo, altri me lo impedivano ed io ho impostato la mia trasgressione soddisfacendo un bisogno che non vedevo potersi realizzare diversamente. Appena me ne è capitata l'occasione ho trasgredito e mi sono accorto di sentirmi bene dopo averlo fatto; mi sentivo appagato e la mia soddisfazione prendeva possesso di quella parte inconsapevole. E così io rimanevo legato al mio modo di ottenere piacere e soddisfazione e piuttosto restio a modificarne il comportamento a causa della antica consapevolezza delle mille difficoltà che avrei dovuto affrontare per cambiare stile.

Era molto più facile trasgredire. Era molto più comodo!
E poi quelle emozioni che solo quell'atto sapeva rendere possibili, quel sottile piacere di aver saputo portare il conto in pareggio non riuscendo quasi più a vivere sereno senza la degustazione di quel piacere.

Mio padre era alto e prepotente, ricordo che riusciva a stabilire la sua potenza solo attraverso la violenza; mio zio credeva di insegnarmi nel miglior modo il mestiere di fabbro punendomi con scudisciate nelle gambe piccole e magre e col manico del martello in testa ogni qualvolta arrivavo tardi in officina dopo l'uscita dalla scuola elementare. Dio, quante botte mi ha dato mio zio quando sbagliavo a battere con un grosso martello sul ferro arroventato, in contemporanea con lui, sull'incudine e, spesso, non riuscendo a sincronizzare i colpi come il ritmo dei rintocchi di una campana. Non era poi neppure conveniente raccontarlo a casa, che si rischiavano altri maltrattamenti. Tutti avevano il diritto di picchiarmi a scopo educativo, a loro dire. <<Crescerai bene>> mi dicevano.

Ma perché arrivavo poi tardi in officina? Mi piaceva stendermi nei campi col volto rivolto al cielo in mezzo all'erba alta, mi piaceva così tanto che mi dimenticavo persino di andare al lavoro.

Fu così che, in quella scura spelonca piena di carbone e di attrezzi per la campagna, cominciai a trasgredire per la prima volta sottraendo alcune centinaia di lire dal taschino del gilet di mio zio appeso a un chiodo. La sfida della trasgressione consisteva nella velocità con cui riuscivo a prendere dal suo taschino le monete quando andavo a riempire la pala di carbone per rovesciarlo sul fuoco: un gioco di velocità e di destrezza che facevo nei pochi secondi in cui mio zio mi volgeva le spalle, mentre mi sostituiva al mantice. Sembrava che ogni volta mi ripagavo delle percosse subite.

Quando ero ormai diciassettenne e all'estero per motivi di lavoro non ce l'ho mai fatta a dispiacermi quando ho saputo la notizia della sua morte. Sentivo maledettamente la voglia di crescere e di essere autonomo ogni qualvolta chiedevo delle spiegazioni a mio padre e lui mi diceva di star zitto che io, tanto, non capivo niente. Mai una volta che si fosse affacciato a scuola a chiedere come me la cavavo. Io mi vedevo bravo a scuola, so di essere stato sempre tra quelli con "ottimo" e non incontravo difficoltà nell'apprendimento, ma era sempre una tortura tornare a casa e vedere mio padre.

In casa era come sentire nell'aria quell'interrogativo a chi dovesse toccare quel giorno prenderle e mi sentivo un po' vigliacco ma comodo quando il "sorteggio" sfavoriva una delle mie sorelle più grandi. Ricordo che lui, lavorando in un forno, distribuiva il pane nei paesi vicini a bordo di un motocarro e durante la notte scivolavo a carponi nella stanza buia di mio padre rubando alcune monete dalla sua giacca, frutto dell'incasso della giornata. Di monete erano piene tutte e due le tasche, e pensavo che non se ne sarebbe mai accorto. Mio fratello più grande mi sosteneva e mi incoraggiava nell'impresa dividendo poi con me il maltolto.

La mancanza del mio spazio me la ripagavo con quelle monete e il gesto mi faceva star bene. Ricordo di essermi sentito amato più dalle vecchiette del vicinato che da mio padre il quale sapeva trasmettere solo autorità e paura.

Mia madre, poveretta, subiva in silenzio il suo ruolo di donna unicamente nello sfornare bambini e badare ai bisogni di tutti senza avere voce rispetto a lui. Non me la ricordo mai sorridere mia Mamma, sempre con quei vestiti neri addosso per onorare il lutto ora di questo ora di quel parente morto. Io devo dire che mia Mamma non ha mai vissuto la sua vita, ma l'ha vissuta in funzione agli altri trasgredendo il senso stesso per cui avrebbe dovuto condurre la sua esistenza e cioè viversela la sua vita.

Durante gli effetti conseguenti alla mia trasgressione i miei pensieri sono spesso rivolti a mia madre quando io, ormai grande, trasgredivo certe vecchie e stupide regole saltandole addosso baciandola di dietro sul collo e sulle guance, ciò che lei non aveva quasi mai fatto perché <<viziata>> e condizionata da certi stupidi comportamenti per cui manifestare gesti e azioni affettive corrispondeva ad affermare una sorta di debolezza. La amo sempre la mia Mamma.

I miei dirimpettai di un tempo Giovanni e la moglie Maria possedevano una bottega di generi alimentari e d'estate coltivavano pure il tabacco facendolo assemblare a noi ragazzini del vicinato dopo averne effettuata la lavorazione, lunga e faticosa a causa della sgradevole posizione che richiedeva la schiena curva e il collo sempre abbassato in modo da infilare foglia dopo foglia per tutta la lunghezza di un ago gigante per poi passarle tutte attraverso un filo di spago lungo circa un metro. Tutto ciò ci veniva poi ricompensato con qualche pacchettino di caramelle e qualche decina di lire.

Durante il buio pesto delle serate estive entravo di soppiatto nel suo piccolo cortile, dove si trovava accatastato il lavoro già finito da noi ragazzini e me ne riprendevo una parte di quello che gli avevo consegnato poche ore prima riportandoglielo, poi al giorno dopo facendomelo pagare una seconda volta. Mi riprendevo così, con l'inganno, quello che io pensavo mi fosse stato tolto.

Nelle grigie e incerte giornate invernali non è che si cucinava spesso a mezzogiorno e così mia Mamma risolveva incaricandomi di andare dalla "Maria" e comprare cinquanta o cento lire di mortadella. Ogni volta sembrava un rito; mentre la Maria tirava fuori da un armadio verde coi vetri smerigliati quell'eterno pezzettone di mortadella ingiallita e unta; ecco che si presentava puntuale il suo gatto nero e grigio e spelacchiato, miagolando e strofinandosi sui polpacci grossi e venosi della salumiera, la quale aveva già piazzato un bel pezzo di carta gialla e pesante sulla bilancia facendo muovere la lancetta in avanti di alcuni grammi. La Maria, effettuata la pesatura, cominciava l'operazione di scarnamento della mortadella, al fine di volerla pulire, staccando dei pezzettini all'esterno, sempre più consistenti, che andavano di diritto al suo gatto. Maledetto gatto.

Anche alla Maria ho sottratto delle monete dal cassetto del suo bancone, un pomeriggio d'estate, mentre erano tutti nel cortile adiacente intenti a pranzare. Quella trasgressione mi faceva sentire persino orgoglioso e convinto di aver agito bene.

Quelle di oggi sono il riflesso aggiornato e adattato ai tempi in cui viviamo, con l'unica variante di essere riuscito a comprendere l'importanza della mia esigenza di spazio personale.
Ritengo quindi che le mie trasgressioni siano il prodotto della mia incapacità di costruire lo spazio necessario a permettere il sano crescere della mia coscienza, attraverso la quale avrei dovuto permettere e concedere la sintesi di tutti quegli avvenimenti, buoni e non buoni, che confluivano dentro di me e del mio sapere.

La mia trasgressione è dovuta al poco sapere, al poco saper riflettere e all'ancor poco saper decidere con consapevolezza verso il mio vero benessere, così che questa ha assunto una forma di vendetta verso tutto ciò che non capivo e verso ciò cui non sapevo ribellarmi in modo positivo, costruttivo, poco consapevole del bisogno che nasceva come effetto delle mie incompletezze.