Va curata, prima di tutto
Domenica 17 Marzo 2002

di LUIGI CANCRINI

C’è un elemento di contraddizione forte, a mio avviso, fra l’interpretazione che il Gip ha dato dei fatti di Cogne e la decisione di portare in carcere la madre del piccolo Samuele. Quello che sembra chiaro leggendo l’ordinanza, infatti, è che il delitto sarebbe stato commesso, secondo la Procura e secondo il Gip, da una persona che stava male. Il giudice non può sapere, ad oggi, se Anna Maria ricorda o no quello che è accaduto. L’idea che questo reato debba essere spiegato sulla base di un ragionamento psichiatrico risulterebbe evidente tuttavia per la totale assurdità del suo verificarsi, per l’impossibilità di far riferimento a un movente riconoscibile, per l’insieme delle reazioni che si sono avute nelle ore e nei giorni successivi alla morte di Samuele.

Se le cose stessero così e se il problema con cui ci dobbiamo confrontare fosse davvero di ordine psichiatrico l’idea di incarcerare la madre di Samuele non sembrerebbe molto ragionevole. Quella di cui ci sarebbe bisogno è, infatti, un’assistenza qualificata dal punto di vista psicologico e psichiatrico. Ammettiamo per un attimo che Anna Maria Lorenzi non sia colpevole, come lei sostiene e come sostengono le persone che fino a oggi le sono state vicine. Incarcerarla, costringendola a una solitudine disperata e disperante sarebbe un atto davvero grave. Denso di conseguenze imponderabili. Se fosse colpevole, invece, e avesse rimosso ciò che le è accaduto di fare in uno stato di coscienza alterato, come molti pensano e come anch’io oggi penso, quello che potrebbe verificarsi dopo l’allontanamento da casa è un confronto progressivamente più difficile da evitare con la realtà che si porta dentro. Quello che potrebbe emergere, se le cose stessero così, è un dolore rapidamente insostenibile che porterebbe dei pericoli gravi e che chiederebbe un sostegno continuo, un non lasciarla sola neppure per un attimo. Se la colpa si collegasse infine (terza e ultima possibilità, quella che qualcuno comincia a proporre oggi) a un disturbo di personalità molto grave a delle tendenze sadiche e a una patologia quasi delirante del senso morale, un aiuto fondamentale verrebbe a lei e all’indagine proprio da una valutazione specialistica. Quella che lo psichiatra non potrebbe mai fare in carcere.

Tutto questo per spiegare perché a mio avviso, innocente o colpevole, Anna Maria Lorenzi non deve stare in un carcere. Allontanarla dalla famiglia è stato giusto, probabilmente, se i sospetti sono, come sembra, fondati perché la famiglia non è il luogo adatto a proteggerla da se stessa, perché c’è un altro bambino da proteggere e perché la vicinanza di chi sta troppo dalla sua parte non può aiutarla a capire e a elaborare quello che realmente le è accaduto. Gli arresti domiciliari presso una struttura protetta, comunità o clinica, scelta sulla base di una decisione concordata con i suoi difensori, avrebbero costituito e potrebbero comunque costituire domani, se i familiari e i difensori lo proporranno, la soluzione più ragionevole per quella che resterà comunque ancora per giorni, settimane o mesi, una situazione di estrema difficoltà. Innocente o colpevole, ho detto. E innocente anche Anna Maria Lorenzi come tutti ha diritto a essere considerata, aggiungo, fino a quando la giustizia non avrà terminato i suoi riti processuali. In ogni caso, come tutti i cittadini di questo Paese, Anna Maria Lorenzi ha diritto a essere aiutata come deve essere aiutata una madre che ha perso, in circostanze tragiche, un bambino teneramente amato. Ha diritto a un’assistenza seria perché il processo potrebbe concludersi con una sentenza di non colpevolezza. Avrebbe diritto ugualmente a un’assistenza seria se il tempo e i processi dovessero confermare, però, quella che è oggi solo la convinzione meditata di un gruppo di giudici. Delitti come questo sono direttamente e inevitabilmente da collegare, infatti, a un disturbo che li precede e li spiega.

Nel dibattito che si sta aprendo un po’ dappertutto, innocentisti e colpevolisti dovrebbero concordare oggi almeno su un punto. Quello che riguarda la necessità di costruire uno spazio terapeutico capace di accogliere e di contenere il dolore, le parole, il racconto della madre di Samuele. Uno spazio terapeutico che per essere tale deve mantenersi privato. Uno spazio terapeutico che per mantenersi tale deve essere difeso con forza dai giornalisti e dai curiosi. Uno spazio terapeutico che per essere tale non può essere organizzato all’interno di una struttura carceraria. Solo questa, mi pare, è la strada su cui ci possiamo muovere oggi, indipendentemente dalle opinioni che abbiamo sulla conclusione del percorso giudiziario e umano di questo caso, se vogliamo mantenere vivo il rispetto dei diritti fondamentali della persona.