da un'intervista a Remo Bodei


La fine dei grandi miti

 

Remo Bodei

Il termine mito dal greco mythos, che ha la stessa radice del latino mythus, indica un racconto, una storia, che non soltanto dice, ma anche tace qualcosa, rinviando, in apparenza, a significati reconditi. In generale i miti esprimono credenze, desideri e paure, che riguardano eventi comuni a tutti gli uomini: nascita, morte e amore, alleanze o lotte contro forze della natura e divinità. Spesso si tratta di tentativi per spiegare il mondo, secondo criteri diversi da quelli della pura razionalità o della storia documentabile. Negli ultimi decenni si è parlato molto della fine dei miti, in quanto tramonto definitivo di alcune tenaci illusioni della modernità, che trasformano la storia in epopea del progresso o in itinerario dell'avvento finale delle società senza classi. Tali concezioni si rivelano favole per adulti, di cui solo ora ci si rende conto.

Una simile teoria presuppone però un'idea del mito quale semplice anticamera della razionalità, malattia infantile della mente o fase pre-logica dell'umanità. Possiamo invece constatare come le forme più sviluppate di razionalità scientifica e tecnologica coesistano a tutt'oggi con la fabbricazione, quasi a livello industriale, dei miti. Lo si è visto soprattutto nel nostro secolo sia nella creazione dei miti politici, come quello della razza o dell'infallibilità del capo da parte dei totalitarismi sia con il proliferare dei miti nell'ambito dei mezzi di comunicazione di massa o della pubblicità. In un anno si producono attualmente più miti di quanti gli antichi Greci ne abbiano inventato nel corso dei secoli. I miti infine non si sciolgono come neve al sole della ragione almeno per tre motivi:

STUDENTE: Professore volevo domandarLe: qui in questo studio sono state preparate delle ombre che rispecchiano un po' il mito della caverna, di Platone. Solo che questo mito si conclude, come appunto Lei sicuramente saprà, che appunto gli schiavi, liberatisi dalle catene che li trattenevano nella caverna, escono e guardano il mondo al di fuori di essa e contemplano alla fine il sole, che sarebbe, diciamo, la conoscenza logica e dialettica in assoluto. Ora però Platone nel suo descrivere i passi che bisogna fare per arrivare a questa conoscenza arriva anche a dei cosiddetti "sentieri interrotti", oltre cui si può andare soltanto con l'utilizzo del mito, con dei miti filosofici. Ma è possibile che i miti possano andare oltre la ragione, ossia che possano scavalcare questi "sentieri interrotti" citati da Platone, oppure i miti sono, come appunto molti pensano, soltanto asserviti alla ragione, per poter condurre la ragione stessa a dei livelli più alti?

BODEI: Lei ha dimenticato la fine di questo mito della caverna, che è molto più tragica del vedere il sole, cioè che il filosofo, che ritorna a spiegare agli altri che si illudono, viene ucciso. Cioè è in sostanza la storia di Socrate. È vero però quello che dice, che in Platone c'è da un lato il tentativo di portare fuori gli uomini dall'ombra della ragione, che è il mito, e di abituarli piano piano a vedere le cose, perché non si può guardare il sole, brucia la retina, lo sappiamo anche noi. Quindi la verità o il bene sono qualcosa che si può semplicemente percepire per qualche secondo, ma noi dobbiamo vedere i riflessi. Tant'è vero Platone dice di ricominciare dai riflessi nell'acqua e piano piano alzare lo sguardo al cielo. Però Platone sa che non tutto è spiegabile. Proprio perché la verità ha questo carattere accecante e si vede tanto poco con la pura luce come col puro buio, per questo Platone nelle cose che non possono essere spiegate razionalmente si serve anche lui del mito, cioè del racconto. Ora il problema però esula dalla filosofia platonica e va su un piano più generale. Noi non possiamo credere che il mito sia una semplice introduzione primitiva alla razionalità, che il sole della ragione poi cancellerà questo mito. In realtà il mito è qualcosa che accompagna sempre la ragione, anzi si può dire che il mito è un pezzo di razionalità, perché in sostanza noi viviamo in un mondo terribile, di cui non sappiamo quasi niente. Il racconto è un modo per rendercelo familiare, quindi per toglierci quest'angoscia, questo orrore nei confronti di una realtà che altrimenti sarebbe intollerabile.

STUDENTESSA: Secondo Lei il Cristianesimo può essere interpretato come un mito.

BODEI: Il Cristianesimo è tecnicamente un mito, nel senso che è un racconto, un racconto di eventi a cui si può credere o non credere. Ma il Cristianesimo ha questa caratteristica che è nato e si è sviluppato nell'età non della cultura orale, ma di quella scritta, il che fa differenza, perché la dottrina cristiana è stata codificata sulla base di dogmi che impediscono le variazioni del mito. Cioè i miti, diciamo, sono molto plastici. I miti greci, nati in epoca di tradizione orale, venivano continuamente modificati e quindi c'erano tante varietà di mito. Il Cristianesimo dogmaticamente ha fissato la storia di Cristo, ha selezionato i Vangeli canonici da quelli apocrifi ed è un mito sostanzialmente, sotto questo aspetto, è irrigidito, codificato, in cui naturalmente però il Papa o la Chiesa in generale hanno la possibilità di interpretare il racconto e di dare più o meno dei significati diversi. La differenza coi miti greci è che i miti greci non solo sono legati al politeismo quindi alla molteplicità di dei - l'abbiamo anche noi questo nella vita dei santi, per esempio -, ma soprattutto è un mito compatto, unitario, diciamo monolitico, quello cristiano, si evolve molto meno degli altri miti. Naturalmente dire che il Cristianesimo è un mito sembra quasi di trattarlo male. In realtà ci sono dei grandi teologi come Boltman che hanno cercato nel Cristianesimo la demitizzazione. Cioè Boltman diceva, per esempio: il Cristianesimo è nato in un periodo in cui la scienza non era sviluppata, in cui non c'era l'elettricità, l'energia atomica, eccetera, e sembra qualcosa di molto primitivo. Noi dobbiamo trovare dietro il racconto cristiano qualche cosa che non è subito evidente per noi moderni. Ma su questo si è aperto un dibattito enorme.

STUDENTESSA: Nella scheda filmata abbiamo visto almeno tre motivi per cui i miti non sono finiti. Ma secondo Lei sono finiti oggi i grandi miti?

BODEI: No, anzi oggi, come avete sentito nella scheda filmata - che ho fatto io e quindi non posso smentirmi -, i grandi miti sono diventati piccoli, nel senso che si sono moltiplicati. Avete, per esempio, notato, per parlare della cronaca, che nel filmato si vede la famosa Lady D ed è quasi inconcepibile che milioni di uomini, che non hanno mai saputo niente di lei, che non l'hanno mai conosciuta, si siano commossi, hanno portato montagne di fiori. Cioè è una cosa che dà da pensare. C'è una fame di senso, una fame di mito, che viene diffusa oggi e che trova i suoi rappresentanti in personaggi che non sono più gli eroi greci, i santi cristiani, ma sono appunto le modelle, sono oggetti. Là avete una Ferrari Testa Rossa, che è, come si dice nel Vostro linguaggio giovanile, "mitica!". Anzi Voi avete dato un nuovo significato al termine "mito", in senso elogiativo. Oppure avete delle altre forme di mito, che riguardano ormai anche la quotidianità: cioè certi tipi di scarpe, certi tipi di vestiti.

STUDENTESSA: Quindi si può dire che nel mito classico il rapporto era più fra l'uomo e Dio e oggi invece fra l'uomo e uomo, cioè si ricerca un mito nell'altro uomo come aspirazione?


BODEI: Sì, nel mito classico c'era una presenza del divino, che era legata alla religione. Cioè nella religione greca, dove non esistevano libri sacri, dove non esistevano dogmi, mito e religione spesso coincidevano, nel senso che il mito era racconto di imprese, di dei o di eroi. Per esempio Mercurio o Ermes bambino, che strangola il serpente nella culla, per dire che era uno molto sveglio fin da piccolo. Oggi più che rapporto tra uomo e uomo spesso è un rapporto tra uomo e cose. La pubblicità è un grande sistema di creazione di miti, nel senso che in un mondo, che se non consuma non produce, che se non produce crea il disastro, dal punto di vista economico, bisogna creare dei miti. Per esempio i più banali che vedete continuamente nelle pubblicità sono che una cosa è buona perché appartiene ai tempi del nonno, oppure è futuribile. Stranamente non c'è mai un tipo di pubblicità o di mito che riguarda il presente, perché il presente è percettivo, è ragionevole - noi le cose le vediamo -, mentre invece l'attesa del desiderio o il ricordo sfumano di più e quindi l'immaginazione lavora con più solerzia.

STUDENTESSA: Quindi secondo Lei adesso non esistono più nella nostra società dei grandi miti, ma solamente dei piccoli miti banali. E non si potrebbe rintracciare nella società odierna un mito collettivo, di massa, come, per esempio, quello del progresso?

BODEI: La domanda è opportuna nel senso che io ho esposto una parte del problema, cioè la miniaturizzazione dei grandi miti del passato. Però alcuni miti oggi resistono nel formato grande, anche se bisogna dire che quelli che sono stati creati nel nostro secolo, sono diventati effettivamente molto più piccoli che nel passato, oppure sono addirittura scomparsi o speriamo che siano scomparsi. Pensiamo al mito della razza nel periodo nazista: c'era l'idea che questo era il mito del XX secolo contrapposto al mito della classe, che sarebbe stato il mito del XIX secolo.

Prima è scomparso, in maniera tragica, il mito della razza con i campi di concentramento, con l'olocausto. E quindi questo grande mito, a cui milioni e milioni di uomini, hanno creduto - non si sa se con buona o con cattiva coscienza, ma molti sicuramente ne erano convinti -, questo mito è tramontato. Questo mito traeva il suo significato dal fatto che c'era una sorta di lotta fra i popoli, in cui il più adatto sarebbe sopravvissuto, e stillava questo odio perché era diverso.

Poi è sopravissuto più a lungo il mito della società senza classi, che oggi ci sembra, per così dire, quasi strano che gli uomini abbiano pensato che alla fine la storia si sarebbe risolta con la fine dei conflitti, però miliardi, questa volta , di uomini, hanno in buona fede, pensato e con alcune buone ragioni, che se si eliminano i conflitti all'interno di una società, è poi possibile trovare delle forme di convivenza in cui l'ingiustizia possa finire.

Il mito del progresso è stato un mito ottocentesco, che è stato lanciato dal fatto che - settecentesco anche -, che finalmente il rapporto uomo-natura, questo libro mastro, per cui c'erano le perdite e i guadagni, che una volta dava il pareggio, - nel senso che ciò che l'uomo costruiva la natura provvedeva a distruggerlo o gli uomini - Gengis Khan eccetera - provvedevano a distruggere -, si è visto invece che ciò che gli uomini creano produce una sorta di diaframma, di crescita, che è sempre più alto, cioè restano le cose fatte dalle generazioni passate.

Poi si era scoperto nel Settecento che grandi malattie, come il vaiolo, oppure che per la prima volta con la mongolfiera l'uomo era arrivato a volare o col parafulmine che a noi sembra un oggetto banale, ma era il simbolo che il potere di Zeus - potere mitico -, il fulmine veniva controllato dagli uomini, ecco questo ha dato l'idea che il progresso potesse essere qualcosa di compatto e di continuo. Noi abbiamo scoperto invece oggi con dispiacere ma con realismo che dove c'è progresso c'è anche qualcosa che viene distrutto. Cioè progresso e distruzione procedono assieme. Il progresso è locale certe volte, non è globale.

Nel corso degli ultimi secoli avevamo condiviso questa convinzione, saldamente radicata, secondo la quale gli esseri umani, controllando le forze al di fuori di loro stessi, allo stesso tempo avrebbero migliorato se stessi e anche il destino dell'umanità. In effetti, una delle migliori espressioni di questo sentimento venne data dallo stesso Marx, quando ne Il Manifesto del Partito Comunista Marx canta le lodi della borghesia, per aver distrutto tutte le limitazioni locali feudali e per aver innescato quella forza nuova. Qui avete la sensazione di un'immagine eroica, come nel mito di Prometeo, che ruba il fuoco agli dei e lo dà in dono al genere umano, allo scopo di migliorare lo stesso genere umano. Ora questo sentimento e concetto prometeico dell'uomo, questa eroica nozione dell'umanità è oggi anch'essa in crisi e questa crisi influenza il nostro sentimento di crisi di civiltà.

STUDENTESSA: A questo punto io mi domando: questi piccoli miti moderni, non so come, per esempio, le modelle, che significato hanno, cosa spiegano, che cosa cerca l'uomo in queste figure?

BODEI: Intanto nelle modelle si cerca un'idea di una bellezza, che sia, come dice il termine, un paradigma, un modello per gli altri. Naturalmente le modelle possono esistere come mito soltanto perché hanno dietro il sistema della moda, che, senza essere essere materialisti volgari, è un sistema su cui girano migliaia di miliardi. Fra l'altro è uno dei motivi per cui l'Italia è presente nel mercato mondiale. Quindi è una cosa molto importante, non va considerata in termini snob, come un semplice lusso. È un lusso, certo, ma che crea lavoro. Quindi i miti hanno sempre dietro qualcosa. Voi avete l'immagine di una sfinge qua, che è il simbolo stesso, si potrebbe dire, del mito e dell'interrogazione sul significato del mito: quando Edipo, come racconta il mito, si reca a Tebe, su cui impera una pestilenza, e risolve l'Enigma della Sfinge - cos'è quell'animale che la mattina cammina a quattro zampe, a mezzogiorno a due, la sera a tre, e risponde che è l'uomo -, questo è un tentativo di spiegare razionalmente il mito, è lo sforzo del pensiero greco, per trovare dietro il mito un significato di carattere razionale. L'unica cosa che bisogna mettersi in testa è che la spiegazione razionale non cancellerà mai il mito, cioè appunto, come abbiamo visto anche nel filmato iniziale, che mito e razionalità coesistono. Quindi noi possiamo spiegare fenomeni di miti anche effimeri - le modelle, i calciatori eccetera -, perché sono quei miti che ci vengono proposti con una certa insistenza e che si alimentano, per così dire, come una valanga, cioè crescono piccoli e piano piano vanno avanti.

STUDENTESSA: Ma non possono essere intesi come delle distrazioni per non pensare a qualcos'altro?

BODEI: Certo. È una delle tante facce del mito. Il mito ha soprattutto questo carattere, di renderci qualcosa di intollerabile - lo dicevo all'inizio - tollerabile, cioè di trasformare un mondo, che non ha molto senso globalmente, che non riusciamo a spiegare, perché non siamo tanti Einstein concentrati nel nostro cervello, tanti Shakespeare. Noi alla maggior parte delle cose nel mondo non riusciamo a dargli senso. E il mito è un po' come la logica del sogno in cui sembra che noi possiamo volare, che le cose si risolvono. Quindi effettivamente ha anche questo significato di renderci tollerabile qualche cosa, qualche pensiero che è intollerabile, o di farci sognare, come si dice anche nel linguaggio sportivo, cioè il mito mi permette di aggirare la realtà nei suoi aspetti sgradevoli e di farmela comprendere però per quanto riguarda i desideri. Cioè il mito ha spesso più a che fare con un principio di piacere, diciamo così, che con un principio di realtà. Ma ci dice molto anche sulla realtà. Se noi riusciamo a decifrarlo senza cancellarlo il mito contiene in sé molta verità.

STUDENTESSA: Come immaginerebbe un mondo senza miti?

BODEI: Oddio, male, perché per esempio, quando vado a letto a dormire, non posso mettere un programma televisivo, e dico: "Voglio sognare questo". Riprendo il discorso di prima: il mythos assomiglia molto al sogno, nel senso che è un racconto, un racconto non programmato, che ha una sua spontaneità, che prende frammenti del mondo reale e li ricombina secondo logiche che non sono quelle dell'attenzione alla realtà. Quindi un mondo senza miti sarebbe un mondo puramente "ragioneresco", nel senso in cui tutto sarebbe preordinato, senza emozioni, senza coinvolgimenti. Naturalmente questo è il lato buono del mito che bisogna conservare, distinguendo la mobilitazione del mito in che direzione porta, se porta in una direzione, come potrebbero essere questi miti, che si basano sull'odio, allora è meglio di quei miti farne a meno. Però il mito in se stesso, in quanto capacità di darsi delle ragioni fantastiche, di affabulare, di sognare, teniamocelo stretto; un mondo senza miti sarebbe un mondo da svegli, in cui non si dorme mai: è bene essere sempre razionali, ma lasciateci dormire!

STUDENTE: Ho visitato alcuni siti internet, dedicati ai miti considerati moderni. Volevo sapere perché il mito moderno deve essere, ad esempio, un calciatore come, non so, Ronaldo oppure un ciclista, come Pantani, mentre nel mito antico, per esempio facendo riferimento, non so, ai miti nordici, deve essere un personaggio di una certa taratura, morale e intellettuale, come ad esempio Re Artù, per fare riferimento alle saghe nordiche. Io volevo sapere perché adesso - perché poi il mito esiste in relazione al fatto che noi lo consideriamo tale -, viene considerato mitico un giocatore di calcio, mentre nell'antica Grecia ad esempio un sovrano era un elemento mitico, e non uno sportivo, uno che partecipava alle gare? Ecco, io volevo sapere perché adesso c'è questa tendenza?

BODEI: Ma la spiegazione potrebbe essere questa: che nel passato, fino a pochi decenni fa, in sostanza, fino alla fine dell'Ottocento, i miti erano legati al potere e al sapere, agli uomini potenti - Alessandro Magno, Napoleone, o ai saggi e non solo nella civiltà europea - pensiamo a Mencio, a Lao Tzu, a Confucio -, quindi erano legati in sostanza a dei modelli da seguire, nel senso che uno doveva diventare più vicino alla capacità di manovrare gli uomini o più saggio, più capace di pensare. Oggi, in un momento in cui l'istruzione anche di base ci dà i presupposti del saper leggere e scrivere, in un mondo di comunicazioni di massa, di cui la televisione è parte, gli eroi non sono più quelli del lavoro o della serietà, curiosamente sono diventati gli eroi del tempo libero, cioè gli eroi dell'evasione, di quello che si vorrebbe essere. Per cui una volta le pubblicità - oggi si fa molto meno, perché appunto il mito del progresso è in declino -, le pubblicità erano: "Cosa vuoi fare da grande, il calciatore, il paracadutista, l'ingegnere?". Oggi probabilmente la gente si contenterebbe credo, anche Voi forse potreste sottoscrivere, di avere per lo meno un'occupazione. In linea generale il mito, come avete visto, è un fattore che permea tutta la nostra esistenza, che non si può considerare semplicemente un aggravio di cui dobbiamo sbarazzarci e che la ragione ci permette di cancellare. Il mito è questa capacità di raccontare, di spiegare raccontando. Per cui i grandi miti, se ci pensate bene, non sono più legati nemmeno, come nel passato, alle religioni, sono legati, da quando è stata diffusa la scrittura, ai romanzi, agli sceneggiati televisivi, ai racconti. Il Pantani che vedete là è il mito dell'uomo che caparbiamente con sforzo, con sofferenza riesce a raggiungere il suo scopo. Quindi non importa sostanzialmente essere tifosi di ciclismo, basta motivare questo mito con questo desiderio degli uomini di riuscire, di sfondare, con questa sofferenza necessaria al successo.

STUDENTE: Perché oggi allora il mito non può essere ad esempio Rita Hayworth o uno scienziato le cui scoperte sono state fondamentali, e invece, è un calciatore tipo Baggio? Cioè è chiaro che oggi non è che possiamo fare riferimento ad Agamennone, però ci sono ancora oggi, grazie a Dio, personaggi di un certo livello. Perché deve essere considerato mitico un calciatore e non uno scienziato?

BODEI: Non sempre gli scienziati sono figli di un Dio minore. Per esempio Einstein che stava lì, con la lingua di fuori, è diventato un mito. Certo oggi non si può fare semplicemente una classifica, bisogna avere sia gli strati sociali, sia gli interessi intellettuali. In ogni professione ci sono dei miti.