Sul limite

 


Enrico Medda

STUDENTE: A proposito dell'uomo che sfida il proprio destino e lotta contro le leggi divine, avevamo pensato al romanzo di Mary Shelley, Frankenstein, dove il protagonista vuole in qualche modo creare una creatura immortale, quindi donare la vita eterna all’uomo, quasi come Prometeo gli donò il fuoco. E mi chiedevo: è possibile che il fatto che la creatura poi diventi un mostro assassino, sia dovuto ad una sorta di ubris del protagonista? E che analogie ci sono con la tragedia di cui stiamo parlando?

MEDDA: Nella vicenda del romanzo c'è fortemente questo senso del superamento di un limite. E se c'è stata una cultura che ha avuto proprio il senso di un limite che incombe sopra i mortali questa sicuramente è la cultura greca, che ha elaborato il concetto di ubris, del superamento dei limiti posti ai mortali in quanto mortali, non al singolo in quanto personalità, ma ai mortali. E dobbiamo dire che le vicende narrate nei testi antichi, nel teatro antico, ma anche in tante altre forme di arte antica hanno proprio riproposto continuamente questo problema, di qual è il limite che l'uomo deve porsi per non incorrere nell’ira e nella punizione della divinità. La conflittualità è sorta - e quindi anche la possibilità che ha generato poi queste meravigliose opere, che ci sono arrivate dall’antichità - nel momento in cui all'idea di questo limite che incombe sugli uomini, si è sovrapposta quella del perché gli dei vogliono mantenere questo limite, perché gli dei puniscono gli uomini.

Alcuni autori greci hanno risposto con grande coraggio, affermando che "gli dei sono invidiosi", cioè hanno sganciato gli dei dal concetto di giustizia. Altri invece hanno compiuto un immenso sforzo - e tra questi c'è Eschilo - per dire che in realtà questo agire degli dei ha un senso: mantenere gli uomini entro certi limiti per il loro bene. E poi invece ci sono stati autori come Sofocle, in parte anche Euripide, che di fronte l’insondabilità del problema, hanno rivolto il loro sguardo in basso, hanno guardato gli uomini e la loro sofferenza. E questo è stata la loro grandezza di poeti, la loro grandezza di uomini di teatro, e forse anche la ragione per cui le loro opere ci sono ancora cosi vicine; per cui noi oggi, leggendo Sofocle ed Euripide, ci ritroviamo tanto coinvolti nello sconforto e nella solitudine dell’uomo di fronte alle forze che gli stanno sopra, veramente partecipi dello sgomento che quegli antichi autori hanno provato riflettendo sulle loro divinità.