Un detenuto in
        cattedra, all’Università La Sapienza di Roma, davanti a 200 studenti
        appassionati, che dalla sua "lezione" hanno imparato molto.
        Soprattutto, a non pensare che la vita finisca dietro le sbarre.
        La
        "moda" del far tenere una lezione da chi, con l’università,
        non c’entra niente, è un’abitudine stimolante, che spesso arriva
        anche sulle cronache dei giornali. Ci sono stati Dario Fo, Giorgio Gaber
        e Jannacci, in cattedra. Ci sono andati il Gabibbo e il trio Aldo,
        Giovanni e Giacomo.
        In genere, le speciali lezioni vanno così: ressa di
        studenti (per curiosità), un paio di orette trascorse in allegria, dove
        chi sta in cattedra si esibisce in una performance diversa
        soltanto perché si è svolta in orari e luoghi non convenzionali,
        applausi finali, richiesta di autografo, ritorno a casa. Con la
        sensazione – per gli studenti – di aver trascorso un pomeriggio al
        cinema, al teatro, o al cabaret. Unita alla nettissima percezione di
        aver saltato a piè pari una lezione normalmente, mediamente, soavemente
        noiosa.
        
        Pietro Rossi, il detenuto in
        cattedra alla Sapienza, durante l’incontro voluto
        dal professor Carlo Serra e dal direttore di Regina Coeli, Mauro
        Mariani. 
        La lezione di cui parliamo qui, invece, è stata molto
        diversa. Siamo certi che non sia stata banale o improduttiva, perché
        non si è conclusa con la richiesta d’autografo e lo spensierato
        ritorno a casa.
        "Frammenti di vita dietro le sbarre di un
        carcere" era il titolo del seminario di criminologia al quale hanno
        partecipato almeno 200 studenti, il direttore del carcere di Regina
        Coeli, Mauro Mariani e un detenuto, Pietro Rossi, 36 anni, una condanna
        a un ergastolo più 20 anni, uscito per la prima volta in permesso
        speciale dalla Casa di reclusione di Rebibbia per poter tenere questa
        speciale lezione.
        L’idea è venuta al professor Carlo Serra, docente
        di Criminologia presso le Facoltà di Psicologia, Giurisprudenza e
        Sociologia dell’Università La Sapienza di Roma, criminologo e
        psicologo (è stato il primo psicologo penitenziario in Italia), un
        appassionato studioso che si occupa di ricerca nel campo della
        risocializzazione dei detenuti, ed è fra gli animatori in Italia della
        Psicologia giuridica, nei settori civile e penale.
        
        Il professor Carlo Serra (a
        sinistra) e il direttore di Regina Coeli, Mauro Mariani (a destra).
        Serra aveva già costruito un appuntamento simile, lo
        scorso dicembre, portando in cattedra Mario S. (l’anonimato è d’obbligo),
        ex rapinatore da poco in libertà, che aveva affascinato la platea di
        studenti con i suoi racconti di vita e di galera.
        La singolare lezione era talmente piaciuta che gli
        studenti avevano richiesto di poter avere un bis. E non perché ci si
        diverta o si rida, assistendo a una lezione del genere, e neppure
        perché un detenuto possa insegnare qualcosa al mondo che il mondo già
        non conosca; ma perché solo attraverso la reciproca conoscenza può
        succedere che cadano i pregiudizi, si rifletta su sé stessi e sul male,
        e si capisca che ogni uomo (qualunque uomo, anche chi ha sbagliato) ha
        almeno una verità da consegnarci.
        «Che cosa può insegnare un detenuto al mondo? Niente».
        Ha esordito così, Pietro. E con l’entusiasmo affannato che hanno i
        detenuti che escono per la prima volta, e per di più parlano in
        pubblico, ha lanciato il suo messaggio: «Solo attraverso il lavoro un
        uomo può continuare a vivere. Lavoro fisico e lavoro dell’anima».
        
          
          
            
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              | Alcuni
                momenti della lezione. | 
          
          
         
        Si è fatto un gran silenzio, un silenzio ancora più
        attento. Gli studenti (per lo più studentesse, carine e interessate)
        non si perdevano una sillaba. Pietro ha continuato: «Il lavoro è
        importantissimo, è tutto: il lavoro è il contrario del carcere, che
        produce ozio e malattia, sì, malattia dello spirito. Vedete, di noi, di
        noi detenuti, di noi che siamo dentro, circola un’idea molto
        sbagliata. Persino i nostri familiari non ci conoscono fino in fondo...
        Ci sono pensieri che sono dati per scontati e non corrispondono sempre a
        quello che siamo. Io sono stato condannato a un ergastolo e 20 anni. Se
        penso a questa infinità di tempo, mi sembra di impazzire. In carcere si
        rischia di perdere la dignità, perché non ci sono prospettive, si sta
        stretti fisicamente – una branda e una turca – in quattro, cinque,
        sette in una cella; ma anche mentalmente, perché non si fa niente dalla
        mattina alla sera».
        
        
        «Se costruisci qualcosa sopravvivi alla pena»
        
        «Così nasce un pensiero malato, infermo. Il carcere
        è malattia, è infermità. Se attraverso il lavoro ti rendi libero, se
        costruisci qualcosa, sopravvivi alla pena. E poi un giorno, magari esci
        di prigione. E non è detto che in quel momento finiscano i problemi.
        Senza polemiche per le giuste pene, voglio dire questo: la società non
        è pronta a riceverci, non è vero che una volta pagato il proprio
        debito (debito che è sacrosanto pagare, sia chiaro), il debito sia –
        alla fine – doverosamente rimesso. E si possa ricominciare a vivere.
        Quando ti presenti, in qualsiasi posto, tu sei sempre un ex detenuto, e
        di un ex detenuto non ci si può fidare...».
        Chissà se Pietro sapeva di citare il Conrad di Cuore
        di tenebra, quando ha detto, più o meno: «Amo nel lavoro la
        possibilità di trovare sé stessi». Chissà se capiva di trasmettere
        vita quando, tirando fuori dalla tasca un malloppo di carte, ha
        cominciato a elencare le tante attività del Circolo Albatros-Arci
        (presso la Casa di reclusione di Rebibbia, Via Bartolo Longo 72 - 00156
        Roma) di cui è presidente. Accanto alle iniziative più
        "tradizionali" di scambio tra carcere e società (partite di
        calcio, spettacoli teatrali, Telerebibbia, una sala regia televisiva
        finalizzata alla formazione professionale dei detenuti e all’occupazione
        del tempo libero, ma anche realizzazione di trasmissioni diffuse nell’area
        del Lazio), Pietro ha centrato il discorso su un’iniziativa che
        prevede addirittura che i figli degli agenti di Polizia penitenziaria
        frequentino dei corsi di formazione (informatica) in cui gli insegnanti
        sono i detenuti della Cooperativa Artemisia, creata un paio di anni fa,
        che ha vinto un appalto bandito dal Comune di Roma. «Fidandosi», ha
        detto, «fidandosi, proprio di noi, per imparare qualcosa».
        
        
        «Dateci la possibilità di ricominciare»
        
        «Bisogna prendere le occasioni sottobraccio, per
        essere vivi», ha concluso prima di assistere, lui, professore per un
        giorno, insieme agli studenti, al film realizzato dai detenuti di San
        Vittore, Campo corto, e al filmato, realizzato nel carcere
        milanese, di un incontro avvenuto tra i detenuti e Luciano Paolucci,
        papà di Lorenzo, tragicamente violentato e ucciso da Luigi Chiatti a
        Foligno (ne abbiamo parlato in FC 9, del 1999).
        «Molti di noi hanno sbagliato, è vero, ma il carcere
        non serve a niente. Al massimo peggiora. Una persona accumula rabbia, si
        sente espulso, emarginato, lontano. Si sente solo. E la cosa peggiore è
        che questo groviglio di brutte sensazioni, se uno non ha la possibilità
        di farsele passare "dentro", le porta anche fuori, una volta
        uscito. Sarà sempre rabbioso e solo, sempre oltre i confini. Dateci la
        possibilità di parlare con voi, fateci capire che anche noi possiamo
        essere utili, che il nostro lavoro può servire a qualcosa, che possiamo
        ricominciare. Ecco, questo vorremmo: poter ricominciare, poter sperare
        che ci vogliate ancora con voi. Vogliamo sperare. Non siamo mostri,
        anche se abbiamo sbagliato. Abbiamo voglia di vivere».
        
        Pietro Rossi durante il suo
        intervento all’università romana.
        Il bello (e il difficile) della lezione è stato
        proprio questo: trovare un po’ di vita dove sembrano esserci solo
        morte e violenza, un po’ di fiori dove sembra esserci solo male (per
        dirla con Baudelaire), un po’ di diamanti nel letame (per dirla con De
        André). A giudicare dalla voglia che avevano gli studenti di stringere
        la mano a Pietro Rossi (200 strette di mano, una per una) e a chi questi
        incontri favorisce (un professore intelligente, un direttore di carcere
        illuminato, operatori, più o meno volontari, che hanno contribuito all’evento),
        si sarebbe detto che occasioni come quelle della "lezione"
        andrebbero ripetute. Perché è importante – per tutti – trovare la
        vita, o i suoi frammenti, anche dietro le sbarre di un carcere.
        
        Emilia Patruno