Sempre attuale la sfida di Prometeo

 

Ronald Dwarkin



Ronald Dworkin è Quaint Professor di giurisprudenza all’University College di Londra, e Sommer Professor di Legge e docente di Filosofia alla New York University. Il presente saggio, pubblicato sul numero 56 di "Reset", è stato rielaborato dalla rivista "Prospect" sulla base del testo di una conferenza su "Genetica, identità e giustizia" tenuta al 21st Century Trust. Il testo completo dalla conferenza sarà disponibile in un volume di prossima pubblicazione che raccoglierà i saggi di Dworkin sull’uguaglianza (Harvard University Press).

Lo studio della genetica ha scoperchiato un vaso di Pandora morale e politico. Sarebbe giusto consentire alle compagnie di assicurazione l’accesso alle informazioni genetiche? Il diffuso sentimento di disgusto di fronte alla prospettiva della clonazione umana è giustificato, oppure i nostri valori dovrebbero adeguarsi ai nuovi confini tra possibilità e scelta?

Nessun altro capitolo nella storia della scienza, nemmeno quello della cosmologia, ha suscitato tanto scalpore come la genetica. E nessuno le può essere paragonato quanto alla profonda influenza che eserciterà sulla vita dei nostri discendenti. Alcuni dei problemi politici e morali suscitati dalle nuove tecnologie potranno essere affrontati in futuro.

Se la clonazione umana dovesse diventare una possibilità reale e concreta, ad esempio, o se sarà possibile alterare radicalmente i cromosomi di un feto appena concepito per dar vita a un bambino più intelligente, o magari più aggressivo, allora sarà necessario decidere se tali interventi dovranno essere proibiti o meno. Ma molti altri problemi ci riguardano già oggi.

Esistono già per esempio dei test in grado di individuare un indicatore genetico di alcune malattie o della predisposizione ad esse. Siamo quindi già di fronte a difficili interrogativi, per stabilire fino a che punto e in quali casi dovrebbero essere consentiti – o richiesti o proibiti – tali test; e fino a che punto i datori di lavoro o le compagnie di assicurazione dovrebbero poter accedere ai risultati.

Gli avversari di questi esperimenti citano i danni di diverso genere che potrebbero derivare dalla diffusione dei loro risultati. Se si dovesse risapere che un individuo è quasi certamente destinato a morire giovane, o è particolarmente vulnerabile a un certo tipo di malattie, sarà trattato dagli altri in modo diverso. Ciò potrebbe incidere sul matrimonio, e addirittura sui rapporti di amicizia che questa persona può intrattenere, perché la conoscenza di questo dato la renderebbe meno attraente. In alcuni casi, un individuo potrebbe – per effetto di quel che gli altri sanno riguardo al suo patrimonio genetico – non trovare lavoro o non poter sottoscrivere un contratto di assicurazione. È giusto tutto ciò?

Dovremmo innanzitutto riconoscere che l’ingiustizia, se c’è, fa già parte della nostra esistenza. Le persone che soffrono di una disabilità evidente già subiscono un danno sociale ed emotivo derivante dalla loro condizione, e i datori di lavoro e le assicurazioni possono anche oggi esigere informazioni sulla storia medica di un individuo (e poi comportarsi di conseguenza).

Tuttavia la possibilità di accedere a un profilo genetico complessivo o anche solo ad alcune informazioni specifiche riguardanti ad esempio la predisposizione genetica a tumori, malattie cardiache o comportamenti aggressivi, aggraverebbe la vulnerabilità dei singoli nei confronti delle discriminazioni...

...La più impressionante delle possibilità esplorate in questo momento dai genetisti è quella che consentirebbe ai medici di scegliere quale tipo di essere umano far nascere. L’umanità ha scoperto da tempo, in modo grossolano, questo potere, quando ha compreso che l’accoppiamento tra certe persone e non altre comportava determinate conseguenze sui figli che costoro avrebbero messo al mondo.

L’eugenetica, sostenuta da George Bernard Shaw oltre che da Adolf Hitler, era nata da questa semplice intuizione. Ma oggi la scienza genetica ha la possibilità di creare esseri umani con caratteristiche particolari, progettati secondo una mappa genetica dettagliata, e addirittura la possibilità di modificare esseri umani già esistenti, allo stadio fetale e oltre, per creare persone con determinate caratteristiche genetiche.

Quando gli scienziati scozzesi clonarono una pecora adulta, e altri scienziati e opinionisti ne dedussero che la stessa tecnica poteva servire a clonare esseri umani, apposite commissioni nominate dai governi di tutto il mondo nonché da vari organismi internazionali, stigmatizzarono immediatamente l’idea.

Il presidente americano Clinton vietò qualunque uso di fondi federali per finanziare le ricerche sulla clonazione umana, e il Senato degli Stati Uniti sta per proibire, attraverso un’apposita legislazione, ogni ricerca del genere. Il Parlamento europeo ha dichiarato che la clonazione dell’uomo "sia pure in via sperimentale nel contesto di trattamenti di fertilità, diagnosi di preimpianto per il trapianto di tessuti o per qualsiasi altro scopo, è antietica, moralmente ripugnante e contraria al rispetto della persona e costituisce una grave violazione dei diritti umani fondamentali" che non potrà mai, in alcuna circostanza, essere giustificata o accettata.

La possibilità di manipolazioni genetiche globali – alterazioni dell’eredità genetica dello zigote per produrre una serie di predisposizioni fisiche, mentali e emotive – così com’è stata immaginata da un film uscito di recente, Gattaca, ha suscitato altrettanti timori e ripugnanza.

Come giustificare, o anche solo spiegare, una reazione così violenta di fronte alla clonazione e all’uso estensivo dell’ingegneria genetica? Si citano spesso tre generi di obiezioni.

Il primo chiama in causa i potenziali pericoli fisici. Non sappiamo se i tentativi di questo genere produrrebbero un numero abnorme di gravidanze interrotte prima del termine, o la nascita di una quantità di bambini deformi.

Secondo, la resistenza contro le manipolazioni genetiche si fonda a volte su preoccupazioni di giustizia sociale. Se anche fosse realizzabile, la clonazione risulterebbe spaventosamente costosa, e quindi disponibile solo per i più abbienti, che potrebbero farsi clonare per pura vanità, incrementando ulteriormente i già iniqui vantaggi derivanti dalla ricchezza. (Quanti inorridiscono di fronte alla prospettiva della clonazione citano spesso lo spettro di migliaia di Rupert Murdoch o, ancor peggio, di Donald Trump).

La terza obiezione si potrebbe spiegare con una valutazione estetica. Qualora fossero disponibili, le scoperte dell’ingegneria genetica potrebbero essere utilizzate per perpetuare le caratteristiche oggi più desiderabili per quanto riguarda l’altezza, l’intelligenza, il colore della pelle e la personalità, privando così il mondo di quella varietà che è essenziale per avere novità, originalità e fascino.

A mio parere, né prese separatamente né insieme queste tre obiezioni giustificano l’energia della reazione descritta sopra.

Prendiamo la questione della sicurezza fisica. Non c’è motivo di pensare che la clonazione o la manipolazione genetica produrrebbero un danno genetico ereditario tale da minacciare di deformità le generazioni future. In ogni caso tali rischi non sarebbero sufficienti, da soli, a giustificare la proibizione a proseguire una ricerca che potrebbe aiutarci a comprendere meglio i rischi effettivi. Si potrebbe regolamentarne lo studio, affidandone il controllo ai guardiani della clonazione – destinati prima o poi a fare la loro comparsa sulla scena – senza proibirlo completamente.

Ma se è giusto preoccuparsi dei rischi comportati dalla ricerca e dalla sperimentazione, dovremmo però anche prendere in considerazione la speranza che dal progresso e dall’affinamento delle tecniche dell’ingegneria genetica possa derivare una drastica diminuzione dei difetti e delle deformità congenite o che si sviluppano nel corso degli anni. È assai probabile che il piatto della bilancia penderebbe in favore della sperimentazione.

E che dire della questione della giustizia? È facile immaginare l’ingegneria genetica divenire un privilegio dei ricchi. Ma queste tecniche hanno utilizzi che vanno oltre la semplice vanità. I parenti di un bambino malato senza speranze potrebbero volerne un altro, che amerebbero allo stesso modo, ma il cui sangue o midollo potrebbe salvare anche la vita del bambino da cui il secondo è stato clonato.

La clonazione di singole cellule umane, anziché dell’intero organismo, potrebbe comportare benefici ancor più evidenti. Per esempio, una cellula modificata geneticamente e poi clonata, prelevata da un paziente malato di cancro, potrebbe rivelarsi una cura efficace contro il tumore stesso, una volta reintrodotta nell’organismo.

Potrebbero esserci anche benefici che vanno al di là delle questioni strettamente mediche. Coppie senza figli o donne singole potrebbero desiderare di procreare attraverso la clonazione, che potrebbero giudicare un’alternativa migliore di quelle attualmente disponibili. O potrebbero ritenere di non avere alternative.

Il rimedio all’ingiustizia è la distribuzione delle risorse, non il rifiutare ad alcune categorie di persone determinati benefici, con un divieto da cui nessuno potrebbe trarre alcun vantaggio.

Dove sta, in fondo, la differenza tra l’invenzione della penicillina e l’uso di geni clonati o manipolati per curare malattie ancor più spaventose di quelle curate dalla prima? Che differenza c’è tra l’imporre ai propri figli faticosissimi esercizi per perdere peso o migliorare la propria forma fisica e l’alterare i loro geni, quando sono ancora embrioni, avendo in mente lo stesso obiettivo? Per cercare di rispondere a questi interrogativi, occorre partire da un po’ più lontano, dalla struttura complessiva della nostra esperienza morale.

Tale struttura dipende dalla distinzione fondamentale tra quello di cui siamo responsabili, con le nostre azioni e le nostre decisioni, in quanto individui o in quanto collettività, e ciò che ci viene dato in partenza, contro il quale possiamo agire o decidere, ma che non abbiamo il potere di cambiare. Per i greci, era questa la distinzione tra loro e il fato o destino, che riposava nel grembo degli Dei.

Anche oggi, per le persone religiose in senso convenzionale, si tratta della differenza tra il modo in cui Dio ha organizzato il mondo, ivi compresa la nostra condizione naturale all’interno di esso, e l’obiettivo del libero arbitrio, che è anch’esso una creazione divina.

Persone più sofisticate usano il linguaggio della scienza allo stesso scopo: per loro la distinzione di fondo è tra ciò che è creato dalla natura, compresa l’evoluzione, tramite particelle, energia e geni, e ciò che noi facciamo di quei geni.

Per tutti, la distinzione segna il confine tra ciò che siamo – che ne sia responsabile il volere divino o un cieco processo naturale – e ciò che noi facciamo di quella eredità, azioni la cui responsabilità è soltanto nostra.

Questo confine cruciale tra scelta e fatalità costituisce l’impalcatura della nostra moralità, e qualunque cambiamento di una certa rilevanza apportato a quel confine causa un forte disorientamento.

La nostra concezione di quella che è una vita vissuta bene, per esempio, è modellata su presunti postulati riguardanti i limiti estremi della durata della vita stessa. Se improvvisamente la durata della vita media si decuplicasse, ci troveremmo costretti a modificare le nostre opinioni su quella che possiamo considerare una vita attraente, nonché su quali attività che comportano dei rischi per la vita altrui, come per esempio guidare la macchina, siano moralmente accettabili.

La storia ci offre diversi esempi di come le scoperte scientifiche possano modificare i nostri valori. Le convinzioni comuni riguardo alle responsabilità dei comandanti che hanno il dovere di proteggere, a qualsiasi costo, i loro soldati in tempo di guerra, sono cambiate quando gli scienziati hanno imparato a dividere l’atomo, incrementando a dismisura l’entità dei massacri che quelle convinzioni avrebbero potuto giustificare. Le opinioni più diffuse circa l’eutanasia sono cambiate quando la medicina che si occupa dei malati terminali ha aumentato enormemente il potere dei medici di prolungare una vita ben oltre il punto in cui la vita stessa ha un qualunque significato per il paziente.

In ciascuno di questi casi, un periodo di stabilità morale è stato sostituito da uno di incertezza, ed è rivelatore che in entrambi gli episodi si sia fatto ricorso all’espressione "sostituirsi a Dio".

La scienza genetica ci ha reso coscienti della possibilità di un disorientamento morale simile, ma di dimensioni ancor maggiori. La prospettiva di un gruppo di persone in grado di progettare altre persone ci terrorizza, perché la possibilità stessa di un simile evento sposta quel confine tra fatalità e scelta su cui si fondano i nostri valori...

...In che modo tutto questo potrebbe cambiare se quello che siamo dipendesse dalla decisione consapevole di altre persone? L’orrore che molti di noi provano al pensiero delle manipolazioni genetiche non è la paura di una cosa sbagliata: è il terrore di perdere la nostra capacità di stabilire che cosa sia sbagliato. Abbiamo paura che ne verranno minate le nostre convinzioni più salde, che ci troveremo in una sorta di caduta libera della morale, che saremo costretti a ripensare tutto ex novo, in un nuovo contesto, e con esiti incerti. Sostituirsi a Dio significa giocare col fuoco.

Supponiamo che questa ipotesi sia corretta, e che serva a spiegare la profonda reazione emotiva di fronte all’ingegneria genetica. Avremo allora scoperto, oltre alla spiegazione, anche la giustificazione di tale ripulsa? No. Avremo scoperto una sfida che dobbiamo assumerci, anziché una ragione per voltarle le spalle.

L’ipotesi qui avanzata spiega soltanto i motivi per cui i nostri valori attuali possono rivelarsi sbagliati o da ripensare. Se vogliamo essere moralmente responsabili, non possiamo tornare indietro se scopriamo, come abbiamo scoperto, che alcuni dei presupposti fondamentali per quei valori sono errati.

Sostituirsi a Dio significa davvero giocare con il fuoco. Ma è quel che i mortali hanno sempre fatto, dai tempi di Prometeo, il santo patrono delle scoperte pericolose. Noi giochiamo col fuoco e ne accettiamo le conseguenze, perché l’alternativa è una irresponsabile vigliaccheria di fronte all’ignoto.

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