Ma io la mia cella la preferisco in centro

 

24-12-2001

Sisto Rossi

Mi chiamo Sisto Rossi e sono un detenuto di San Vittore.
Nel carcere milanese "abito" dal '94. Ci sono finito dentro perché ho sbagliato, ma non ho mai ammazzato nessuno. Sto pagando il mio sbaglio, e posso assicurare che in galera si sta proprio male. Perché scrivo? Ho letto le polemiche di questi giorni, le intenzioni del ministro di spostare San Vittore fuori città, così nessuno potrà più vederci, staremo più larghi, saremo trattati meglio, con più dignità.

Il problema, secondo me, è un altro. Un carcere in città significa che le persone normali, quelle che non hanno sbagliato, possono entrare e vedere come si sta. Significa che gli avvocati, i magistrati, ma soprattutto le nostre famiglie possono venire più spesso e più agevolmente a farci sentire ancora in vita. Significa che quell' "obitorio di vivi" che è il carcere di San Vittore può non diventare il macigno che ci schiaccia per sempre, rimanendo quello che è attualmente, un posto separato ma comunicante, perché finché si comunica non si muore, non si è seppelliti.


Scusate se parlo di morte . Alla redazione del giornale del carcere www.ildue.it, dove lavoro e mi impegno, i miei compagni spesso mi prendono in giro perché io sono quello "fissato" con i morti. Nel senso che prendo nota, quasi maniacalmente, di chi in galera ci muore, di morte naturale (credo che non esista cosa più triste, più disperata al mondo che morire senza qualcuno che ti tiene la mano, che ti chiude gli occhi ) o perché si è fatto fuori, perché non ce l'ha fatta a reggere la vita che si fa dentro.
Come è successo la scorza settimana a O., come succede spesso.

Che cosa c'entrano i morti con il carcere, e soprattutto con lo spostamento del carcere? Tantissimo.
Immaginate che per un detenuto la visita di qualcuno (un operatore, un magistrato, un avvocato che ti dà retta, un volontario) è tutto. Ti fa sentire non abbandonato a te stesso, ti fa sentire che qualcuno ti pensa, ti vuole ancora bene anche se l'hai combinata grossa, che accetta ancora di parlare con te.
Parlare con qualcuno che vuol parlare con te, che si occupa di te, è tutto. Tutto. Immaginate che ci sono compagni che hanno i parenti a Reggio Calabria, in Sicilia, oppure poveri disgraziati che non hanno neanche un cane li viene a trovare, senegalesi, marocchini. Ci sono extracomunitari che entrano in carcere in estate, con la maglietta, e se qualcuno non gli porta un golf stanno in maglietta fino all'inverno. Gente che non sa i suoi diritti, che non capisce neanche quello che gli sta succedendo…

A San Vittore si sta male, si sta stretti, ma la gente viene, entra guarda, parla. E' gente che porta vita, porta respiro. Siamo in contatto con alcuni compagni del carcere di Bollate, molto bello e molto nuovo. Le celle sono più grandi, al massimo in quattro, l'acqua calda e la cucina separata dalla tazza del cesso. Ma non ci va nessuno, da fuori; fare un colloquio, per un parente che sta fuori Milano, è un'impresa ciclopica; sono in mezzo alla campagna, lontani dalla società civile, volontari zero, o quasi, operatori, il minimo indispensabile. A San Vittore, due anni fa (già l'assessore Lupi aveva ventilato l'intenzione di sbaraccare tutto per metterci fuori Milano), avevamo fatto un sondaggio tra la popolazione detenuta per sapere, con il nostro giornale, quale fosse la nostra opinione, di noi detenuti, intendo.
Per quello che può importare la nostra opinione. Bè, la stragrande maggioranza preferisce la caotica, schifosa giungla di San Vittore alla perfezione desertica di un carcere fuori città.