da un'intervista a Giulio Ferroni:


Mito e letteratura

 

Giulio Ferroni

La letteratura nasce come narrazione mitologica. "Il racconto è mito" - scriveva Aristotele - "poiché sa comporre gli avvenimenti in unità, in cui appare la loro verosimiglianza", appare cioè che l'intreccio dei fatti, organizzato dal racconto, è qualcosa di possibile. È possibile che gli uomini si comportino così, che certe vicende accadano veramente. Perciò il mito è ancora più reale della realtà, poiché ne mostra la possibilità, la possibilità che le cose accadano, e non il semplice fatto che esse sono accadute. In questo senso il mito fornisce alla letteratura una sua particolare potenza conoscitiva che non è quella didascalica o puramente razionale, ma quella che si inoltra alle spalle degli avvenimenti e delle azioni e li raffigura come esiti di un orizzonte più ampio e mutevole, dal quale è possibile rappresentare l'insensatezza della vita oppure il senso del meraviglioso o dell'orrendo.

Nell'immagine che ne dà Aristotele è come se l'antica conoscenza mitica non fosse tramontata, ma avesse preso corpo nella letteratura, nella tragedia, nell'epos, come la raffigurazione di una possibilità umana, quella di vedere la propria vita dal di fuori, con lo stupore o l'orrore o l'insensatezza che possiamo scorgervi. Questa concezione del mito, come potenza visionaria su se stessi e sul proprio destino è andata svanendo. E soprattutto in un secolo pieno di incertezze come il nostro, è emersa l'esigenza di ritrovare nel mito, non la varietà dell'orizzonte umano, ma il fondamento primordiale a cui ancorarsi e presso il quale dare pace alle proprie ansietà, un luogo dal quale l'uomo è forse escluso e in cui comandano divinità oscure. La crisi della centralità dell'individuo umano nelle tragedie di questo secolo, le guerre, gli stermini e la grande ondata di irrazionalismo, che ha accompagnato queste vicende, sembra testimoniare di miti che hanno portato il buio nelle menti, anziché luce nella comprensione. Miti rassicuranti a cui aggrapparsi, come quelli dell'origine, della nazione, della terra, ma anche terribili fantasmi.

STUDENTESSA: Il mito, come abbiamo visto nella scheda e come anche dice Aristotele, può essere una rappresentazione della realtà e quindi inteso come reale più della realtà, oppure, come dice Platone, un soggetto completamente distaccato dalla realtà e quindi anche pericoloso e diseducativo per il giovani. Come si possono conciliare queste due visioni nel mito?

FERRONI: Per quanto riguarda il mito dobbiamo anche risalire alle sue radici oscure, alle sue radici arcaiche. Aristotele e Platone già parlavano di un mito usato all'interno di una civiltà relativamente avanzata e per noi naturalmente le cose si pongono in maniera ancora diversa. Quando parliamo di mito siamo sempre incerti, se parliamo appunto di qualche cosa che va lontano, totalmente lontano dalla realtà, o se invece parliamo di qualche cosa che comunque si affaccia sul reale. Attenzione però a non identificare il mito con una rappresentazione del reale, a non identificare il mito con quello che per noi è realismo. Aristotele non parlava di realtà, ma parlava di possibilità, parlava di verosimiglianza. Ora in Platone c'era una condanna radicale della finzione, mentre Aristotele dà alla finzione, alla costruzione artificiale un valore conoscitivo tra l'altro. Ecco, per noi che siamo pieni di miti, di miti infiniti del passato, e che vediamo nascere nel nostro mondo quotidiano miti improvvisati di tutti i tipi, per noi le scelte sono ancora più difficili. Probabilmente abbiamo bisogno - per usare ancora i termini dei Greci - di un equilibrio tra mythos e logos, cioè saper guardare, non tanto alla finzione, quanto all'irrazionale, a cui la finzione permette di affacciarsi, saper guardare all'irrazionale con gli occhi della ragione, con gli occhi della razionalità. Credo che l’atteggiamento dei giovani dovrebbe essere quello di essere aperti all'immaginario più vasto, più assoluto, però mantenendo su questo gli occhi anche della ragione, saper vivere i miti senza soccombere ad essi.

STUDENTESSA: Lei prima ha parlato del mito che è espresso in letteratura ed è proprio la parte irrazionale di noi e quindi fa parte dell'uomo. Poi nella scheda filmata si parlava di miti che hanno portato alle distruzioni. Ora mi domando se il mito è parte dell'uomo, forse anche la distruzione e quindi anche il male è insito nell'uomo, è proprio dell'uomo. E quindi perché il mito dovrebbe esprimere soltanto qualcosa di positivo, perché ora si dovrebbe ritornare ad un mito, diciamo di perfezione, e non accettare i miti che esprimono la realtà e quindi l'uomo?

FERRONI: Ha fatto un'osservazione che in realtà è molto problematica. È vero quello che Lei dice: il mito è una finestra su tutti gli aspetti, anche ciechi, della vita umana, è stato ed è anche una finestra proprio sull’aspetto oscuro dell'esistenza, dello stare insieme degli uomini in società, dell'esistenza privata e di quella pubblica. Dobbiamo anche renderci conto che questa finestra non può trasformarsi in una proposta del negativo, come modello di vita. È qualche cosa che va conosciuto, ma che va anche controllato. Perché i miti irrazionali, di cui parlava il filmato, sono miti che hanno agito poi sul terreno fisico dell'umanità, sulla storia insomma, che hanno distrutto questo mondo in questo secolo. Quindi c'è anche un elemento pericoloso nell'uomo che il mito ci può servire a conoscere, ma anche a controllare. Ecco non si tratta di affidarsi alla negatività, alla distruzione, ma si tratta di tenerla il più possibile a distanza. Se noi siamo qui è perché resistiamo alla distruzione. Il mito ce la fa conoscere, ma non accettare.

STUDENTESSA: Gli scrittori moderni, quelli della beat generation, come Bukowsky o anche Kerouac, invece di proporre dei miti e quindi di affrontare questo tema, tendono più che altro ad esprimere una società dissacrata, la società nelle sue espressioni più tristi: questo è il periodo in cui si tende, più che a creare dei miti, a dissacrarli?

FERRONI: In realtà si fa di tutto, proprio perché la nostra cultura, la nostra comunicazione è piena di cose. Ci sono tutte le possibilità. Ci sono delle proposte di miti assolutamente irrazionali, incredibili, che sono più arcaici dei miti più arcaici. Pensate a certe tendenze mistiche che si sono diffuse, a certe sette, con dei riti che sono più arcaici dei miti più lontani. Da una parte nella nostra cultura c'è questo, dall'altra c'è la dissacrazione totale, la dissacrazione estrema che però può comportare anche la distruzione. La letteratura, naturalmente, si è affacciata sulla distruzione, ma non per proporsi come modello, perché tutto il mondo debba distruggersi domani. Erano esperienze individuali, come gli scrittori a cui Lei ha fatto riferimento: hanno sperimentato proprio la distruzione di ogni equilibrio. Però ecco quando noi li leggiamo e quando li trasformiamo in modelli, allora possiamo rischiare di farne dei miti. Ecco, credo che oggi la cosa pericolosa sia quella di mitizzare. La nostra società tende in qualche modo a mitizzare tutto quanto. La letteratura da un parte ci propone dei miti praticabili, dei miti che affondano sul senso dell'umano o del disumano, però la letteratura ci dissacra anche continuamente, smitizza. Non solo la letteratura, ma la cultura in genere, dall'Ottocento al Novecento, ma possiamo risalire prima ancora al Settecento, la cultura occidentale soprattutto, è stata una cultura di demistificazione, di smantellamento dei miti, perfino dei valori religiosi, delle tradizioni. Quindi noi oggi ci troviamo, e la letteratura ce ne dà testimonianza, in questo scarto continuo tra la proposta di nuovi miti, la creazione di modelli mitici, di narrazioni che affondano nell'immaginario più o meno razionale - da una parte questo-, e la continua contestazione di miti, delle tradizioni, di valori assestati, di equilibri di vita, proposta di modelli di comportamento distruttivo. C'è di tutto nella comunicazione contemporanea. Però quando noi risaliamo al mito antico, allora ci affacciamo su di un mondo completamente diverso. Mito, in fondo, è una di quelle parole che ha avuto infinite incarnazioni e viene usata in tutti i modi. Tra l'altro Voi usate molto l'aggettivo "mitico". Ecco, ecco, qualcuno mi può dire, ecco, che cosa rappresenta per voi l'uso di questo aggettivo? Quando si dice una "canzone mitica", "un personaggio è mitico". Tra gli oggetti che abbiamo presentato c'è un tricorno - un cappello settecentesco - che potete aver visto in tanti film di ambientazione settecentesca; vi siete domandati perché è stato messo qui? Io in realtà l'ho portato per alludere a un personaggio letteratura della modernità, un personaggio importante che è quello di Don Giovanni, che in realtà è di origine seicentesca, perché nasce per la prima volta in un'opera teatrale di uno scrittore spagnolo, Tirso de Molina, però diventato un modello proprio dell'immaginario europeo, attraverso sia la commedia di Molière, in anni più avanzati del Seicento, il Don Juan di Molière, sia attraverso l'opera di Mozart, con il libretto del musicista, poeta italiano Lorenzo da Ponte. Il cappello del tricorno per me rappresenta Don Giovanni. Ora Don Giovanni spesso viene indicato come un mito, quello di Don Giovanni, anche se non è un mito antico. Quando parliamo di miti, spesso pensiamo alle narrazioni, prima di tutto alla Grecia, alle narrazioni greche, ai modelli della narrativa greca, poi possiamo pensare ai miti antropologici più diversi. I miti moderni però sono anch'essi dei miti. Sono qualcosa di diverso dal mito antico, perché sono miti che sono nati probabilmente in un immaginario molto diffuso, anche con delle radici popolari e che poi la letteratura, in qualche modo, ha messo in scena o ha creato delle narrazioni, delle opere teatrali, partendo da quei miti. Ecco ci sono dei personaggi che sono protagonisti in questo senso, che si presentano in più commedie e dentro di sé sintetizzano dei valori, delle esperienze, particolarmente significative anche per la nostra vita di uomini comuni. Uno di questi è Don Giovanni, il simbolo dell'uomo alla caccia delle donne.

STUDENTE: Noi siamo testimoni della fine di un secolo caratterizzato da una parte da grandi crisi, e, dall'altra, dalla nascita di grandi miti proprio per far fronte a queste grosse crisi; miti molte volte negativi, come quello della razza, di una nazione superiore alle altre, o di grandi condottieri che hanno appunto portato o che volevano portare una nazione alla supremazia su altre nazioni. In questo momento mi sembra che grossi miti, come quelli appunto di metà secolo, non ce ne siano più. Questo, secondo Lei, è sinonimo di una maggiore maturità o forse di una perdita di quelli che erano i valori della nostra società?

FERRONI: È un problema che non riguarda la letteratura naturalmente, ma riguarda il mito in genere. Credo che comunque sia un bene che non esistano dei miti dominanti, perché i miti a cui Lei ha fatto riferimento sono stati dei miti collettivi, che hanno trascinato dietro dei modelli distruttivi, intere masse di uomini, che hanno prodotto distruzioni spesso tremende, hanno prodotto prima di tutto delle illusioni. Ecco, credo che il fatto che manchino dei miti dominanti sia, in fondo, un bene, è indice di una società che riesce a controllare meglio se stessa, il proprio equilibrio. Però ciò non significa che non ci sia una moltiplicazione di miti che allontanano in fondo ciascuno di noi dalla coscienza della propria esistenza, della propria vita. La pubblicità, per esempio, tanto per fare un riferimento, può essere anche qualche cosa a doppia faccia, insomma, qualche cosa di tremendamente pericoloso, come sono stati i miti in questo secolo, come sono stati i miti collettivi, che hanno trascinato dietro immagini della società e del mondo assolutamente non controllate razionalmente, hanno trascinato milioni di uomini spesso alla distruzione. Quindi credo che oggi il fatto che non ci siano dei miti collettivi forti, che trascinano masse di uomini, sia un fatto in fondo positivo. Viviamo in una società di relativo equilibrio. Nei nostri paesi avanzati, da tanto tempo c'è una situazione di pace. Quindi la mancanza di miti collettivi globali credo che sia un fatto positivo. Noi dovremmo andare verso una società demitizzata da questo punto di vista. Ecco, però c'è il fatto che poi si moltiplicano infiniti miti parziali, infiniti miti che portano ciascuno di noi lontano dalla coscienza della propria esperienza, dalla capacità di fruire e di godere totalmente delle proprie possibilità umane. Invece di pensare a ciò che vale veramente, che conta per noi, seguiamo un modello che viene imposto dalla pubblicità. Ci sono miti parziali di tutti i tipi, insomma. Un oggetto in vendita diventa più importante della conoscenza della propria esistenza. Ci sono tanti modelli di comunicazione che ci portano lontano da noi. Invece sarebbe utile e necessario che ciascuno di noi potesse essere in grado di costruire i propri rifiutando di imporli agli altri.

STUDENTESSA: Quindi Lei pensa che un mito proposto dai mass media sia più superficiale di un mito letterario. Allora quale potrebbe essere in questo periodo un mito proposto dalla letteratura, che è capace di suscitare tanto interesse e tanto seguito, quanto un mito offerto dalla televisione, per esempio, che è indubbiamente molto più facile e può raggiungere tutti quanti.

FERRONI: Non sono assolutamente in grado di dire quale potrebbe essere il mito proposto dalla letteratura, anche perché credo che siamo in una società molto smaliziata. Decidere a priori, poi, di imporre sulla scena un mito, che voglia essere equilibrato, razionale, credo che sia quasi impossibile

Credo che sarebbe importante prima di tutto saper dialogare con tutti gli aspetti del passato, saper dialogare con ciò che gli uomini sono stati e con le immaginazioni, i miti anche falsi, le finzioni che l'umanità ha costruito nel passato. Se noi sapessimo riconoscere tanti miti del passato, a partire dai miti greci per esempio, fino ai miti moderni, a cui abbiamo fatto riferimento prima, forse avremmo una ricchezza maggiore della nostra esistenza.

Non si tratta di chiedere dei miti nuovi, ma si tratta di trovare un modo, una capacità di dialogare con tutto ciò che l'umanità ha costruito nel passato. Ecco, se noi sapessimo recuperare il valore dei miti antichi, senza, in qualche modo, proporceli come a modello, che sarebbe impossibile, se noi sapessimo fare questo avremmo acquisito qualcosa di essenziale. Ma mi pare che invece tutta la comunicazione contemporanea ci propone continuamente miti sempre nuovi, che si consumano, che durano poco. Pensate alle stelle dello spettacolo, che in un certo momento, per pochi mesi, diventano dei modelli seguiti, imitati da tutti, e dopo qualche anno sono completamente dimenticati. Ecco siamo in una fase di costruzione di miti "usa e getta", che si buttano continuamente.

STUDENTE: Lei prima ha detto che il mito non deve essere collettivo, ossia non deve essere un mito di massa. Ma allora non può essere diffuso neanche dalla letteratura, perché qualora appunto la letteratura avesse una diffusione molto vasta, il mito diffuso da essa sarebbe appunto un mito collettivo.

FERRONI: Sì, perché in realtà ormai siamo in una era, in una società, in un mondo non mitico. Ecco io credo che di fronte al mito bisogna porsi in una posizione di conoscenza, di esperienza del mito del passato. Ma è chiaro che la società della tecnologia avanzata, dell'industria, non può più prendere un mito sul serio. Bisogna invece sapersi confrontare con i miti che hanno fatto l'esperienza dell'uomo, che si sono accumulati nella storia dell'uomo e che sono ancora vitalissimi, come può essere il mito di Don Giovanni, il mito di Edipo. Ecco il mito di Edipo insomma è diventato un cardine, un punto di riferimento per la cultura di questo secolo non perché ha costruito un nuovo mito, non perché la gente creda in quel mito come un'esperienza totale, ma perché è diventato un modo di conoscenza, attraverso l'uso che ne ha fatto Freud; che poi oggi magari viene contestato e smentito poi dalle acquisizioni delle scienze psicologiche più recenti, però l'uso che ne ha fatto Freud, con la questione del "complesso di Edipo", è diventato un mezzo di conoscenza, addirittura una metafora di un'altra cosa. Ecco, il mito per esempio ci può servire - il mito del passato e del passato più o meno recente -, per capire certi aspetti della realtà da un punto di vista simbolico. Un elemento molto importante quando si parla del mito è quello del rapporto tra mito e simbolo.

STUDENTE: Lei ha detto che non ci sono più miti forti. E questa è una cosa positiva, cioè non ci sono più miti di massa collettivi e ciò è positivo perché l'individuo adesso è più maturo, c'è quindi un pensiero più individuale. Ma non crede però che questa mancanza di miti ha portato alla creazione di un mito unico, che è per esempio il mito del progresso o il mito del guadagno, del denaro, che si è sostituito a tanti altri miti che potevano essere più immaginari, figurativi. Cioè io vedo che ancora adesso c'è il mito collettivo del fatto che il sistema economico-capitalistico e il consumismo sia l'unico sistema possibile per poter mandare il mondo avanti verso un progresso.

FERRONI: Lei ha posto il problema del rapporto, in termini generali si dovrebbe dire del rapporto tra mito e ideologie, mito e modi di comportamento, mito ed economia, addirittura. In realtà è vero, quello del progresso è anche un mito: l'idea che il progresso sia qualcosa che continua, che va avanti ininterrottamente, senza guardare le ferite che lascia intorno a sé. La società ottocentesca, per esempio, ha costruito gran parte di sé, proprio basandosi su questo mito. E uno degli autori che voi studiate a scuola, cioè Giacomo Leopardi, ha polemizzato molto presto contro "le magnifiche sorti e progressive", l'idea che appunto il genere umano fosse destinato ad un progresso all'infinito. Ecco, il bello è che certe cose, che sono collegate all'esperienza, alla vita quotidiana, all'economia, al fare dell'uomo sul mondo, all'agire, al trasformare la realtà naturale, queste cose paradossalmente diventano miti, proprio perché le società umane continuamente tendono a trasformare in qualche cosa di costante, di illusorio, in cui si crede fino in fondo, delle cose che invece sono collegate all'esperienza immediata. Ciascuno di noi in fondo si attacca a delle cose che lo fanno vivere. Quindi c'è una tendenza a mitizzare, che sembra probabilmente data dallo stesso radicarsi dell'uomo nel mondo, dai limiti poi naturali in cui viviamo. Noi siamo tutti esseri effimeri. La nostra vita è inevitabilmente provvisoria. Nelle società più antiche era molto più provvisoria della nostra di adesso, dove abbiamo una sicurezza di vita maggiore di quella che avevano le società fino a pochi decenni fa. Siamo esseri illusori, e quindi abbiamo bisogno di trovare delle sicurezze, dei punti di riferimento. Queste sicurezze possono diventare dei miti quando non le confrontiamo più con le reali condizioni del mondo. Quindi in fondo nell'uomo civilizzato più avanzato resta il residuo di un pensiero arcaico, che era appunto un pensiero mitico, che era un pensiero che procedeva per simboli, ma che ha fatto poi conoscere la realtà all'uomo. L'uomo ha cominciato così a conoscere la realtà, la natura, trasformando i fenomeni naturali in divinità, in dei. Per noi questo non è più credibile, però è stata una cosa determinante perché l'uomo uscisse da una condizione pre-logica. La logica, la razionalità è nata attraverso uno sviluppo del mito. Però tutto rischia di diventare mito: il problema è sempre quello di contemperare il bisogno di sicurezze e anche il bisogno di illusioni, che è importante nella vita di ciascuno, nell'immaginario di ogni uomo, e contemperare questo col confronto con la realtà.

STUDENTE: Lei ha detto che il mito in qualche modo va interpretato, ed è utile alla comprensione, per esempio in psicologia, di alcuni concetti base - vedi il complesso di Edipo - . Quindi secondo Lei il mito è soltanto utile alla comprensione da parte della ragione di alcuni concetti non mitologici, non mitici?

FERRONI: Il mito, del passato ed i più recenti, in fondo ci fanno affacciare su certi aspetti dell'esperienza umana, dell'esperienza psichica profonda, non sempre formalizzabile e definibile in una categoria come quella del "complesso di Edipo", ma qualche cosa di molto più oscuro e indefinito, miti che permettono di affacciarci anche sugli elementi più negativi.

E, in questo affacciarci su questi aspetti, noi in fondo ritroviamo una sorta di "risarcimento estetico", cioè in un certo momento ci sospendiamo dalla partecipazione immediata all'esistenza, alla nostra esperienza individuale, e comprendiamo cos'è l'umano. Tra l'altro, la psicoanalisi in questo secolo e gli sviluppi propri della psicoanalisi, soprattutto al di là di Freud, gli sviluppi di un grande allievo di Freud, Jung, la scuola Jungiana, ha insistito moltissimo sulla presenza dei miti, sul fondo dell'inconscio, ma non solo dell'inconscio individuale, ma dell'inconscio collettivo. Tanti studi importanti, sul mito, anche sul mito greco, poi sui miti di tutte le epoche, sono stati compiuti proprio nell'ambito della psicoanalisi Jungiana, perché attraverso i miti la psicoanalisi Jungiana ha pensato di riconoscere certi archetipi, cioè certe forme originarie nell'inconscio collettivo, che sono la base della vita proprio, dell'equilibrio psichico dell'intera umanità. Quindi questo è un fatto che ha sia un aspetto di conoscenza psichica e perfino di psicologia sociale, sia un fatto estetico. Ci sono bellissimi libri sui miti greci nell'ambito di una psicologia diciamo analitica, di tipo Jungiano.

Quindi tutti i grandi personaggi del mito del passato in fondo non fanno altro che farci ritrovare alcune forme essenziali proprio del rapporto dell'uomo col mondo, un rapporto che non si manifesta nel linguaggio razionale, ma che viene incarnato proprio da queste immagini.

Per esempio il mito dell'eroe fondatore, il mito del doppio, per esempio, che è un mito inquietante, che non è un mito greco preciso, ma ci sono i gemelli Castore e Polluce, e a partire da quel mito lì poi c'è stato tutto uno sviluppo nella cultura e nella letteratura di tutti i tempi della figura del doppio, che è una figura anche inquietante. Il gemello, il sosia, lo scambio di persona. La letteratura di tutti i tempi, il teatro, il cinema. Anche quanti film ci sono, anche vicini a noi, basati sul travestimento, la maschera, il personaggio maschio travestito da femmina e viceversa.

Tutta una serie di elementi, che ci fanno affacciare su certi aspetti dell'inconscio individuale e collettivo e che hanno la loro radice proprio nel mito. Per quanto riguarda il rapporto della nostra società col mito greco, del nostro mondo col mito, può essere interessante vedere in qual modo la grande cultura romantica tedesca, tra fine Settecento e primo Ottocento, è entrata in rapporto con la grecità e col mito greco. Per questo possiamo vedere qui un contributo del professor Xavier Tilliette.

Professore, ci può dire qualcosa sul ruolo che ha in Hölderlin l'amore della Grecia e soprattutto quello che viene chiamato l'Elogio degli dei, questa sua particolarissima religione?

TILLIETTE: Il fatto è che Hölderlin "vive e respira in un mondo di dei o in un popolo di dei", per parafrasare un celebre verso di Alfred de Musset. Gli dei in qualche modo sono, la mitologia è la stoffa o la materia stessa della maggior parte delle sue poesie. D'altronde nella sua esistenza personale ha sicuramente conosciuto una crisi religiosa, che lo ha allontanato dal Cristianesimo della sua infanzia e della sua giovinezza, che lo ha portato ad aderire ad una nostalgia dell'antichità o a una forma di sacralità naturale, caratterizzata dalla presenza o presenza-assenza degli dei antichi. Ma questa nuova mitologia, ancora assai incerta, è il verso o il rovescio di ciò che è stato chiamato "nostalgia della Grecia" nell'idealismo tedesco e di cui ci sono molti e diversi rappresentanti. Noi non abbiamo idea di che cosa abbia potuto essere questa presenza ellenica o presenza dell'Ellade nello spirito, nell'immaginazione degli scrittori tedeschi alla fine del XVIII secolo. Sia Wieland che Schiller, sia von Humboldt ma anche Schelling, Hegel e Hölderlin, primo fra tutti, sono innamorati di una Grecia che è insieme quella delle loro letture, col forte appoggio della filologia, e quella che essi ricreano, in qualche modo, come un paradiso perduto. Detto questo posso parlare meglio e più precisamente della crisi religiosa, che si intravede nella devozione di Hölderlin agli dei della Grecia.

STUDENTESSA: Lei pensa quindi che alla base di ognuno di noi magari ci sia il mito di un eroe fondatore come per esempio il mito di Crono che si mangia i figli, oppure il mito di Tantalo, che fa a pezzi suo figlio e lo cucina per ingannare gli dei. Perché, se è così, tutto sommato, possiamo ritrovare anche nel mito arcaico la parte cattiva, la parte malvagia, che poi è arrivata al mito del totalitarismo, al nazismo, e quindi alle varie manifestazioni della nostra epoca.

FERRONI: Non penso questo in modo preciso. Tra l'altro prima facevo riferimento proprio alla posizione della psicologia analitica junghiana, ma non è che mi identifico direttamente con questa posizione.

Le scuole diverse ci dicono cose diverse, ma certo al fondo del nostro essere ci sono tante cose che non conosciamo, ci sono tante pulsioni distruttive, negative, che occorre controllare, che soprattutto non bisogna ignorare, verso le quali il mito si è affacciato tante volte e ci dà la possibilità di conoscerle anche nel loro carattere estremo, distruttivo.

Ecco forse un'umanità cosciente di sé, una società equilibrata e, se possibile, felice, lo può essere solo se non ignora questo aspetto, questo baratro, nei confronti del quale l'uomo si è sempre affacciato, creando nei secoli distruzioni tremende.

C'è quindi un baratro verso cui l'umanità si affaccia e forse una conoscenza razionale del mito ci serve a vederlo, a controllarlo, perché se questo baratro si ignora, poi avanza e ci schiaccia. Quindi il mito ha la grande forza di farci vedere anche il negativo che l'umanità ha sentito sempre dentro di sé.

Ma non solo il negativo, anche gli aspetti positivi dell'esistenza, anche i momenti fondamentali dell'esperienza: l'amore, la morte, il dolore, l'eros, la natura, tutta una serie di elementi verso cui bisogna saper guardare e verso cui forse la nostra società, in cui si accumulano prodotti di questo tipo, ci fa guardare sempre di meno.

 

STUDENTESSA: Dov'è - se c'è - il punto di contatto fra i miti che ci propongono le diverse letterature. Sappiamo per esempio che un mito che viene proposto dalla letteratura russa è totalmente opposto a quello proposto dalla letteratura spagnola. Quest'ultima, infatti, utilizza miti che sono più magici, che vanno in contrasto totalmente con quelli più "realistici" della letteratura russa. Esiste un punto di contatto tanto da proporre un mito collettivo a tutti quanti?

FERRONI: Ma la letteratura naturalmente attinge le sue storie, le sue narrazioni, i suoi motivi mitici da fondi originari che spesso derivano da narrazioni popolari, da miti e riti locali, insomma. Ora tutte le letterature moderne in fondo sono arrivate ad una circolazione globale. Ormai non si può più parlare nemmeno di una letteratura nazionale, ma andiamo verso una letteratura mondiale, in cui tutte le grandi forme comunicano tra loro. Però poi se risaliamo indietro troviamo esperienze tanto diverse. In Europa tra l'altro c'è stato uno scambio sempre fortissimo tra elementi mitici delle diverse letterature. Certo si possono individuare caratteri specifici, storie particolari che si sono sviluppate in un certo contesto, ma ci sono appunto dei grandi modelli mitici, che si sono scambiati continuamente da una letteratura all'altra. Del resto tutte le letterature europee del Rinascimento si sono rifatte sempre all'antichità classica in modi particolari. E c'è tutto il grande serbatoio del mito ebraico e cristiano. Insomma pure quello è circolato in tutte le culture europee. E poi ci sono i nuovi miti, che qualcuno poi ha chiamato "miti del moderno", miti della modernità, che sono sorti poi, man mano, nei vari secoli. Uno di questi è quello di Don Giovanni che è internazionale, perché nasce in Spagna, poi in Francia, Molière, poi con Mozart che è un po' Italia, perché il libretto è in italiano, e un po' Austria, nonostante Don Giovanni sia di Siviglia, e tutto si svolga in Spagna, però è un mito assolutamente internazionale. Quindi c'è uno scambio continuo tra gli elementi mitici, all'interno di una cultura, che tutti quanti speriamo sia sempre più mondiale. Noi anzi abbiamo bisogno oggi di confrontarci sempre più anche con i miti che vengono da fuori l'Europa, con culture, tradizioni, mondi, che conosciamo troppo poco.

STUDENTESSA: Si può parlare di miti che nascono proprio dal popolo, dalla sezione popolare?

FERRONI: Questo era la grande prospettiva dei romantici, che insistito su questo fondamento popolare del mito, e non a caso, polemizzando contro l'uso nella letteratura moderna dei miti classici, hanno invece cercato di affacciarsi verso le particolari mitologie sorte all'origine dei diversi popoli europei, quindi le mitologie Nibelunghi, poi in Francia, tutte le narrazioni legate all'epoca carolingia, e la Tavola Rotonda, Re Artù. Ecco, tutta una riscoperta di miti, probabilmente nati, non si sa proprio certo, se a livello popolare, ma comunque in un cultura precedente alla scrittura, in una cultura orale. Però ci sono poi i miti del moderno: abbiamo preso come esempio Don Giovanni, possiamo prendere un altro grande mito che si è affacciato nel filmato all'inizio: è quello di Faust, un mito le cui prime attestazioni risalgono al Cinquecento, che però ha dato poi la grande opera di Goethe solo all'inizio dell'Ottocento. Ecco quelli sono miti che si potrebbero definire "miti del moderno", perché nati forse in una struttura popolare precedente, poi ci parlano del presente.

STUDENTESSA: Il fatto che non esista un mito eterno, ma che i miti cambiano continuamente, sempre più spesso, vuol dire che la società evolvendosi si pone domande diverse e quindi cerca dei modelli diversi, oppure vuol dire che si cercano sempre nuovi miti perché magari i precedenti non hanno funzionato nel senso che non hanno risposto veramente alle esigenze dell'uomo?

FERRONI: Ma in realtà c'è un intreccio continuo, perché i miti rispondono ad alcune esigenze, ma nulla soddisfa poi le esigenze. Si cerca sempre qualche cosa di nuovo. E quindi i miti cambiano, però anche persistono. Una cosa interessante da studiare sono proprio le trasformazioni, insomma i miti di lunga durata. Pensate il mito di Edipo, appunto, per prendere quello su cui già si è insistito. Da prima di Sofocle fino alla modernità, il film di Pasolini può essere un esempio, ha avuto infinite variazioni. Ci sono dei miti su cui è sempre necessario tornare, cambiandoli. Il mito sollecita delle varianti insomma. E ci sono libri lunghissimi sulla storia di singoli miti, sulla presenza dei miti nelle diverse letterature. Tutti i grandi personaggi dell'immaginario europeo e mondiale hanno avuto una lunga storia.

STUDENTE: Abbiamo detto che il mito non deve essere collettivo. Però se il mito investiga su qualcosa di strutturale dell'uomo, per esempio sulla psicologia interiore, o su alcuni aspetti importanti dell'uomo, che siano strutturali dell'essere umano stesso, come si può dire che la mitologia non sia generalizzabile e che non si debba poi diffondere su una massa di persone più vasta di quanto non sia l'individuo?

FERRONI: In realtà noi abbiamo parlato di punti di vista diversi, quando abbiamo usato il termine mito, perché Lei le cose a cui ha fatto riferimento adesso riguardano appunto i miti dell'immaginario collettivo, quelli che si sono elaborati lungo il passato, quelli che vengono chiamati "archetipi" e che quindi ipoteticamente dovrebbero riguardare tutta l'umanità, anche se non è detto che ci possano essere dei popoli lontani, che non abbiano mai comunicato con queste esperienze, a cui quei miti non dicano nulla.

Però ecco, anche gli antropologi sembrano individuare invece una costanza continua negli elementi mitici, Anche se i contenuti sono diversi, le strutture - e il grande Lévy-Strauss ha insistito su questo -, le strutture su cui i miti si costruiscono sono sempre simili in tutta l'umanità. Quindi il mito riguarda tutta l'umanità possibile del passato e del presente.

Però poi abbiamo parlato di miti collettivi, in quanto miti costruiti, che regolano il comportamento e su cui le società si muovono. Allora quelli là sono pericolosi. I miti che riguardano tutti sono quelli che si affacciano, in fondo, nell'interiorità individuale e sociale, che ci svelano gli aspetti profondi della psiche individuale e della psiche dell'uomo in genere. Ma, invece, i miti che si propongono come modello, che propongono un ideale da raggiungere, un ideale illusorio, spesso fittizio, che magari procurano distruzioni per raggiungere quell'ideale, allora quei miti là credo che siano un po' pericolosi e nei confronti di essi bisogna avere molta esitazione e tenere soprattutto gli occhi aperti. In fondo il dialogo col mito del passato credo che ci insegni anche a tenere gli occhi aperti sui falsi miti che possono essere proposti nel presente.