Contea

 

Franco Bomprezzi

"Ciò che ci auguriamo nelle nostre sventure
è che gli altri siano infelici come noi:
non di più, soltanto come noi.
Perché non dobbiamo lasciarci trarre in inganno:
la sola uguaglianza di cui ci importi, e anche la sola
di cui siamo capaci, è l'uguaglianza nell'inferno".

Emile Cioran


1. La prigione

Dalla sua finestra si scorgeva sullo sfondo il viadotto della superstrada, con il suo fluire indistinto e metodico di macchine, pullman e Tir. Un tiro di schioppo, si sarebbe detto nel buon tempo antico. E invece no, quel viadotto brulicante di vita normale era in un altro mondo, in un altro paese, in un'altra dimensione.
Paolo spostò lo sguardo un po' più indietro, come per scrollarsi di dosso quell'ansia di libertà che ogni volta lo attraversava e lo riempiva, quando scrutava l'orizzonte più lontano. Era meglio tornare rapidamente alla realtà. Per quanto dolorosa essa fosse. Un fossato, come nel Medioevo, colmo d'acqua che scorreva pigramente creando qua e là piccoli gorghi. E, subito a ridosso, le alte, impervie mura della cittadella. Fino a qualche decennio prima, erano in stato di completo abbandono, quasi dei ruderi, che solo qualche associazione di temerari avrebbe voluto che fossero meglio tutelate. Adesso invece, dopo la rivoluzione, erano tornate a rifulgere, splendide, possenti, inquietanti.
Paolo, dal suo piccolo osservatorio, ne vedeva un tratto abbastanza breve, non più di duecento metri.
Era quello il confine, il limes, della Contea della Sacra Ruota. Una contea piccolissima, pochi ettari di territorio, ma inaccessibile e inattaccabile. Del resto, chi mai avrebbe voluto impelagarsi in un conflitto con questo insignificante staterello, uno dei cento sorti dopo la disintegrazione della Prima Repubblica? Era poco più di un borgo murato, nel cuore della Bassa padana. Un'enclave, insomma, che non dava soverchio fastidio ai Signori di Milano, padroni incontrastati dalle Alpi fino al Po, eppure disposti a far sopravvivere queste piccole realtà indipendenti, proprio per dimostrare il loro federalismo autentico, nel solco della migliore tradizione degli antichi Comuni. E poi la verità era un'altra. La Contea della Sacra Ruota era preferibile, assai preferibile, che venisse lasciata a se stessa. Era un caso imbarazzante, strampalato, unico nel suo genere. Si sentivano strani racconti, al di fuori dei suoi confini. Storie incredibili, di handicappati al potere, di carrozzine obbligatorie, di scale abolite ovunque. Era come un foruncolo, un bubbone pericoloso e inquietante. Meglio per tutti ignorarlo, cancellarlo dalle carte di regime, aggirarlo d'un balzo con le libere e veloci Autostrade del Nord.
Paolo sapeva bene che cosa si celasse dietro quelle mura impenetrabili. Emise un lungo sospiro. Osservò la ronda in sidecar elettrico che sfrecciava sul camminamento, apparendo e scomparendo fra le merlature, come in singoli fotogrammi di una sequenza di scatti ravvicinati. Nessuno poteva entrare a piedi, dentro quelle mura. E tantomeno uscirne. Paolo proseguì la sua passeggiata con gli occhi: sporgendosi un po' dalla piccola finestra all'ottavo piano poteva scorgere le viuzze del centro di Sacra Ruota: ordinate e lisce, scorrevoli come biliardi, prive di marciapiedi, si congiungevano a raggiera nella piazza centrale, che da lì, però, si poteva solo intuire per simmetria. Ogni tanto una carrozzina elettronica rompeva il silenzio con il caratteristico ronzio. Qualche anziano, la povera gente, si muoveva invece a mano, spingendo, con ritmo dolente e cadenzato, le ruote di vecchi modelli di carrozzine della mutua, scolorite e rappezzate, ma ancora utilizzabili, in quei tempi di vacche magre.
Paolo provò ad alzarsi dalla carrozzina sulla quale era costretto da qualche ora. Ma con il capo colpì subito il soffitto. Un rumore secco, immediato. Abituale. Ancora una volta se ne era dimenticato. Il soffitto era lì, a un metro e mezzo dal pavimento. Non c'era verso di alzarsi in piedi. Aveva provato in tutti i modi, naturalmente di nascosto, perché era severamente proibito camminare. Prima aveva cercato di muoversi carponi, con le ginocchia piegate, poggiando sui talloni, e raddrizzando almeno la schiena. Ma era una postura scomodissima, innaturale e terribilmente faticosa. Dopo pochi passi era costretto a rinunciare e a sedersi nuovamente in carrozzina. Poi aveva tentato di tenere le gambe diritte, o appena arcuate, e la schiena curva, piegata in avanti. Ma anche così l'incedere era goffo, impacciato, ai limiti del ridicolo. E poi la stanza era corta, oltre che bassa. Tanto valeva rassegnarsi, tornare in carrozzina, armeggiare con le pedane, sbloccare i freni, regolare l'altezza delle spondine. Insomma: riabilitarsi.
Paolo non era brutto, né deforme, almeno secondo i canoni di una volta. Anzi, alto un metro e novanta, biondo, con gli occhi azzurri, muscolatura guizzante ed elastica. A trent'anni poteva considerarsi un atleta nel pieno del vigore. Ma la sorte volle che cadesse in un'imboscata di Handicap Power, nel lungo inverno della rivolta dei Ruotanti. Lo catturarono con uno stratagemma astuto, attirandolo su una scala mobile ancora non smantellata dal Dipartimento Guerra alle Barriere Architettoniche. Paolo era una guardia di confine dei Signori di Milano. Ebbe la pessima idea di curiosare un po' nella Contea della Sacra Ruota, infilandosi di nascosto in un pullman di non vedenti in visita ufficiale. Ma era stato scoperto subito. Si era tradito da sciocco: "Attento al gradino", aveva gridato a un cieco allontanatosi dalla strada principale, e subito la Ronda carrozzata lo aveva circondato. Una breve fuga, e poi quel maledetto inganno, una scala mobile che sembrava l'unico posto inaccessibile ai carrozzati. Uno sporco trucco, ecco cosa era. Una volta messo piede sul primo gradino, la scala, che pareva conducesse direttamente, per un varco nelle mura, al fossato esterno, si trasformò per incanto in uno scivolo inclinato e viscido, un tapis roulant, che lo inghiottì, facendolo rotolare senza più appigli né ritegno, in fondo ad una botola, che si apriva su una specie di segreta, priva di porte e finestre.
Così lo avevano gabbato. Quando si era ripreso dallo choc e dalla sorpresa, era ormai troppo tardi. La sua vita era cambiata. Era diventato il primo normodotato da riabilitare secondo le leggi magnifiche della Contea della Sacra Ruota. Era, insomma, un esperimento scientifico. D'importanza strategica per il regime.

 

2. L'incontro

Un ronzio. Un clic. La serratura elettronica si era aperta. La porta scorrevole rientrò nella parete quel tanto che consentì a Francesca di entrare, azionando con la destra il joy-stick della carrozzina elettrica e impugnando nella sinistra l'addormentatore d'ordinanza, una specie di revolver caricato a siringhe di anestetico. Paolo assunse subito l'aria del martire, del prigioniero politico. Zigomi induriti, braccia conserte, finse di ignorare il suo arrivo, volgendo nuovamente il capo verso la finestra.
- Come va questa mattina, abbiamo fatto la ginnastica respiratoria? - chiese Francesca fermandosi in mezzo alla stanza e azionando, con il telecomando incastonato sul bracciolo, il dispositivo di chiusura della porta.
Paolo si voltò con studiata lentezza, facendo attenzione a non tradire alcuna vibrazione. Eppure la ragazza lo aveva turbato fin dal primo incontro. Bionda, esile, ma slanciata, sedeva in carrozzina come un'indossatrice. Con naturalezza accavallava le splendide gambe affusolate, come se da un momento all'altro potesse sciogliersi da quella posizione che faceva intravvedere due cosce perfettamente tornite, e appena coperte da una gonna incredibilmente corta, per avviare un movimento capace di portarla, in un istante, a balzare in piedi. E invece Francesca non fingeva. Per accavallare le gambe doveva aiutarsi ogni volta con le braccia, infilando la mano sinistra con svelta noncuranza nell'incavo del ginocchio destro. Un gesto automatico, femminile, studiato e ripetuto all'infinito, ma pur sempre un gesto artefatto, costruito nel cervello per dare una parvenza di vita e di movimento a due gambe che non rispondevano più ai comandi neurologici da quando un incidente, sulla Libera Autostrada del Lombardo-Veneto, le aveva spezzato la spina dorsale, dieci anni prima.
Paraplegica, era stata la sentenza dei medici. "No, sirena per sempre", aveva deciso lei, ancora adolescente, aggrappata alla vita con la forza dei suoi tredici anni che nessun trauma avrebbe potuto recidere. E adesso era lì, guardiana scelta della Contea, a controllare la riabilitazione di Paolo, il ragazzo dagli occhi azzurri e dal sorriso di ghiaccio, che non voleva saperne di non camminare più. Era già un mese che lei, ogni mattina, entrava nella stanza cercando di mantenere un'aria professionale e severa. Quella insomma che si addice a un carceriere, sia pure di un carcere-modello.
- Allora. Ti ho fatto una domanda - ripeté Francesca.
- Ginnastica respiratoria? Ma è ridicolo. Non sono mica malato - sussurrò Paolo.
- Ti sbagli. Certo che non sei malato. Sei semplicemente seduto tutto il giorno in carrozzina. E allora ti devi abituare. Devi capire che dieci minuti di respirazione al mattino sono indispensabili per assicurare al tuo organismo la giusta irrorazione e per mantenere una adeguata ventilazione dei polmoni e delle vie aeree - ripeté meccanicamente Francesca, consapevole dell'assurdità di una lezioncina mandata a memoria, surreale e ridicola in un caso come questo.
- Ma insomma, basterebbe che voi mi lasciaste uscire di qui con le mie gambe. Non ne posso più. Che cosa vi ho fatto? Che cosa vuoi da me? Perché non mi lasci in pace? - Paolo era teso, pallido. Non voleva ferire Francesca. Capiva che lei stava solo facendo il suo dovere. L'avevano istruita a puntino. Anche se lei non riusciva ancora a capire il senso di un'insistenza così maniacale e assurda. Congiunse le mani e intrecciò le dita. Poi guardò Francesca, cercando di assumere un'espressione amichevole.
- Insomma. Si può sapere perché fate tutto questo? - sospirò.
Francesca tacque. Non resse lo sguardo. Cercò dentro di sé l'energia per rispondere in modo appropriato. Anche se avrebbe voluto confessare che non approvava del tutto questa barbarie. Poi inspirò profondamente, si ravviò i capelli che le erano scivolati sulla fronte, piegò leggermente il capo.
- Paolo, sai benissimo perché sei qui. Noi siamo convinti che l'unico modo per evitare che in futuro si ripetano discriminazioni fra sani e handicappati è quello di porre tutti sullo stesso piano. Naturalmente il nostro. Quello più basso. Ma tu, purtroppo, non puoi e non vuoi capire... - .
E invece Paolo capiva. O almeno. Incominciava a comprendere.
- Vedi - proseguì Francesca - quando nel tuo Paese la rivoluzione non era ancora cominciata, le cose andavano in un certo modo. Voi, voi normali, comandavate su tutto e tutti. Avevate stabilito le regole della normalità. L'altezza media, la sana e robusta costituzione fisica, la legge sulla certificazione di invalidità per chi non era come voi: la patente di diverso. E poi, per pulirvi la coscienza, spendevate miliardi in opere di beneficenza, finanziavate istituti-lager, e li chiamavate "centri di riabilitazione". Hai mai pensato che dentro c'eravamo noi, esseri umani esattamente come te? Solo che voi volevate che tutti camminassimo, anche se era chiaro che non ce la facevamo. Costringevate i poliomielitici a barcollare sulle stampelle, allungavate le ossa ai nani, inventavate stivaletti miracolosi per i paraplegici. Sembrava che le differenze vi dessero fastidio, turbassero il vostro primato di normali. - Francesca aveva parlato tutto d'un fiato, badando bene a scegliere solo gli argomenti che la convincevano, quelli che l'avevano spinta, un anno prima, ad aderire al movimento di Handicap Power.
- Facevate...decidevate...sceglievate...ma ti rendi conto che stai parlando con me? Dico, con me? Con uno che non c'entra niente di niente. E che non conta niente - sbottò Paolo.
- Tu? Tu non c'entri, tu non conti? Può darsi - tagliò corto Francesca - Sta di fatto che sei il simbolo del bel ragazzo, ben pasciuto nella società del benessere, egoista quanto basta, ricco quanto basta, e soprattutto superficiale, ignorante, arrogante... -
- Ehi, ehi, si può sapere chi ti ha messo in testa tutte queste stronzate? -
- Tu le chiami così solo perché ti rifiuti di ragionare. Ma il nostro leader, Giovanni dalle Ruote Nere, Conte della Sacra Ruota, ti potrà spiegare meglio di me. A suo tempo, naturalmente. Ti conquisterà, ne sono certa. La sua è una missione di giustizia. La si potrebbe definire una missione umanitaria. E poi basta guardarsi attorno: la nostra città è davvero libera per tutti. Non ci sono diversità, né ostacoli. - Francesca sembrava recitare. Si applicava, certo, ma una sottile inquietudine le attraversava il volto. Paolo era bello. E non era affatto aggressivo. Anzi, costretto in carrozzina, appariva indifeso e smarrito, quasi un cucciolo da proteggere, più che un pericoloso detenuto da controllare.
- E' tardi, devo andare - si liberò d'impaccio la ragazza. E prima ancora che Paolo potesse replicare, agì sul comando della carrozzina, diede l'impulso per aprire la porta, e uscì senza voltarsi, a marcia indietro. E Paolo tornò solo coi suoi pensieri.


3. Una lunga storia

Erano le undici del mattino. Un silenzio pesante ingombrava la stanza. Paolo misurò con lo sguardo le pareti. Basse, asfissianti, rigorosamente bianche. Il pavimento in ceramica antisdrucciolo era di un colore indefinibile, la tinta più diffusa nella contea, fra il sabbia e l'avana, l'unica che richiedesse poca manutenzione con tutto quell'andirivieni di ruote, che lasciavano solchi paralleli di polvere, uniche tracce visibili del passaggio di esseri umani. Di fronte alla finestra, sulla parete opposta, il letto. Spartano, duro, con una rete di doghe di faggio e un materasso ortopedico. Il tutto all'altezza del sedile della carrozzina, in modo da facilitare il salto a forza di braccia. Niente tappeti, niente intralci. Una piccola porta scorrevole consentiva il passaggio nel bagno, naturalmente attrezzato per disabili, con un maniglione a fianco dei servizi igienici, leggermente rialzati da terra. Interruttori bassi, specchio lievemente inclinato verso il basso: tutto sobriamente perfetto. Nella stanza, invece, oltre al letto, Paolo poteva disporre solo di una piccola mensola e di un tavolo, sul quale campeggiava una sorta di "bibbia", ossia la "Vera storia della Contea". L'avevano lasciata lì apposta, convinti che prima o poi avrebbe ceduto alla curiosità, o magari alla noia. Era vero. Sulla copertina lo stemma: il simbolo internazionale della carrozzina, bianco, su fondo rosso. In basso a destra il motto: "La vita è una ruota". Nient'altro. Paolo aprì con riluttanza. E lesse.
"Forse vi chiederete come mai agli inizi del Terzo Millennio dopo Cristo fosse necessario realizzare una Contea così strana e singolare. Voi che vivete qui da tempo già sapete apprezzare, come beni inalienabili e acquisiti, le nostre abitazioni comode e semplici, senza alcuna barriera, senza alcun gradino. Utilizzate con familiarità gli splendidi ascensori dalle grandi porte e la frizione autoregistrante che non crea mai dislivello ai piani. Ben sapete che gli uffici pubblici non hanno alti banconi dietro ai quali impiegati distratti faticano persino a vedere voi, laggiù, in carrozzina. Per non parlare degli autobus, tutti con il pianale-sollevatore manovrabile direttamente dall'utente, senza bisogno di assistenza alcuna.
Il nostro elenco di meraviglie urbane potrebbe continuare a lungo. Ma ciò che ci preme adesso farvi comprendere è che nulla di tutto questo esisteva prima della rivoluzione di Handicap Power. Anzi, non sono trascorsi molti lustri, da quando il nostro Belpaese, che ancora si chiamava Italia, ed era uno Stato unitario dalle Alpi alla Sicilia compresa, attraversò la grave crisi che ci ha condotto prima alla proclamazione dello Stato Lombardo-Veneto, guidato naturalmente dai Signori di Milano, e poi alla tremenda guerra d'indipendenza contro l'Austro-Germania, che voleva annettersi, dopo il Trentino-Alto Adige, anche il Lombardo-Veneto, profittando della disintegrazione dello Stato unitario. Mentre le truppe dell'Onu tenevano a bada le frontiere, le cose all'interno del Lombardo-Veneto volgevano rapidamente e rovinosamente al peggio.
Nonostante i roboanti proclami dei Signori di Milano, la scissione dal Centro-Sud combinata alla mancata annessione del Piemonte avevano provocato una brusca caduta degli investimenti. La cacciata degli immigrati terzomondiali e la fuga dei meridionali avevano improvvisamente provocato una carenza di manodopera nei settori produttivi essenziali. E fu così che i primi veri tagli colpirono la spesa sociale. Gli anziani e gli handicappati, già guardati con sospetto e tollerati con sopportazione, vennero considerati dei pesi morti, puro costo, non compatibile con le dissanguate finanze dello Stato. Quei pochi disabili che ancora lavoravano dovettero moltiplicare le energie, dimostrare di essere indispensabili, accettare turni umilianti e decurtazioni degli stipendi. Gli anziani, poi, vennero inesorabilmente collocati in enormi case di riposo-lavoro, ossia ospizi con obbligo di produzione per conto terzi (con nessuna retribuzione, naturalmente, ma con l'orgoglio, si fa per dire, di essere ancora utili al sistema).
Crebbe lo scontento. Bande di paraplegici irregolari lasciarono le città ormai invivibili e si organizzarono nei piccoli centri della Bassa. Così nacque H.P., Handicap Power. Il glorioso movimento di liberazione degli handicappati. L'unico vero movimento alternativo dopo la polverizzazione della sinistra postcomunista. La parola d'ordine era: potere agli handicappati per una giustizia dal basso. Piccole ma significative le azioni di sabotaggio: le scale mobili dei grandi magazzini venivano bloccate con delle zeppe nell'ora di punta. I treni non provvisti di carrozze per disabili erano dirottati nella notte su vecchi binari morti di tratte dismesse per pendolari. Piccoli simbolici incendi illuminavano di notte alberghi sprovvisti di ascensori. E poi cortei, volantinaggi, sit-in di carrozzine elettriche davanti agli autogrill. La facciata legale del movimento furono i Circoli F.D.Roosevelt: vi si predicava la giustizia e l'eguaglianza come valori compatibili con il libero mercato. Ma, nella clandestinità, Giovanni dalle Ruote Nere organizzava i nuclei armati territoriali, cellule di pronto intervento che si finanziavano con le rapine alle banche, ma soprattutto con gli assalti ai ricchissimi sportelli dei ticket nelle Usl.
Ecologisti e obiettori di coscienza intuirono la forza dirompente di questa azione, e cercarono di avvicinarsi al movimento, affascinati dalla purezza ideologica e dalla condivisibile lotta contro gli odiati Signori di Milano. Vecchi anarchici misero a disposizione l'antica esperienza in fatto di esplosivi. Perfino un'ala dissidente di Comunione e Liberazione tentò di farsi passare per rivoluzionaria. Ma solo chi è davvero handicappato sa che la carrozzina non è una opinione, ma una condizione di vita, come il colore della pelle, e alleanze occasionali non possono modificare l'obiettivo strategico e sacro della Società a misura di tutti".
- Basta - pensò Paolo - non ce la faccio più a reggere queste farneticazioni -. Chiuse il libro con un gesto secco. Provò ad alzarsi di scatto. E sbatté nuovamente la testa sul soffitto.

 

4. Il dubbio

Francesca era inquieta. Il colloquio con Paolo non si era svolto secondo le procedure previste dal piano di riabilitazione. Anzi, a ben guardare, un intero mese era trascorso senza che il detenuto cominciasse a mostrare segni concreti di miglioramento. Non solo: era evidente che il giovane tendeva a stabilire con lei un contatto personale di tipo diverso. Almeno questo era ciò che lei temeva. O desiderava? La ragazza arrestò di colpo la carrozzina lungo l'interminabile corridoio del carcere. Sentiva il cuore battere con forza, e uno strano formicolìo percorrerle le vene. Non le era mai successo prima. Osservò la propria immagine riflessa da uno degli ampi finestroni che davano luce al corridoio: e improvvisamente si accorse di essere bella. Sorrise a se stessa, nervosamente. Si aggiustò la gonna, controllò la camicetta. Era tutto in ordine. "Perché mi preoccupo del mio aspetto esteriore?" si scoprì a pensare. "Abbiamo sempre sostenuto che la bellezza è un vizio borghese, un lusso per prepotenti, una premessa alle differenze e all'emarginazione dei diversi...Eppure adesso sento il bisogno di sentirmi bella. E tutto per un presuntuoso irriducibile camminante. No, devo fermarmi in tempo, devo chiedere al Conte di essere sostituita. Mi sto facendo coinvolgere troppo".
E così, induriti i lineamenti, raddrizzate le spalle, appoggiò con determinazione la mano sul joy-stick e si diresse all'ascensore blindato. Superò con un cenno del capo il tavolo dei controllori, due amputati di cinquant'anni, reduci dalle battaglie dell'ex Jugoslavia. Giuseppe, il più volgare dei due, non perse l'occasione: - Ehi, bellezza, mi hanno tagliato le gambe, ma il resto funziona...non ci credi? -.
Antonio, il socio, fece roteare una tremenda protesi di acciaio e titanio e calò il braccio ricostruito assestando una potente mazzata fra capo e collo di Giuseppe: - Piantala, scemo: non vedi che Francesca non è roba per noi. Lasciala in pace -.
- Okay, okay, scherzavo. Mi scusi, signorina. Ho capito, lei è riservata al nostro ospite della cella speciale...- bofonchiò Giuseppe.
Francesca arrossì violentemente e si morse un labbro dalla rabbia, ma non rispose. Accelerò con la carrozzina precipitandosi fuori dall'area di sicurezza. Era dunque così evidente il suo tumulto interiore, se perfino un energumeno come Giuseppe se ne era accorto? Non c'era tempo da perdere. Solo il Conte Giovanni dalle Ruote Nere poteva aiutarla.
Chiamò l'ascensore premendo senza sforzo il pulsante che sporgeva di mezzo metro dal muro, a ottanta centimetri da terra. Le porte si spalancarono, la cabina era enorme, ben illuminata e aerata, la pulsantiera ergonomica a sfioro sulla destra, al centro della parete, consentiva agevolmente la manovra delle carrozzine. Ma Francesca preferì usare il comando vocale, previsto per i non vedenti, ma utile anche agli spastici e ai distrofici, che faticavano a muovere le mani.
- Lift, portami a terra, che già lo sono.
- Come desidera, signorina. Le ricordo però che non siamo già a terra. Siamo all'ottavo piano - rispose la voce metallica del computer di bordo.
- Scherzavo, scherzavo. Era un modo di dire. Dai, fammi scendere che ho fretta.
Le porte si chiusero silenziosamente, una dolcissima musica new age venne diffusa da quattro piccoli altoparlanti incassati agli angoli del tetto della cabina, la luce si abbassò leggermente. Poi, impercettibilmente, l'ascensore si tuffò verso il basso, percorrendo in pochi secondi gli otto piani di discesa al suolo. Era un modello sperimentale, importato dal Giappone, molto efficiente e confortevole. "Anche se con qualche eccesso di esibizionismo", annotò mentalmente Francesca uscendo all'aperto. Guardò l'orologio, uno Swatch linea H, con fascetta ortopedica antistrappo e quadrante smussato superinfrangibile (era molto frequente, spingendo con le mani le ruote della carrozzina, fracassare il cristallo dei normali orologi in commercio): era già mezzogiorno. Niente da fare, troppo tardi per andare senza preavviso dal Conte. Non l'avrebbe certo ricevuta. Mancava solo mezz'ora alla pausa della refezione. E per nulla al mondo il Conte avrebbe rinunciato alle proposte del suo cuoco personale, un grande chef di Venezia costretto ad abbandonare la laguna dopo l'insorgere di una lenta ma progressiva forma di sclerosi multipla. La malattia non gli aveva impedito però di lavorare nella Contea della Sacra Ruota, dove la grande cucina del Palazzo era attrezzata perfettamente, in modo da consentirgli, anche in carrozzina, di muoversi come un lampo tra forni e fornelli, impartendo ordini perentori a due giovani cuochi devoti.
Meglio, molto meglio, chiedere un appuntamento per il primo pomeriggio. Francesca attivò il telefono cellulare di servizio, compose il numero riservato della segreteria particolare del Conte, e attese. - Sì, codice 91, parla - rispose sgradevole come sempre Rosy, che a onta del nome assomigliava a un mastino napoletano. - Qui codice 91 - si affrettò Francesca - Ho assoluto bisogno di conferire con il Conte. Oggi stesso. E' questione riservatissima. Comunicazioni riguardanti il detenuto speciale...-
- Ah sì, il cocco che ti ha affidato. Va bene, vediamo un po': facciamo alle quindici. Per non più di un quarto d'ora.
- Veramente sarà il Conte a decidere quanto tempo dedicarmi - si irritò Francesca.
- Scommettiamo che un quarto d'ora è pure troppo - sibilò Rosy, gorgogliando un ghigno che forse voleva essere una risata sarcastica - Rilassati, piccola, che se il Conte si accorge che sei nervosa ti fa il terzo grado. E non te lo consiglio.
- Va bene, va bene. Grazie della cortesia. E a presto - Francesca chiuse la comunicazione senza lasciare il tempo alla dolce Rosy di aggiungere ulteriori sgradevolezze. Non si erano mai potute sopportare. Lei deteneva un posto di grande importanza, a diretto contatto con il Conte. Ma soprattutto occupava una carrozzina enorme, fatta su misura per contenere una pancia straripante e informe. Del resto Rosy non faceva alcun moto, e sgranocchiava costantemente noccioline americane, gonfiandosi di bibite gassate dalla mattina alla sera.
- Ma come fa il grande capo della rivoluzione, il condottiero delle nostre più gloriose battaglie, a scegliersi una segretaria simile? - pensò Francesca, avviandosi verso la piazza centrale, in cerca di uno spuntino ipocalorico al self-service.

 

5. Il risveglio

Paolo cominciava a non sopportare più quella situazione incredibile. Un dolore alla testa, sordo, pulsante, gli ricordava la sua dabbenaggine. Non avrebbe mai creduto, fino a un mese prima, di essere così vulnerabile. Così solo. Quel soffitto basso, poi, lo opprimeva al di là di ogni immaginazione. Non avrebbe mai pensato che fosse possibile vivere e muoversi in autentici loculi. Sì, è vero, le mansarde dei suoi amici di città erano più o meno simili. Però era una libera scelta, dal vago sapore bohemien. Qui no, il soffitto basso, piatto, anonimo, era un obbligo, una prescrizione ideologica, uno strumento pedagogico. La propaganda del regime sosteneva che in questo modo si risparmiava abbondantemente sul riscaldamento. E anche sui mattoni. Probabilmente era vero. L'ottavo piano, dove si trovava adesso Paolo, poteva corrispondere sì e no a un quinto piano nelle case del mondo dei normali. Dove c'erano quelle belle scale, con i pianerottoli ben ritmati, e le ringhiere, e il lucernario che scandiva le proporzioni dell'abitazione. Qui no: tutto faceva pensare all'abbondanza d'aria che si può trovare in una scatola di sardine. Paolo non si era mai sentito così handicappato.
Si guardò le mani. Erano le stesse di sempre: forti e nodose, con qualche vena in rilievo. Eppure apparivano improvvisamente spaesate, inutili, in cerca di una occupazione plausibile. Le allungò stendendo le braccia davanti al corpo: osservò i suoi arti come uno studente di anatomia in cerca delle definizioni esatte per quella miriade di piccole ossa. Poi, lentamente, appoggiò le falangi sui corrimano delle ruote. Una fredda sensazione di acciaio cromato percorse la pelle e si trasmise intatta al cervello: in un lampo comprese che le mani potevano servire per spingere il proprio corpo in avanti e all'indietro. Esattamente come i piedi. Forse anche meglio, visto che rispondevano al cervello con una prontezza antica, da animale della preistoria.
Un urlo, come un lampo, attraversò la sua mente. Ma nessun suono uscì dalla bocca contratta in una smorfia innaturale, da animale braccato. Guardò le mani, che istintivamente si strinsero sui due cerchi cromati. I muscoli degli avambracci e dei bicipiti si gonfiarono contemporaneamente, e un impulso istintivo lo portò a compiere il gesto, quel gesto. La carrozzina si mosse in avanti, coerente e leggera, senza sbandare, sospinta da quell'impulso, pensato a tavolino, eppure più naturale di quanto Paolo mai avrebbe ritenuto possibile. La carrozzina si mosse di un metro, forse meno, senza fare rumore. Paolo sentì la propria natura mutare. Da bipede a bimane: guardò le gambe, parallele e ferme, eppure vibranti di energia rattenuta, pronte a distendersi in un movimento naturale compiuto innumerevoli volte, al punto da non potersi neppure considerare esercizio di intelligenza, quanto piuttosto dimostrazione di animalità ereditaria. Un freddo sudore percorse il suo corpo, emozionato e teso. La carrozzina si era spostata in avanti, aveva occupato il centro della stanza, docile ai comandi impartiti dalle braccia.
Adesso Paolo provò un esercizio nuovo. Tenne ferma la mano sul cerchio cromato della ruota di sinistra, e spinse con l'altra il corrimano di destra. La carrozzina girò su se stessa, a sinistra, come una giostra, e un sottile senso di vertigine fece tremare il capo del giovane. La sensazione più curiosa era quella che veniva da sotto, dal basso: il baricentro abituale, collocato in fondo alla schiena, appariva improvvisamente ininfluente rispetto alle decisioni del resto del corpo. Erano le braccia, e la posizione della testa, a determinare l'equilibrio. Quanto alle gambe, potevano assistere in silenzio a questa espropriazione di dignità, senza poter intervenire in alcun modo.
Paolo respirò a fondo e guardò nuovamente le mani: se le portò al volto, coprì gli occhi. Provò a piangere, ma nemmeno una lacrima solcò le sue guance. Freddo, determinato, allungò ancora le braccia. Le dita delle mani aderirono all'acciaio. Con i polsi sfiorò la gomma dei copertoni. Provò un irrefrenabile impulso a un gesto di libertà: gonfiò i muscoli delle braccia e scaricò tutta l'energia rattenuta nelle mani: una spinta secca, imperiosa, che si indirizzò sulle due grandi ruote posteriori, per impennare la carrozzina verso l'alto, cercando un punto di equilibrio a mezz'aria, in un improbabile esibizionistico surplace da ciclista. Questione di un attimo: le piccole ruote anteriori si sollevarono dal pavimento, e contemporaneamente lo schienale della carrozzina si inclinò paurosamente all'indietro. Paolo tentò inutilmente di bilanciare lo slancio spostando il peso della testa in avanti. Troppo tardi: aveva superato il punto di non ritorno. Con una rapidità impensabile la carrozzina si sfilò veloce da sotto i glutei del giovane che si trovò all'improvviso con la testa e la schiena ribaltate all'indietro. Un tonfo secco, un altro inedito dolore ovattato e sgradevole. Paolo si sentì come un astronauta nella navetta spaziale prima del lancio: con la schiena a terra e i piedi per aria, ridicolo e impotente. E in un attimo comprese che aveva ancora molto da imparare sull'uso appropriato della carrozzina.
Le rotelline anteriori giravano a vuoto nell'aria, liberate dall'attrito del suolo; le gambe, innaturalmente divaricate ai lati della carrozzina, annaspavano nell'aria alla vana ricerca di un punto d'appoggio. La schiena era l'unico punto fermo, perfettamente parallela al pavimento. Paolo puntò le mani al suolo, cercando di darsi una spinta così forte da raddrizzare al tempo stesso il corpo e la carrozzina. Ma ovviamente non riuscì nell'intento. Era lì, come istupidito, in cerca di un punto di appoggio, quasi dimentico che lui, in fin dei conti, poteva tranquillamente alzarsi da solo, visto che sapeva camminare, o almeno così riteneva ancora di saper fare.
Una irrefrenabile risata lo attraversò ed eruppe dalla bocca con la forza sguaiata dell'attacco di nervi. Lui, proprio lui, la guardia di frontiera dei Signori di Milano, era riuscito a ribaltarsi con una carrozzina da paralitici. E non era neppure più capace di venire fuori da quella situazione grottesca. La risata lo squassava, silenziosa, in crescendo, irrefrenabile. Poi niente. Per un lungo momento, Paolo ristette immobile al suolo, ascoltando il proprio respiro affannato, contemplando in alto le punte dei piedi, divaricate verso l'esterno, e scoprendosi a studiare con attenzione i dettagli dei freni incernierati sulle fiancate della carrozzina, due appendici inutili in libera uscita, visto che l'unico modo per liberarsi dall'impaccio era quello di alzarsi da solo o di chiamare aiuto.
"Io posso alzarmi da solo - pensò - Non ho bisogno di aiuto. Io non sono un handicappato. Per fortuna". Ma nel cervello, dopo quella manifestazione di sfrontato egoismo, apparve l'immagine di Francesca, bella e dolce, dalle guance arrossate dal pudore. Lei no, lei da sola non avrebbe mai potuto sollevarsi da terra senza chiedere aiuto. E così Paolo, vergognandosi per la prima volta, fece scattare le reni e si divincolò dal sedile, scivolando su un fianco. Poi, seduto per terra, raddrizzò la carrozzina con facilità. Le rotelle anteriori rimbalzarono docili sul pavimento, la posizione eretta era riconquistata: Paolo, a forza di braccia, come un vero paraplegico, si issò sul sedile ignorando volutamente l'uso delle gambe. "E' solo un esperimento - si giustificò mentalmente con se stesso - Se volessi potrei usare il mio corpo come sempre". Scoprì con una punta di irritazione di sentirsi orgoglioso di aver acquisito da solo una tecnica nuova di sopravvivenza e di autonomia. Stava imparando la diversità. Ma in un angolo, indelebile, c'era il volto di lei.

 

6. L'attesa

Francesca percorreva lentamente la via che dal carcere portava in centro. Aveva assoluto bisogno di rilassarsi, e di riflettere. Tutto le appariva in una nuova luce. Non aveva mai dubitato del regime. Anzi. Era stata una delle prime a credere che la Contea fosse il prototipo di un mondo migliore, più giusto, più umano. Il Conte, con il suo fascino algido, razionale, coinvolgente, era stato il suo idolo, fin dall'inizio. Non avrebbe mai pensato che una persona in carrozzina sarebbe stata capace di compiere un'impresa di tale portata. Conquistare una città. Militarmente. E poi svuotarla, trasformarla, renderla inattaccabile dall'esterno e perfettamente agibile all'interno. Convincendo i più tiepidi, favorendo l'arrivo nella Contea delle menti migliori, organizzando i servizi e rimuovendo ogni ostacolo.
Era una rivincita collettiva. Tutti l'avevano vissuta così, con rabbia ed entusiasmo. Paraplegici e poliomielitici, spastici e distrofici, non vedenti e sordomuti, amputati e focomelici, vecchi e nuovi handicappati di ogni genere: un esercito assurdo, pittoresco, incredibile, diseguale, eppure affratellato dalla Grande Utopia. Per la prima volta nella storia, l'Handicap era la Misura. L'Handicap era la Norma. L'Handicap era il Potere.
Francesca si riscosse dai suoi pensieri: aveva percorso sì e no un centinaio di metri sotto il portico basso che scandiva, sul lato sinistro, la stretta viuzza medioevale. Al centro della carreggiata gli antichi cubetti di porfido non erano stati rimossi, ma semplicemente rivestiti di una resina trasparente che ne consentiva la visione e li proteggeva, permettendo al tempo stesso alle carrozzine di procedere senza pericolosi sobbalzi o brusche impuntature. Ma Francesca preferiva il portico, fresco e ombroso, anche perché così aveva la possibilità di gettare un'occhiata alle vetrine dei negozi. Si fermò davanti al Fauteuil charmant, la boutique d'alta moda. Osservò i manichini. Su una carrozzina color fucsia una splendida bionda di plastica indossava una mantella nera, vistosamente scollata, che lasciava spazio per il movimento delle braccia. Una gonna rosso sangue, lunga fino alle caviglie, con ampi sbuffi, era acconciata in modo tale da lasciar intuire la chiusura a strappo laterale, particolarmente confortevole per una donna in carrozzina. Una borsetta di pitone nero, antiscippo, con una robusta cinghia regolabile, che si poteva assicurare al manubrio della carrozzina, era mollemente adagiata in grembo, mentre ai piedi del manichino facevano bella mostra di sé due scarpette di vernice, con la punta leggermente arrotondata e con il tacco appena accennato, solo per ingentilirle, ma tale da non intralciare i movimenti delle gambe e dei piedi, che poggiavano sulle pedane della carrozzina, illuminata dal basso con due spot fluorescenti, incastonati nel pavimento. Il prezzo, naturalmente, non si vedeva.
Francesca pensò: "Ma chi può permettersi, con questa crisi, di comprare un vestito simile? E poi dicono che la moda per gli handicappati è alla portata di tutti". Eppure le piaceva sognare. La rivoluzione non le aveva tolto il gusto per la femminilità. Anzi. Ingenuamente lei aveva pensato che una società senza più differenze non le avrebbe creato imbarazzi. E che le passioni, le conquiste, le avventure, sarebbero venute da sé, senza fatica. Ma la realtà, ben presto, si era rivelata assai meno esaltante. I ragazzi, indipendentemente dal tipo di handicap, sognavano top-model slanciate e camminanti. Conservavano gelosamente vecchie riviste del passato regime, che definire oscene sarebbe riduttivo. Quando vedevano una donna in carrozzina sembravano ancora più paralizzati del solito. Come se il confronto brutale con la loro medesima condizione li ponesse improvvisamente dinanzi allo specchio. E in quello specchio non volevano riflettere la propria immagine. Non subito, almeno.
Quanto alle ragazze, apparivano improvvisamente spaesate, prive di un punto di equilibrio. Prima di arrivare nella Contea molte delle giovani disabili attribuivano alla loro personale menomazione la causa fondamentale delle difficoltà in amore. Il confronto con i camminanti era spesso motivo di frustrazione e di cocenti delusioni, oppure, improvvisamente, di vorticose e infiammate passioni. Ma di tutto ciò, sia pur dolorosamente, se ne erano fatta una ragione, se non un alibi. Adesso invece, adesso che non c'era più nessuna scusa, nessuna barriera, adesso che le carrozzine potevano andare ovunque - beninteso nell'ambito della città - mancava loro lo stimolo della trasgressione, o il brivido dell'avventura impossibile. E poi, a dirla tutta, in quell'ambiente tutto composto di handicappati c'era poco da stare allegri. Altro che sognare il grande amore. Bruttini, erano proprio bruttini. Sì, qualcuno si atteggiava a divo, sfoggiava muscolature da body-building, si agghindava da bullo di periferia, con gli orecchini al lobo sinistro, e il braccialettino alla caviglia, e la carrozzina con le borchie cromate e gli adesivi dei gruppi wheel-rock più in voga. Tutta scena. Deprimente. Gli altri, i migliori, erano troppo seri. Rivestivano incarichi importanti, dalle comunicazioni all'informazione, dalla logistica ai servizi di sicurezza. Troppo presi dal buon funzionamento della macchina statale, avevano ben poco tempo da dedicare alle questioni sentimentali.
Ecco perché Francesca si sentiva a disagio. Non avrebbero dovuto affidarle quell'incarico. Paolo era troppo pericoloso. Così diverso e così irriducibile. E così terribilmente bello.
La ragazza agì sul joy-stick con uno scatto secco. Non voleva, non voleva cascarci così. Aveva paura. E al tempo stesso sapeva che un sentimento autentico e prorompente si stava impadronendo del suo cuore. Ed era la prima volta da tanto, troppo tempo, che questo accadeva. Accelerò, superando le vetrine delle altre botteghe ormai in orario di chiusura, e arrivò davanti all'insegna del Fiaccheraio, trattoria delle carrozzelle. Era questa una locanda davvero curiosa, dalle lunghe tavolate di legno massiccio, ma senza sedie attorno, ché l'intero spazio era lasciato alla libera circolazione delle carrozzine. Il bancone del vivandiere, austero e sobrio, mostrava i piatti del giorno ad altezza assai modesta, tale che anche un bimbo avrebbe potuto indicare le pietanze. Un sistema di vassoi scorrevoli su guide telecomandate consentiva all'avventore in carrozzina di scegliere i cibi senza sforzo, mentre per le bevande era previsto un sistema di erogatori alla spina, posizionati verso l'esterno, e non più alti di un metro e venti, sotto i quali una fila di boccali era prontamente utilizzabile per la mescita. Al termine del percorso un piccolo e gentile robot raccoglieva il vassoio e lo portava al tavolo indicato dallo scontrino, dopo che il conto era stato regolato alla cassa, naturalmente ad altezza di carrozzina.
Ma quel giorno Francesca non riuscì a ordinare altro che un'insalata verde e una mozzarella scondita, e bevve, in silenzio, una minerale senza aggiunta di gas. Un caffè decaffeinato, offerto dal padrone, la trovò ancora immersa nei suoi pensieri, impegnata a organizzare un discorso plausibile per il Conte. Perché lei già sapeva che con Giovanni dalle Ruote Nere non era possibile fingere, né tergiversare. "Signor Conte, le comunico la mia decisione: non posso più occuparmi del detenuto speciale. Perché è meglio che ricada direttamente sotto la responsabilità di un più alto in grado. E comunque di un uomo...E poi, signor Conte...Paolo, sì, il detenuto, fa certi strani discorsi...parla di libertà, di normalità...io non ci capisco più niente. Mi aiuti lei, la supplico". - No, no, no - si scosse Francesca - così non va. Devo essere fredda ed essenziale, dire solo le cose che sono inoppugnabili. E lasciare che sia lui a rispondere. E' lui il grande condottiero, o no? -. Francesca sospirò, salutò a mezza voce e uscì, attraversata da foschi pensieri.

 

7. Il Conte

La mazzetta dei giornali era sparpagliata disordinatamente sulla lunga scrivania di massello. Giovanni dalle Ruote Nere aveva appena terminato di pranzare, come di consuetudine, nel suo ufficio, che occupava un intero piano, il più alto, del Palazzo del Governo. Più che un pranzo, era uno spuntino da vegetariani. Due tramezzini alle verdure, una terrina di carote, una pesca non troppo matura. E acqua naturale, in caraffa. Stava tentando ancora una volta di vincere la sua personale e segreta battaglia contro un accenno di pinguedine che increspava la giubba da condottiero, arricciandola sul ventre, e costringendolo, troppo frequentemente, ad un gesto meccanico di assestamento della ruvida stoffa, che lo innervosiva oltre misura. Da quando la rivoluzione era finita, la sua vita si era fatta sedentaria. Niente più marce di protesta, niente digiuni dimostrativi, basta con i sit-in assieme ai giovani del movimento. Ora governava. Erano gli altri a venire da lui. E lui, il Conte, restava fermo per ore, a consultare carte, a redigere memoriali, a dettare ordini. A pensare. A leggere. Come adesso.
Le notizie non erano confortanti. Afferrò La nuova frontiera il quotidiano ufficiale del Movimento e della Contea della Sacra Ruota. L'editoriale del direttore, un vecchio paraplegico di fiducia, aveva un titolo eloquente: Stringere i freni. Il testo era conseguente. Dopo gli elogi rituali alla grandezza della rivoluzione e alla perspicacia del suo condottiero, Tommaso Morelli si lanciava in un acrobatico volo retorico per far comprendere ai lettori, senza turbarli troppo, che la recessione economica non si sarebbe arrestata al di là delle mura della Contea, ma avrebbe prima o poi fatto sentire le sue conseguenze anche all'interno. "E' presto per vaticinare previsioni allarmistiche, ma una ragionevole prudenza non guasta affatto. Ecco perché il Governo ha allo studio la reintroduzione, in via del tutto sperimentale, di un piccolo, simbolico ticket sulle prestazioni socio-sanitarie. Non c'è di che scandalizzarsi - precisava il fondo - Anzi, a ben vedere, in una Contea così perfetta, così autogestita e a misura di tutti, il ticket non assume il bieco significato di vessatorio balzello come nei passati regimi dello Stato Centrale (ma chi se lo ricorda più, d'altronde, lo Stato di Roma), ma assurge a simbolo concreto di un comune sentire di fronte alle difficoltà contingenti, favorisce l'assunzione di responsabilità collettiva da parte di un popolo orgoglioso e felice...". Giovanni accartocciò il giornale in un moto di stizza. Poi alzò il telefono e premette ripetutamente il tasto di chiamata per la segretaria. "Rosy, cercami subito Morelli alla Nuova frontiera Ho detto subito". "Certo, Capo, certo - alitò melliflua all'altro capo la segretaria - A proposito, sono le due e mezza...le ricordo che alle 15 arriva Sua Bellezza, la signorina Francesca...". "Me lo hai già detto, non sono mica scemo - replicò il Conte - Ma perché ti agiti tanto?".
"Ho l'impressione che abbia dei problemi con il prigioniero... con il Paolo. E' così inquieto, e languido. Non vorrei che la sua guardiana preferita si fosse presa una cotta...". "Non riesci mai a ficcarti quella linguaccia dentro la bocca, Rosy? - ruggì Giovanni - Pensi davvero che abbia bisogno delle tue imbeccate per intuire le situazioni? Fammi una cortesia, chiama il giornale e falla finita". "Okay, capo, mi scusi...Però...dopo... deve dirmelo se avevo ragione. La sua Rosy non parla mai a vuoto, lei lo sa.".
Questa volta il Conte non replicò. Era stanco e irritato. Si era circondato di persone fidate, ma insopportabili. Adesso, a cinquant'anni, con le tempie imbiancate e la fronte più spaziosa, cominciava a sentire il desiderio di contatti umani meno rigidi, più sinceri. Aveva sempre rinunciato alla propria individualità. Perfino il suo fisico aveva quasi somatizzato questa progressiva spersonalizzazione da condottiero.
Era finito in carrozzina all'età di dieci anni. Lo avevano investito sul marciapiede, a pochi passi da casa. Una sedici valvole da 180 cavalli, con quattro giovani a bordo, di ritorno da una discoteca di periferia alle undici di sera (era l'ora della chiusura obbligatoria dei locali da ballo: pensavano che gli incidenti sarebbero diminuiti, e invece avevano solo anticipato l'orario dell'impatto), era sbandata all'uscita della curva. Il ragazzo al volante aveva chiuso gli occhi urlando: la macchina come una falciatrice impazzita gli era passata con le ruote sul filo della schiena, mentre lui, disteso per terra, sperava fino all'ultimo di essere scansato. Lì per lì non sentì male. Anzi, pensò che non fosse successo niente. La gomma era rimbalzata sul fianco, aveva premuto sulla schiena, era schizzata oltre. Poi, una frazione di secondo più tardi, anche la seconda ruota aveva compiuto il suo dovere, come un rasoio bilama, freddo e imparziale. Lo stridìo dei freni attraversò le sue orecchie, ovattato e distante come in un film proiettato al ralenti, e tutta la scena, ancora oggi, gli pareva fredda e irreale, come se si potesse da un momento all'altro riavvolgere il nastro e ripeterla in modo diverso, senza quel tuffo inutile ventre a terra, senza quel "ploff" della gomma che aderiva metodica al nuovo ostacolo, ignorando che si trattava di un corpo umano, e affrontandolo come una qualsiasi insidia del terreno, e dunque incidendo la propria scultura nelle carni, con rigorosa precisione calligrafica. Anzi, quando Giovanni si sforzava di ripensare a quella decina di secondi che avevano radicalmente modificato la sua esistenza, non riusciva a provare rancore per quei due pneumatici. La loro precisione nell'inerpicarsi sulla sua schiena lo aveva quasi affascinato, come tutti i congegni razionali e perfetti. Il suo cervello aveva registrato fedelmente immagini e sensazioni anestetizzando solo il dolore. Ricordava perfino l'odore della gomma, l'aspro sentore del bitume sulla strada. Cosicché quell'urlo, che pure eruppe - stando alle testimonianze raccolte allora - non gli sembrava provenisse da sé, ma da un giudice soprannaturale, dall'angelo custode, se mai fosse esistito, che protestava per questo insulto del destino, per un verdetto fortuito e impietoso.
Solo dopo, anni più tardi, Giovanni comprese che la sorte non era così priva di nessi logici. Indurito dall'handicap, plasmato da anni di riabilitazione e di umiliazioni nei vecchi istituti di recupero, incattivito dall'inerzia e dalla passività forzata cui lo costringeva un regime fatiscente, che agli handicappati non voleva riconoscere alcuna utilità sociale, sentì crescere in sé la febbre del leader, del rivoluzionario. "Faremo come i neri dei ghetti" si ripeteva la sera, fumando una sigaretta nell'angolo più isolato del giardino del centro di riabilitazione. "Dopo il Black Power è giunto il momento di Handicap Power, qui e nel mondo. Perché siamo noi i nuovi neri, i nuovi diseredati, gli ultimi della terra, il seme del rinnovamento, i portatori di giustizia e di uguaglianza...". Il telefono squillò insistente, con quel cicalino da computer made in Taiwan che tanto lo infastidiva. E Giovanni si scosse dai ricordi, tornando bruscamente alla realtà.
- Sì, sono il Conte. Passatemi il direttore. -
- Caro Giovanni, sono Tommaso, che te ne pare del mio editoriale di oggi? - gli arrivò flautata e confidenziale la voce di Morelli.
- Vuoi davvero sapere che cosa ne penso? No, caro direttore, è meglio che tu non lo sappia. Diciamo piuttosto che d'ora in poi tu i commenti politici non li fai proprio. Ti limiti a dare le notizie. E per te questa è già un'impresa eroica. - lo aggredì il Conte.
- Non capisco - balbettò il direttore della Nuova frontiera - Mi sembra di aver interpretato esattamente il tuo pensiero, circa la necessità di qualche piccolo sacrificio...o no? -
- I sacrifici ci saranno, certo che ci saranno. Ma sarò io ad annunciarli, non tu. E poi non ti permetto di trattare il nostro popolo come una massa di decerebrati. Se dobbiamo chiedere dei soldi lo diciamo apertamente, senza sotterfugi, senza voli retorici da ancién régime. Chiaro? -
- Chiaro, chiarissimo. Ma... - la voce di Morelli si fece ancora più servile - non vorrei offenderti, Capo, però tu devi capire che un giornale, proprio perché è un giornale, ha il polso della situazione. E allora non ci è sfuggito un certo malcontento, una qualche insoddisfazione, magari non dichiarata, ma insomma, non per questo meno reale...-
- Insoddisfazione? - domandò guardingo il Conte.
- Sì, senza esagerare, ovviamente... - gettò acqua sul fuoco il direttore - Ma stando a un nostro sondaggio, che naturalmente non pubblicheremo mai, i cittadini della Contea si annoiano tremendamente. Qui tutto è a misura di handicap, non c'è che dire. Ma forse proprio per questo manca uno stimolo, un motivo di arrabbiatura. Insomma, in qualche modo stiamo soffrendo una sindrome svedese, da democrazie nordiche. Solo che qui siamo nella Bassa. Vuoi un esempio? L'unico argomento di interesse è il prigioniero normodotato, quel Paolo che si ostina a non riabilitarsi. La gente si appassiona. Oserei dire che fa quasi il tifo per lui...-
- Ah sì? Hai fatto bene a dirmelo. Ne terrò conto. Comunque ricordati. Niente editoriali per un mese. O almeno scrivili meglio. - Giovanni riattaccò senza neppure attendere la replica, che tanto non gli interessava affatto.

 

8. L'incontro

Il palazzo dominava la piazza. Austero e sobrio, con la facciata in bugnato e l'enorme portone in legno massiccio rivestito da grandi borchie in ferro battuto, incuteva un certo timore. Impenetrabili allo sguardo i finestroni dei piani superiori, rivestite da grate le aperture a livello della strada: tutto scoraggiava e respingeva. Un drappello di carrozzine blindate montava la guardia giorno e notte: guardie scelte, il fiore delle famiglie della Contea, gente fidata e disposta a tutto, pur di difendere Giovanni dalle Ruote Nere. In alto, unica nota di colore, il vessillo della Contea si gonfiava al vento: la carrozzina stilizzata, bianca in campo rosso, visibile in tutta la città, simbolo della rivoluzione e del nuovo benessere.
Francesca si fermò sul limitare della piazza, giusto allo sbucare dal portico ombroso che aveva percorso con studiata lentezza, ripetendosi mentalmente le frasi che, secondo lei, avrebbero dovuto convincere il Conte. Ma adesso, dinanzi a quel palazzo tetro e arcigno, la sua forza interiore sembrò dileguarsi. "Che cuore può avere un uomo che vive le sue giornate là dentro? - si domandò - E' un uomo assediato, è sicuramente sospettoso, è costretto dal suo ruolo e dalla storia ad assumere decisioni nette e dure. E io vado a parlargli di sentimenti, di libertà... Ma ormai è tardi per tornare sui miei passi. Potevo pensarci prima. E poi no, è giusto così. Devo provare a convincerlo. Mi ascolterà, questo è certo. E dipende solo da me superare questa prova".
Agì dolcemente sul joy-stick, la carrozzina si mosse in direzione del palazzo del Governo. Le guardie chiusero il passaggio al centro della piazza. - Dove vai, guardia scelta? - domandò il comandante del drappello.
- Il Conte mi attende - rispose Francesca, con un filo di voce.
- Come ti chiami? -.
- Sono Francesca, vengo dal centro di riabilitazione e custodia -.
- Aspetta lì e non ti muovere. -
L'ufficiale estrasse il telefono cellulare e compose il numero di Rosy, la segretaria del Conte.
- Senti Rosy, c'è qui una bionda niente male, dice di avere un appuntamento con il Conte. Il Capo ha buon gusto, se è vero...-
- Falla entrare, Pietro, che poi ci penso io a tenerla a bada. Il Conte la aspetta ed è nervoso, molto nervoso. Non credo proprio che oggi abbia strane idee per la testa - Rosy non perse l'occasione per far notare che conosceva perfino l'umore del Conte, in qualunque momento.
- Va bene, messaggio ricevuto - Il comandante chiuse lentamente il telefono e lo ripose nel fodero laterale della carrozzina blindata, poi ordinò alle guardie di aprire un varco per consentire il passaggio della ragazza.
- Vieni avanti, Francesca. E' vero il Conte ti aspetta, ed è impaziente. -
Francesca si mosse con il cuore in gola. Era già stata nel palazzo, ovviamente. Ma mai prima d'allora per un incontro diretto e personale con Giovanni dalle Ruote Nere. Passò in mezzo alle guardie, che si erano disposte in due file parallele, e la squadravano con curiosità tutta maschile. Il grande portone si aprì silenziosamente, azionato dal telecomando del comandante. I due pesanti battenti si allrgarono ruotando sugli antichi cardini, ai quali era stato aggiunto un dispositivo a motore. Appena all'interno un sibilo le attraversò i timpani: il metal detector era entrato in funzione segnalando l'addormentatore d'ordinanza, che Francesca aveva ancora con sé. La ragazza lo sfilò rapida dalla custodia, consegnandolo al Capo della Guardia Interna. Cessato il rumore, le venne indicato, senza proferire parola, l'ascensore alla sua destra. La ragazza gettò una rapida occhiata nel vasto ingresso: l'atrio era semicircolare, limitato, verso il fondo, da due rampe assai ripide, in pietra, che avevano preso il posto degli antichi scaloni nobiliari. Gli scivoli formavano una specie di elica e si ricongiungevano al piano superiore. Non erano utilizzabili da persone camminanti, data l'eccessiva pendenza: solo carrozzine elettriche di buona potenza avrebbero potuto affrontare simili rampe. Una misura di sicurezza, ma anche un simbolo, esempio concreto di come le scale fossero inutili e inservibili nella Contea. "Certo le antiche scale erano più belle, erano un piccolo gioiello architettonico... - si sorprese a pensare la ragazza - Ma è davvero necessario abbattere tutti i simboli del passato? Non si poteva cercare una soluzione elegante, esteticamente e funzionalmente gradevole, per non pregiudicare l'integrità di un monumento così bello? - . Ma tanto a Francesca non era consentito avventurarsi sugli scivoli d'onore, riservati ai Consiglieri e al Conte. Per lei c'era l'ascensore blindato, che si apriva solo inserendo la carta magnetica d'accesso, con codice individuale segreto, assegnata al personale di sicurezza. Francesca digitò il proprio numero e la porta si aprì docilmente. La ragazza si afferrò saldamente ai braccioli della carrozzina, come per trarre nuova forza dal contatto con il metallo. Poi respirò profondamente e ordinò all'ascensore di salire all'ultimo piano.
Rosy era già lì che l'aspettava. Mancavano due minuti alle quindici. - Eccoti qua - la squadrò assestandosi goffamente sulla larga carrozzina - Dimmi che cosa vuoi dal Conte -.
- Nemmeno per idea - rispose secca Francesca - Ho chiesto un colloquio riservato. E ho i miei buoni motivi -.
- Che caratterino, la mia ragazza. Sei nervosa? Allora preparati, perché oggi il Conte non è dell'umore più adatto. Quindi règolati. E sappi che poi, tanto, verò a sapere tutto, o quasi. - aggiunse Rosy, con un ghigno. - E il tuo bel prigioniero? Lo hai lasciato da solo? Starà soffrendo... -
Francesca cercò disperatamente quanto vanamente di non arrossire. - Ehi, guarda guarda: sei diventata un peperone - ne approfittò la segretaria - Lo avevo detto, io, che nasceva una bella storia d'amore. -
- Smettila, immediatamente - si difese la ragazza - Se arrossisco è perché provo vergogna per te, che hai un ruolo così importante eppure lo gestisci così male, con tanta arroganza. E' solo per rispetto del Conte che...-
- E' solo per rispetto mio che non fai che cosa? - tuonò improvvisamente Giovanni, materializzatosi sulla soglia dello studio - Si può sapere che succede qua fuori? Sembra un pollaio. Tu, Rosy, torna al tuo posto e stai un po' zitta. E tu, ragazza, entra dentro, e sbrigati, che non ho tempo da perdere -.
Era proprio l'approccio che Francesca non avrebbe mai voluto. Si era trovata subito in svantaggio, colta a bisticciare come una comare con quella stupida segretaria. Un errore gravissimo. Imperdonabile. Doveva rimediare subito. - Mi perdoni, signor Conte - disse a bassa voce - Non so spiegare che cosa mi sia preso. Ma forse era tanta l'emozione di trovarmi qui, a colloquio personale con il condottiero della Contea, che ho perso il controllo dei miei nervi, d'altronde già scossi, in questi giorni, da un rovello, da un peso, che solo lei può aiutarmi a rimuovere -.
Quelle parole, dette tutte d'un fiato, sortirono l'effetto sperato su Giovanni, che non si aspettava un atteggiamento così schietto ed esplicito. - Vieni dentro, allora. E parliamone -. Il Conte si diresse nell'angolo del suo studio destinato a salotto: in verità c'era un unico divano, un po' vecchiotto e polveroso, quasi mai usato, che serviva più per decorazione che per altro. Lui e i suoi ospiti, normalmente, erano in carrozzina e non avevano alcun motivo di sedersi altrove. Ma un luogo per la conversazione, in qualche modo, ci voleva. E così quel divano, che aveva ospitato nei secoli andati lombi più o meno magnanimi, restava lì, addossato alla parete, protetto da un tavolo basso, senza altre poltrone attorno, per consentire appunto alle carrozzine di avvicinarsi liberamente.
- Dunque sei qui per il prigioniero - la precedette il Conte.
- Io non l'ho ancora detto -.
- E' evidente dal tuo volto, e dal tuo dire. -
- Sì, son qui per lui. E per me. -
- Come sarebbe a dire: e per me? -
- Dovete esonerarmi dall'incarico. Non sono adatta. -
- Ah sì? E me lo dici adesso, dopo un mese? -
- Ho fatto di tutto per riuscire. Ma la situazione peggiora. E io non so come affrontarla - Francesca non aveva previsto un dialogo così serrato, annaspava alla ricerca del bandolo della matassa, non voleva perdere di vista il ragionamento principale, quello decisivo.
- Dunque tu ritieni che io non so scegliere le persone - replicò pensoso il Conte - Mi sembri molto presuntuosa. E anche scortese. Ma ti ascolto. Spero di non sprecare il mio tempo -.
- Paolo...voglio dire, il prigioniero: non collabora. Si rifiuta di accettare la nuova situazione. Non ha compreso il significato della nostra rivoluzione. E c'è di peggio: io, in qualche modo, lo capisco. Non dico che lo giustifico, questo no. Ma lo comprendo. Mi fa pena. E' lì, rattrappito sulla carrozzina. Sembra una vittima sacrificale. Guarda fuori della finestra, scruta l'orizzonte, osserva i tetti. E' come un uccello ferito, in gabbia. Le sue gambe non si rassegnano: vibrano di energia, sembrano scoppiare di vitalità dentro i pantaloni. Lui si alza di scatto. Batte la testa contro il soffitto. E poi ricade giù affranto. Insomma sarebbe perfino ridicolo, o patetico, se il suo non fosse un dramma autentico. Non mangia, è passivo, non fa neppure la ginnastica respiratoria. E poi mi guarda in un modo strano: mi attraversa l'anima. - Francesca fece una pausa. Aveva parlato a scatti, quasi ansante, con gli occhi bassi. Non osava guardare negli occhi quell'uomo imponente, imperscrutabile, con le mani eternamente intrecciate in grembo, che non tradivano emozioni. E con il volto severo, segnato dalle preoccupazioni, ma ancora capace di emanare un'energia profonda, quasi ipnotica.
- Vai avanti, spero che tu non abbia finito qui. - ruppe il silenzio il Conte.
- No, non ho finito. Diciamo che la questione è complessa. Da un lato c'è Paolo, il prigioniero. Con la sua vita, e le sue idee, e la sua testardaggine. Dall'altro ci sono io. Che credevo di essere altrettanto ferma e decisa, anzi di più. Io ero convinta di essere dalla parte giusta. E di compiere una missione importante, decisiva. La prima, vera, riabilitazione di un camminante. Se quello che mi avevano insegnato fosse vero, Paolo avrebbe dovuto scoprire da sé che non fa nessuna differenza vivere in carrozzina o camminare, e che quindi, per un criterio di eguaglianza e di pari opportunità, era giusto e preferibile accettare la sua nuova dimensione di ruotante, tanto più che qui, nella nostra Contea, non incontrerebbe ostacolo alcuno, e potrebbe esprimersi al meglio, nel lavoro, nel tempo libero, nello studio, nello sport, nelle relazioni sociali...-
- Per favore, risparmiami il catechismo - la interruppe brusco Giovanni - Queste cose le so benissimo. Sono io che le ho predicate e insegnate e applicate. Quindi tu non fai altro che ripeterle peggio. Vai avanti. -
Il tempo stava trascorrendo implacabile. Francesca guardò l'orologio. Erano già le quindici e dieci. Le restavano pochi minuti. - Guardi l'orologio? Credi davvero che interromperei il tuo ragionamento solo perché è finito il tuo tempo? O non pensi che il tuo tempo finirà solo quando avrai terminato di dire le cose che contano, e che vanno dette? - il Conte la incalzava, entrava nel suo cervello, frugava nella sua anima. Aveva già capito tutto.

 

9. La confessione


- E' vero. C'è dell'altro. - ammise Francesca, ravviandosi i capelli con una mano, per frenare il tremore che le attraversava il corpo - Diciamo che potrei essermi innamorata. Succede spesso in situazioni del genere. Uno non vorrebbe mai che accadesse, certo. Ma proprio perché mi ritenevo inattaccabile e fredda, proprio perché ero convinta di svolgere un ruolo privilegiato per la rivoluzione, evidentemente ero più fragile, più indifesa. Voi mi avete educato ai valori forti, alle battaglie della storia, non a convivere con i sentimenti. -
- Ecco, adesso viene fuori che la colpa è mia... -
- Non ho detto questo - Francesca si riprese subito, quasi rinfrancata dall'aver trovato il coraggio di dare il peso delle parole a una passione che ancora vagava tra il cervello ed il cuore - Voi siete il condottiero, sinceramente non riesco a pensarvi anche come un uomo. -
Giovanni dalle Ruote Nere per la prima volta corrugò la fronte impercettibilmente, colpito da un'osservazione che si insinuava nella coscienza pizzicando i centri nervosi e obbligandolo ad una pausa di riflessione.
- Del resto è strano - incalzò la ragazza - Fino ad oggi non avevo avuto il coraggio di confessare neppure a me stessa che le cose stanno proprio così, magari in modo banale, come non dovrebbe accadere. Se parlo adesso è merito vostro, che siete stato capace di frugare nella mia anima, e di ciò vi sono grata oltre ogni misura, anche se questo non cambia la situazione.
- Dunque ti sei innamorata, e per di più di un camminante cocciuto e arrogante. C'è di che riflettere, altro che - ironizzò il Conte, piegando il labbro inferiore ad un ghigno gelido che poteva anche essere scambiato per un accenno di sorriso - Potenza delle gambe! Basta che uno sia leggermente diverso dalla norma che voi donne perdete la testa. Stupido io a fidarmi. La rivoluzione non è cosa da donne, questo l'ho sempre saputo. Ma da te, Francesca, mi aspettavo qualcosa di meglio...-
- Non è tutto - sospirò a mezza voce la ragazza, torturando con la destra il joy-stick della carrozzina in stand-by - Diciamo che se Paolo ha fatto breccia nel mio cuore significa che qualcosa si è incrinato dentro di me. Non riesco a condividere fino in fondo tutta questa rigidità. Mi sembra di vivere in un mondo irreale, artefatto. Diciamo la verità: dietro e dento questo nostro sistema così giusto e paritario, io adesso vedo tanta cattiveria, tanta invidia...-
- Come se prima le cose andassero meglio... Suvvia, non siamo patetici - sbottò il Conte - Ma come fai a dire una cosa del genere, proprio tu che sei l'esempio di come si possano valorizzare le doti di una bella ragazza anche se in carrozzina. Credi che i camminanti ti avrebbero lasciato vivere con altrettanta indipendenza? Ti avrebbero sfruttato, questo sì. Perché avresti fatto comodo, con il tuo visino per bene, con la tua storia strappalacrime bella pronta per i talk-show della sera. E poi? E poi niente, altro che indipendenza, autonomia, parità: avresti vissuto il tuo quarto d'ora di celebrità fino a quando un cialtrone qualsiasi, con l'aria del benefattore e del grand'uomo, ti avrebbe conquistato illudendoti di essere tu a scegliere. Tranne poi trovarti tutta sola in una grande casa, magari con la domestica filippina che pensa a tutto... Borghesi! Stupidi, altezzosi, protervi. Ma tu queste cose le sai, come puoi cadere nella prima trappola che la storia ti tende attraverso il cammino? Francesca, non deludermi. Posso anche capire un momento di debolezza, ma non chiedermi di tornare indietro. No: devi essere tu a vincere questa battaglia. Ce la puoi fare. Ce la devi fare. E se questo Paolo è il grand'uomo che dici...beh, vedrai che sarà lui a cedere, ad essere conquistato da te e da noi. Sarò felice di sigillare con il mio consenso la prima unione della Contea della Sacra Ruota fra "diversi". Ma intanto riabilitalo. Fallo ragionare. Prenditi tutto il tempo che ti serve. Non cedere. -
Francesca chinò il capo. Era quello che voleva sentirsi dire, o forse no. Solo che ora non aveva più energie, non era in grado di controbattere alcunché di ragionevole. Si era spinta troppo oltre nel dichiarare un sentimento da teenager. Di più: aveva quasi messo in discussione il grande leader della rivoluzione. No, per quella giornata poteva bastare. Aveva bisogno di riflettere, di prendere tempo.
- Va bene, signor Conte - sgranò gli occhi azzurri Francesca, con uno sguardo di disarmante dolcezza - Farò come voi dite. Combatterò due battaglie. Una per capire me stessa. E l'altra per portare sulla nostra strada il prigioniero. Spero che voi abbiate ragione. Ma se così non fosse, se così non fosse...
- Che cosa faresti? -
- Farei decidere al mio istinto e al mio cuore, ma voglio che sappiate che non vi tradirei mai, per nessuna ragione al mondo -. Una lacrima si fece largo all'angolo del cristallino, i nervi di Francesca stavano cedendo.
- Non essere così sicura. Non ti ho chiesto di giurare fedeltà. Voglio solo che tu ragioni e che sia coerente. La nostra contea è in pericolo, me ne rendo conto. Il mio grande torto è stato quello di dare una speranza a tutti. Ma la memoria è debole. Il passato, con il suo carico di umiliazioni e di miserie, non interessa più. I giovani non hanno sofferto per conquistare questa libertà. Per loro la carrozzina è normale, è giusta, è come un paio di scarpe da tennis nel mondo dei camminanti. Non ci sono più princìpi etici. - Giovanni dalle Ruote Nere strinse nervosamente le mani, guardò l'orologio e tagliò corto: - Basta, il tuo tempo è scaduto da un pezzo. E hai detto quello che dovevi dire. Le tue ruote vadano in pace. -
Francesca comprese che non c'era più niente da aggiungere. Si sentiva spossata, esausta, ma non soddisfatta. Sapeva che il peggio doveva ancora accadere.

 

10. In chiesa

Dunque era vero. Amava Paolo. Quello che da sola non era riuscita ad esprimere, improvvisamente, sotto l'incalzare logico e duro del Conte, era affiorato in superficie, come un sentimento cristallino ed evidente. Francesca uscì senza più rabbia in corpo, evitò lo sguardo indagatore di una Rosy imbronciata ma convinta di aver visto giusto. In un attimo fu in strada, accompagnata dai propri pensieri, bisognosa di riflettere, di fermarsi un momento. Una luce obliqua attraversava le vie del centro, infilandosi fra i palazzi antichi e austeri, e disegnando ombre cupe e tristi. Almeno così apparivano alla mente di Francesca, turbata e infelice.
E' sorprendente come l'animo umano sappia tendere trappole micidiali alle persone sensibili: ché anche le passioni più dolci si trasformano in tormenti, si arricchiscono di dubbi lancinanti e si circondano di incertezze, come se all'improvviso si riveli così importante sapere il séguito degli eventi, il dipanarsi della trama della vita, piuttosto che viverne i singoli momenti in rapida successione, lasciandosi guidare dalla propria forza, accettando il corso degli accadimenti, cullati da un destino quasi mai lineare, eppure giusto e imparziale, se si è capaci di leggerne in controluce la trama sottile e coerente.
Francesca era proprio in uno di quei frangenti che richiedono grande determinazione morale. Per la prima volta nella sua giovane vita era chiamata a decidere in piena libertà, ma nello stesso tempo temeva di compiere un salto nel vuoto, di lasciarsi alle spalle un patrimonio di certezze, di comode protezioni mentali, di acquisizioni sofferte sulla propria pelle e condivise con altri, con quei compagni di una rivoluzione che l'aveva infiammata e convinta, accompagnandosi al suo sviluppo di donna. Nonostante tutto il Conte aveva fiducia in lei. Perché? Forse sottovalutava le insidie di una situazione anomala, forse non riusciva ad abbandonare schematismi dogmatici di chi è avvezzo a comandare e a vincere. O forse aveva ragione. La situazione era meno grave e compromessa di come lei la vedeva. Forse Francesca era in grado di vincere la sfida, di mettere insieme l'amore e la lotta ideologica, la passione e la coerenza. E se invece Paolo si fosse rivelato diverso? Se il suo comportamento, passato il momento della debolezza determinata dalla prigionia, si fosse trasformato in quell'arroganza virile tipica dei camminanti, possessivi e presuntuosi, pronti a imporsi in nome di una pretesa superiorità fisica? In fondo aveva pochi elementi a disposizione per decidere razionalmente. Gli incontri in prigione erano stati sempre forzati e meccanici: i sentimenti, i turbamenti, i dubbi, si erano manifestati prima sull'epidermide che nella psiche. Dubbi, dubbi e ancora dubbi.
Francesca si scosse dal soliloquio interiore perché l'occhio venne catturato dal profilo scabro e solido del Duomo romanico. Una facciata priva di ridondanze e di fregi, semplice e coinvolgente. Una chiesa senza scale, e questo era un caso, una combinazione fortunata che aveva reso meno complicata la ristrutturazione del tempio dopo la rivoluzione. D'altronde la Chiesa, anche in pieno regime dei camminanti, aveva sempre cercato di strizzare l'occhio agli handicappati. Sì, magari esagerando un po', con quell'abitudine secolare a mettere insieme tutti i diseredati della terra, handicappati, prostitute, omosessuali, drogati. Ma l'importante era il messaggio, la Chiesa stava dalla parte dei più deboli, dei perdenti. Era questo esercito ingombrante e vilipeso a rappresentare nel suo insieme la speranza millenaria nel riscatto finale, nella palingenesi purificatrice dell'ultimo giorno. E poi se non ci si dedicava ai disabili, chi mai sarebbe andato a pregare, nei tempi dell'edonismo sfrenato che aveva preceduto la rivoluzione? Adesso il Duomo era lì, fresco e quieto, invitante nell'ora del pomeriggio che più induce alla meditazione e alla tregua. Francesca azionò il joy-stick di scatto, piegando sulla destra e infilando il sagrato quasi di corsa, sperando di non essere vista da nessuno. Aveva un disperato bisogno di pregare, e forse di parlare.
Varcato il portale si fermò qualche secondo per abituare la vista alla penombra. L'ampia navata centrale era completamente sgombra. Sul pavimento in cotto, piccole mattonelline in rilievo segnavano i posti riservati alle carrozzine, dieci file di cinque spazi perfettamente uguali, orientati verso l'altare, al quale si accedeva mediante un servoscala rivestito di legno scuro, che riprendeva il motivo dell'antico pulpito, ormai dismesso, dal quale tuonavano secoli addietro i predicatori provenienti da ogni parte. L'altare era semplice e modesto: si sarebbe detto un tavolo da frati, completamente aperto sotto il ripiano addobbato dai paramenti sacri, in modo da consentire alla carrozzina del sacerdote di muoversi in piena libertà, senza intralci di sorta. Ai lati della navata centrale si notavano i vecchi inginocchiatoi, caduti in disuso dopo la cacciata dei camminanti, e del tutto inadatti a ospitare i fedeli in carrozzina, eppure ancora utili, perché destinati ai non vedenti, gli unici autorizzati a usare le gambe, ché tanto la natura già aveva inferto loro un colpo almeno pari a quello toccato in sorte a paraplegici e distrofici.
Sopra l'altare campeggiava un Crocifisso ligneo, di scuola tradizionale, severo e inquietante, con quella posizione arcuata del corpo del Cristo trattenuto dai chiodi su una croce squadrata e priva di fantasia. Anche il Cristo testimoniava la perdita della posizione eretta, la rinuncia al simbolo della forza terrena, e il suo sguardo sofferente incrociava gli occhi dei fedeli che entravano nel tempio, e pareva interrogarli nel profondo, rivolgendo loro quella domanda universale che ognuno di noi, prima o poi, si pone: "Perché proprio a me questo destino?". Lui, il Redentore, una risposta l'aveva. Forte e gloriosa, come poteva essere la logica del Figlio di Dio, sofferente ma non vinto, anzi vittorioso proprio nel momento della sconfitta terrena, cercata con tenacia, costruita giorno per giorno, a futura memoria. Quanto ai fedeli di oggi - anzi, dell'inizio del Terzo Millennio - chi può entrare nelle singole coscienze? Ognuno ha il proprio tormento, o la propria serena certezza. La fede soccorre e aiuita chi ha l'umiltà di non credersi eterno. Ma son pochi ad ammettere, almeno in giovane età, di esser qui di passaggio, frammenti di un puzzle complicato e più volte ricominciato per il mischiarsi improvviso e folle delle sue tessere colorate.
Francesca percorse la navata centrale a velocità minima, alzando gli occhi al soffitto a sesto acuto, percorrendo con lo sguardo i rassicuranti contorni di un edificio nel quale troppo raramente si concedeva di entrare, presa com'era dalle incombenze del suo ruolo di guardiana scelta della Contea della Sacra Ruota. Ma quel giorno aveva davvero bisogno di un conforto, di una parola e di un gesto. Aveva bisogno di padre Tomaso.
Era questi un sacerdote non più giovane, in carrozzina per missione, anche se non colpito da alcun male. Aveva aderito alla rivoluzione di Handicap Power senza clamori, offrendo un luogo sicuro per la cospirazione, fornendo consigli e dispensando preghiere consolatorie. Uno spirito pratico e una semplicità di approccio al mondo della disabilità lo avevano aiutato a inserirsi nel movimento con naturalezza, anche se la sua indole non violenta lo portava a disapprovare certi eccessi, talune forzature integraliste che contrastavano con il messaggio cristiano, o almeno con quella versione tranquillizzante che a lui si confaceva particolarmente. Era l'ora per consuetudine antica dedicata alle confessioni. Da quando il regime si era imposto, ben pochi si presentavano in chiesa. Pochi peccati da raccontare, almeno di quelli tradizionali. L'omissione, colpa grave senza alcun dubbio, veniva da molti considerata alla stregua di un difetto veniale e ininfluente. Gli handicappati si ritenevano assai vicini alla santità, affrancati dall'obbligo di sottostare a riti e tradizioni per il sol fatto di essere "toccati" dal destino. Quasi che la malvagità non potesse albergare in un cuore di paralitico, o nel cervello di un amputato. I fatti che in queste pagine registriamo, testimoniano - ahimé - l'esatto contrario, ma la parabola della trave e della pagliuzza si adatta perfettamente anche a un cieco. Il compito di padre Tomaso, d'altronde, non era certo quello di allontanare con anatemi e rigidità d'altri tempi i pochi fedeli timorati di Dio.
E così anche quel giorno il sacerdote attendeva immerso nei propri pensieri che qualcuno si affacciase al confessionale accessibile, collocato nella navata di destra. Una costruzione un po' tozza ma pratica, con una porta a soffietto che consentiva l'accesso a un piccolo spazio in grado di contenere appena una carrozzina alla volta, con una grata di separazione che garantiva, come giusto, il segreto del confessionale. Francesca entrò con convinzione, chiuse dietro di sé la porta a soffietto, si segnò e parlò con voce sommessa.
- Padre Tomaso, dovete aiutarmi. -
- Sono qui, figliola. Ti aspettavo.-
- Come? Perché mi aspettava? Che cosa sa di me e dei miei tormenti? -
- Più di quanto tu possa immaginare. La nostra contea è piccola, le ruote corrono...-
- Meglio così. Mi sarà più facile chiedervi consiglio. -
- Parla, Francesca. Ne hai bisogno. -
- Padre Tomaso: è giusto quello che stiamo facendo? -
- Spiegati meglio, figliola. E' così difficile, oggi, stabilire che cosa è giusto e che cosa non lo è. -
- Voglio dire: che diritto abbiamo, noi in carrozzina, di costringere tutti a ragionare con la nostra mentalità? Solo perché siamo stati vittime di soprusi e di angherie per decenni? -.
- C'è un tempo per la giustizia, e c'è un tempo per il perdono. -
- Sì, ma quale giustizia? Io non mi sento appagata da un mondo che mi assomiglia come una goccia d'acqua. Amo la diversità, cerco il contrasto...-
- La stai prendendo alla larga, figliola. Se vuoi, parliamo di arte. -
- No, padre, mi scusi. E' che sono profondamente turbata. Cerco adesso di dare forma ai miei sentimenti, di mettere ordine nelle sensazioni che pulsano alle tempie e attraversano le vene, mi pare perfino che le gambe reagiscano e siano pronte a muoversi da sole...-
- No, ti prego, lascia stare i miracoli. Non ci proviamo più nemmeno noi, che in fondo siamo degli esperti. -
- Non volevo dire questo, andiamo. E' che finalmente mi sento viva. -
- Sei innamorata. -
- Sì. Almeno credo. -
- E pensi che questo basti a cambiare il mondo? -
- No, il mondo no. Ma io sì, io mi sento diversa. Ho più dubbi, finalmente provo dei desideri. Mi sento in una situazione di superiorità, perché in fondo dipende da me offrire una via d'uscita a un uomo che è debole e indifeso. Non mi era mai capitato nulla di simile. -
- Attenta alle apparenze, figliola. Non mi pare che l'uomo di cui parli, se non erro è il prigioniero, quel Paolo dagli occhi azzurri e dalle gambe robuste, sia propriamente un debole...O no? -
- Dovreste vederlo, padre. Anzi, dovreste farlo davvero, perché questo è il vostro compito... o sbaglio? -
- Senti, Francesca: non eri tu che avevi bisogno d'aiuto? -
- Sì certo, scusatemi. Ma sono così confusa. Il fatto è che io dovrei riabilitare Paolo e convincerlo a vivere come noi, con noi. A rinunciare alle sue gambe, voglio dire. Certo, a me stare in carrozzina non pesa, è la mia vita ormai da tanto tempo. Ma lui: deve piegarsi alla nostra logica solo perché abbiamo bisogno di un simbolo, di un esempio per il regime? Non sono più convinta di essere dalla parte giusta. -
- Ricordati, cara, che fino a pochi anni fa (e ancora oggi è così, basta varcare la frontiera della Contea), i camminanti non si ponevano e non si pongono tutti i tuoi dilemmi morali. La loro società, le loro case, perfino gli ospedali, erano strutturati secondo la logica di chi cammina e ci vede e ci sente. Con tanti saluti a quelli come te; o come me...-
- Ma padre, lei non ha nessun handicap...-
- Io ho accettato di condividere e di compatire, cum patire, ovvero soffrire insieme, perché questo é il messaggio, questo è l'annuncio glorioso di un mondo senza più l'alto e il basso, il lungo e il corto, il largo e lo stretto. -
- Sì, ma lei è un prete. E lo ha fatto per libera scelta, anzi, per vocazione. Ma Paolo, perché dovrebbe ridursi in carrozzina? -
- Ehi, bada come parli. Mi fai paura: "ridursi in carrozzina"? Ma ti sembrano espressioni da usare? Proprio te? Che cosa vuol dire "ridursi in carrozzina"? Ti senti forse inferiore a chicchessia? -
- No, padre Tomaso, certo che no. Ho detto così per farmi capire, perché cerco di entrare nella logica di Paolo: in fondo lui soltanto adesso si accosta al nostro mondo, è logico che abbia qualche difficoltà. E poi è così triste...-
- Ho l'impressione che tu ti stia lasciando prendere dall'istinto materno, cara figliola. Ti capisco, ti comprendo, ti perdono. Ma dai tempo al tempo. Non omne quod licet honestum est. Non buttare al vento tutti questi anni. Non capisci che sei tu uno dei simboli della nostra rivoluzione? "Beati gli ultimi, che saranno i primi": non lo dicono anche le Scritture? -
- Sì, ma Cristo ha ordinato a Lazzaro di alzarsi e camminare, non di mettersi seduto in carrozzina...-
- Ma quello era un miracolo, che c'entra. Gesù aveva bisogno di convincere gli scettici, e poi Lazzaro non era un handicappato come lo intendi tu. Quanto alle strade della Galilea, dubito fortemente che una carrozzina avrebbe potuto attraversarle agevolmente. Insomma, erano altri tempi, non confondiamo le carte in tavola. -
- E allora che cosa dovrei fare? La carceriera modello, dura e inflessibile come una capò in un lager nazista? -
- Ricordati del luogo nel quale ti trovi, figliola. Ti pare che io possa consigliarti virtù malefiche? Non è da te, e non è da me. Io credo che il buon senso e la saggezza, come sempre, debbano prevalere. -
- E come? -
- Fai luce sui tuoi sentimenti. Se davvero ami questo ragazzo, e se questo sentimento è da lui ricambiato senza condizionamenti di sorta, lasciati guidare dal tuo cuore e mantieni retta la tua coscienza. -
- Non capisco, padre. Mi sembra tutto così vago. -
- Il Signore ti indicherà la via giusta. Ogni cosa a tempo debito. E ora vai in pace. Ti perdono da ogni peccato. -
- Ma veramente io non ritengo di aver commesso peccati. E così lei non mi aiuta affatto. Che cosa devo fare? -
- Non vedi, figliola, che mentre parli hai già deciso? E non peccare di orgoglio, ricordati che anche tu puoi sbagliare. Resta con le ruote per terra. Non te ne pentirai... -
Un secco clic chiuse il dialogo. La grata si oscurò e padre Tomaso lasciò la povera Francesca sola con i propri pensieri. Eppure, in fondo, il sacerdote aveva ragione. La ragazza, in cuor suo, aveva già deciso.

 

11. Una lettera

Barbara aveva ormai chiuso la rubrica da tempo. "Posta senza barriere", si chiamava. Era la corrispondenza dei cittadini-lettori con La nuova frontiera, il quotidiano della Contea, un tabloid ereditato dal vecchio regime e requisito dal Conte, con l'aiuto di un gruppo di imprenditori e delle banche locali. Quanto bastava per diffondere le idee del governo e tranquillizzare il libero popolo degli handicappati al potere. Poche notizie dall'estero, ovvero dai territori dei Signori di Milano, ancor meno dal Regno delle Due Sicilie. Il grosso del giornale era rappresentato dalla cronaca locale, e anche questa, in verità, era assai scarsa. Le brutte notizie, nei limiti del possibile, si cercava di non darle. Qualche cerimonia pubblica, i resoconti del Gran Consiglio della Contea, interviste ai reduci della Rivoluzione, corsi pratici di cucina e di giardinaggio, recensioni blande di spettacoli teatrali, insomma un foglio un po' tetro ma necessario per mantenere il consenso. La mancanza di concorrenza faceva il resto, e così quelle diecimila copie al giorno necessarie alla sopravvivenza della redazione, otto giornalisti carrozzati e un non vedente al centralino, erano un risultato consolidato. La pubblicità non mancava, i necrologi con la foto del caro estinto e gli annunci commerciali garantivano perfino un certo guadagno.
Quel giorno Barbara, una poliomielitica che aveva lavorato abusivamente per vent'anni in un grande giornale della metropoli lombarda senza mai essere assunta, aveva faticato non poco a chiudere una pagina trita e banale: un po' di lettere insulse, l'oroscopo, la "ruota della sfortuna", ovvero il gioco riservato ai disabili anziani e soli. Ma gettando l'occhio sul bancone del centralino, dove Osvaldo, il telefonista cieco, rispondeva alle chiamate e apriva la porta a tutti, Barbara vide una busta semichiusa, senza affrancatura, evidentemente consegnata a mano. Con due colpi di ruota si portò a tiro, prese la busta, l'aprì del tutto ed estrasse un foglio spiegazzato sul quale un'incerta grafia aveva vergato un messaggio sconcertante: "Cara Nuova frontiera, non so più a chi rivolgermi. Sono una donna disperata. Aspetto un figlio. Manca un mese al parto. Sono riuscita a evitare che i medici intervenissero sul mio piccolo per modificarne i geni sanissimi: volevano farlo nascere almeno con la spina bifida. Ho corrotto il primario, tanto ci voleva poco. Io sono in carrozzina per una paraplegia, mio marito anche. Dunque non abbiamo nessuna malattia ereditaria, e speravamo tanto di poter avere un bambino sano, in grado di camminare, e magari di aiutarci quando saremo vecchi. Ma il regime non consente a nessuno di stare in piedi. E così questa creatura, che nascerà senza difetti, sarà costretta fin dalla più tenera età a rimanere seduta in carrozzina, a combattere l'istinto e la legge naturale. No, io non ce la faccio a compiere questa atrocità, devo trovare una via d'uscita. Aiutatemi voi, denunciate questo scempio. La terapia genica è giusta, ma deve essere indirizzata a buon fine, per guarire, non per ammalare i nascituri. Che rivoluzione è mai la nostra se arriviamo a queste conseguenze aberranti? Se non trovate voi una soluzione civile, io farò di tutto per farlo fuggire, per mandarlo lontano dalla Contea, perderò un figlio che ho tanto voluto, ma non verrò meno ai miei princìpi di madre...." La firma era illeggibile, il recapito ovviamente una casella postale anonima.
Paola emise un sospiro. Dunque era vero, il regime era arrivato al punto di costringere i medici a modificare i geni dei nascituri. Almeno in quei rari casi in cui le famiglie della Contea decidevano ancora di avere un figlio. La popolazione stava invecchiando rapidamente, nessuno desiderava per i propri figli un destino di handicap, anche se per se stessi si accettava senza problemi di vivere in carrozzina, magari dopo aver combattuto durante la rivoluzione proprio per affermare quei princìpi di autonomia e di indipendenza che erano i pilastri di Handicap Power.
Era ben strana, d'altronde, una Contea come quella. I genitori, quelli senza disabilità, i camminanti insomma, non erano ben accetti. Molti fra i cittadini del piccolo staterello erano infatti convinti che nel passato regime, quando comandavano i "normali", i genitori dei disabili erano fra i principali responsabili dell'emarginazione e della mancanza di autonomia dei disabili. Salvo lodevoli eccezioni, babbi e mamme diventavano iperprotettivi e arroganti, vittime e carnefici di un sistema di vita all'interno del quale il figlio disabile era vissuto come una proprietà da difendere e da conservare. Nella Contea i disabili avevano scelto prima di tutto di affrancarsi da questa dipendenza psicologica, che si era spesso trasformata in alibi per non affrontare da soli e con coraggio la propria esistenza. Ma in questo caso il destino voleva che la mamma stessa fosse una paraplegica. La giornalista sapeva che cosa avrebbe significato portare in riunione di redazione una lettera come quella. Era la guerra. Inutile e persa in partenza. Eppure la Contea era nata per la libertà dei disabili: come era potuto accadere, in così poco tempo, che si verificasse un'involuzione così grave, così irreparabile? "Noi giornalisti dobbiamo reagire, siamo la coscienza critica della gente, non possiamo tacere sempre" si disse Barbara, e armandosi di coraggio varcò la porta del direttore.
Tommaso Morelli era ancora scosso dalla telefonata di Giovanni dalle Ruote Nere. Aveva calibrato quell'editoriale, "Stringere i freni", centellinando le parole, distillando tutta la personale esperienza maturata in decenni di onesto e quieto mestiere. E in pochi secondi il grande condottiero lo aveva stroncato, ridicolizzato, offeso.
- Direttore, scusa se entro così di fretta. Ma stiamo per chiudere la cronaca ed è arrivata questa lettera. Penso che tu la debba leggere prima che io la metta in pagina... - Barbara provò a giocare d'anticipo, dando per scontata la pubblicazione, ben sapendo che le cose sarebbero andate assai diversamente.
Morelli lesse con calma, poi rilesse con calma ancora maggiore. Poi diede un'occhiata distratta alle ultime notizie di agenzia che scorrevano sul videoterminale: una vecchia tecnica per prendere tempo. - La firma non si legge, quindi è una lettera anonima - sentenziò - Mi meraviglio che tu voglia pubblicarla. -
- Ma direttore, pensi davvero che una mamma in queste condizioni metta nome, cognome e indirizzo?
- Per quel che mi riguarda, potrebbe essere tutto falso. E noi ci presteremmo a un indegno tentativo di denigrare il nostro sistema. E poi figurati il primario, quello ci querela e ci mangia le rotative. E' una causa vinta in partenza. Naturalmente da lui.
- Ma come si fa a inventare una storia del genere? Andiamo, non è plausibile. Perché non proviamo almeno a verificare come stanno le cose, magari ne viene fuori una bella inchiesta...
Il direttore si agitò sulla carrozzina di pelle con i braccioli di ebano: - Brava, una bella inchiesta, come no. Ma in che mondo vivi? Ma ti pare che questi siano tempi da "belle inchieste"? E' già tanto se riusciamo a mantenere il posto di lavoro. Se tu sapessi... - E il pensiero correva di nuovo alla telefonata del Conte.
- Ho sofferto vent'anni per conquistare un po' di dignità...- cercò di ribattere Barbara - non dico che noi giornalisti dobbiamo fare gli eroi, però un minimo d'impegno sociale credo che sia ancora doveroso: o no?
- Il giornale lo dirigo io e questa lettera non si pubblica. Punto e basta. E poi usa la testa: se è vero quel che c'è scritto, non ti viene in mente che il nostro editore, che, guarda caso, è anche il maggiore, anzi l'unico, produttore di carrozzine elettriche della Contea, potrebbe essere leggermente irritato da un'inchiesta che metta in dubbio l'obbligatorietà della sedia a rotelle per tutti, neonati compresi?
Barbara arrossì, si morse un labbro per non replicare. Girò la carrozzina e uscì in silenzio. Ma appena fuori dall'ufficio del direttore, la sua attenzione venne richiamata dal cicalino del suo telefono. Si precipitò alla scrivania e afferrò il ricevitore. - Pronto, qui la Nuova frontiera..
- Sbrigatevi a venire all'università, che qui stanno succedendo cose mai viste... - Un clic di fine conversazione troncò immediatamente quella comunicazione anonima. Barbara comprese che quel giorno il suo piccolo mondo stava subendo un'accelerazione improvvisa. E il brivido della vecchia cronista d'assalto le percorse il filo della schiena.

 

12. La rabbia

L'antica aula magna dell'università era stata ristrutturata senza lesinare sulle spese. Il vecchio palazzo cinquecentesco era sempre stato inaccessibile per i pochi disabili che avessero avuto l'ardire di proseguire gli studi. La Soprintendenza aveva ripetutamente proibito interventi di abbattimento delle barriere: i monumenti non si toccano, era il princìpio dell'ancien régime. E così Giovanni dalle Ruote Nere, appena conquistato il potere, decise che questo era il luogo simbolico più significativo da portare rapidamente a misura di carrozzine. Sostituiti i vecchi e stretti ascensori in ferro battuto, con le pulegge e le corde a vista, che avevano portato su e giù per decenni professori emeriti e aspiranti baroni, adesso brillavano le cromature di elevatori automatici a turbina, veloci e silenziosi, capaci di ospitare contemporaneamente almeno quattro carrozzati. Il bello scalone in marmo di Carrara era stato abbattuto a colpi di piccone e al suo posto una rampa rivestita in materiale antiscivolo faceva pensare più a una autorimessa multipiano che a un glorioso Ateneo. Ma la rivoluzione non ammetteva eccezioni, e così il nuovo corso aveva sortito i suoi effetti.
L'aula magna, in particolare, brillava per modernità: una rampa di lieve pendenza saliva in dolci tornanti fra le file di posti destinati ad alloggiare le carrozzine degli studenti. I banchi erano regolabili in altezza e in inclinazione, ciascuno era provvisto di computer a comando vocale con cuffia personalizzata e pulsanti per avvisare i docenti dei quesiti che si volevano porre durante le lezioni. Anche gli insegnanti, ovviamente, erano tutti in carrozzina, tranne i non vedenti che, come già si è detto, godevano di questo sia pur discutibile privilegio di poter camminare (a loro rischio e pericolo, vista la nota questione dei soffitti bassi). E dunque l'imponente scranno dei docenti era provvisto di elevatore a cuscino d'aria, per dare una doverosa impressione di leggerezza e di superiorità rispetto agli studenti. Una lavagna luminosa veniva azionata attraverso comandi laser a sfioro, situati ai lati dello scranno, e un sistema automatico di oscuramento delle ampie vetrate consentiva la proiezione di videotapes e di lucidi.
Ma quella sera non c'era nessun emerito docente della libera università della Contea della Sacra Ruota a tenere banco in quell'aula. L'emiciclo era occupato dagli studenti, e un drappello dei più anziani si era impossessato dei microfoni.
- Amici, compagni, non facciamo casino. Abbiamo poco tempo a disposizione prima che arrivino le guardie. Questa occupazione simbolica dell'aula magna deve concretizzarsi in un documento a sostegno della lotta che il movimento ha deliberato per difendere i princìpi di libertà e di autodeterminazione che sono stati traditi dal regime. - Renato, il leader del movimento, scandiva le parole con calma apparente, anche se era consapevole della gravità del momento. Applausi e fischi di approvazione salutarono il suo richiamo all'operatività. Ragazzi e ragazze si tenevano per ruota, e cantarono l'inno del movimento, "Eppure soffia ancora" di quel tal Bertoli da Sassuolo, del quale si erano perse le tracce da qualche tempo, ma che rimaneva un mito per i paraplegici più giovani, al pari del "Che". La rivoluzione tradita, dunque. Ecco la grande accusa che veniva dal movimento studentesco. Prese la parola Giovanna, una focomelica arrivata nella Contea dal Meridione: "Io ero venuta qui carica di ideali e di voglia di cambiamento - tuonò nel microfono - Come il movimento femminista aveva cambiato decenni fa la nostra condizione di donne, così Handicap Power rappresentava la risposta di massa, popolare e autogestita, al potere persecutorio e imperialista dei normodotati camminanti, una tigre di carta che si è afflosciata su se stessa, sotto i colpi di un movimento capace di sviluppare un'analisi corretta dei rapporti di classe e di mettere in circuito "l'altra metà del suolo", che, compagni, non dimentichiamolo mai, siamo noi, noi tutti, senza distinzioni di handicap né di razza. Ma adesso che cosa è rimasto della rivoluzione e del nostro grido di libertà? Un regime fantoccio, autoritario e grottesco, capace di reprimere ogni soffio di libertà. Noi non volevamo una Contea per soli handicappati, noi volevamo essere la misura delle cose e dei servizi, aspiravamo a un mondo migliore, nella misura in cui anche i camminanti avrebbero potuto comprendere i propri errori, fare autocritica e ricominciare da capo, senza arroganza e senza prevaricazioni. Sono stanca di vedere carrozzine dappertutto! Questa è una farsa, è un brutto sogno! Abbasso il Conte, dobbiamo gridare alto e forte il nostro desiderio di libertà - . Un attimo di silenzio, poi un'ovazione incontenibile. Giovanna aveva dato corpo alla rabbia repressa per tanto, troppo tempo. "Sì, usciamo dall'università, andiamo in corteo sotto le finestre del Palazzo, facciamoci sentire" gridavano alcuni fra i più agitati.
- Stiamo attenti, compagni - cercò di frenare Renato, con la consueta saggezza dei distrofici, abituati a dosare bene le energie - E' prematuro un gesto del genere. Manteniamo le posizioni. Qui dentro i gendarmi del regime non entreranno. Ma se noi usciamo allo scoperto rischiamo di subire una reazione violentissima, e le conseguenze potrebbero essere gravi, catastrofiche. Non facciamo il gioco della reazione... - Ma ormai gli animi si erano eccitati, il desiderio di un gesto eclatante aveva acceso le guance dei giovani. Le carrozzine cominciarono a incolonnarsi verso l'uscita, spuntò un cartello: "La ruota non ha vertici. Il potere è del popolo". Un'altra scritta, "Konte boia, ridacci la rivoluzione", venne fatta sparire al più presto. Il portone dell'ateneo si aprì e nel grande piazzale gli studenti uscirono spavaldi. Ma ad attenderli c'era la Gendarmeria Corazzata in assetto di guerriglia.

 

13. La paura

Le prime file degli studenti si arrestarono sbigottite: era la prima volta che nella Contea si stava sfiorando lo scontro con le forze dell'ordine. Una leggera brezza attraversava il piazzale, ovattando i rumori, smussando i toni di una scena che sembrava bloccata su di un unico fotogramma, volutamente stoppato da una moviola invisibile. I colombi, appollaiati sulle merlature dell'antico palazzo degli studi, osservavano pigri i due schieramenti silenziosi e tesi. Il sole continuava dolcemente a calare, scivolando obliquo alle spalle del monumento alla Vittoria, una ruota stilizzata che campeggiava gloriosa su un prato di mimose: la ruota, sotto la spinta del vento, compiva lenti giri su se stessa, e un ingranaggio, collegato al mozzo, dava forza a una cinghia metallica che a sua volta faceva vibrare più in alto lo stendardo della Contea, quel simbolo internazionale della carrozzina su fondo rosso, con il motto: "La vita è una ruota". Un'opera strana e intrigante, che aveva suscitato più di qualche protesta fra i benpensanti cultori dell'arte, ma trattavasi del capolavoro di un allievo dello svizzero Tinguely, e tanto bastava a tappare la bocca dei critici più accesi.
I raggi del sole, attraversando ritmicamente la ruota mossa dal vento, sparavano lampi infuocati e abbaglianti come flashes impazziti sui volti pallidi dei gendarmi, mentre gli studenti restavano nel cono d'ombra creato dal palazzo. Renato colse il momento del massimo silenzio per portarsi alla testa dell'improvvisato corteo. Non più di venti metri separavano i due schieramenti. I gendarmi erano a bordo delle motocarrozzette blindate, con le visiere dei caschi ancora sollevate verso l'alto, ma con gli addormentatori d'ordinanza già armati e pronti al fuoco. Ai lati delle motocarrozzette rilucevano le canne delle mitragliette spara-biglie per sedare i tumulti. Ma il vero deterrente alla marcia degli studenti era già stato predisposto: al suolo, longitudinalmente, l'intero piazzale era cosparso di chiodi a tre punte; nessuna carrozzina avrebbe potuto passare senza danni al di là di questa barriera acuminata. Un cavo sottilissimo di acciaio collegava i chiodi l'uno all'altro, come perle di una collana, e il comandante della gendarmeria poteva così decidere, in pochi istanti, di rimuovere la barriera come fosse una rete da pesca. Era uno dei tanti espedienti ideati dal movimento rivoluzionario Handicap Power per vincere le piccole scaramucce che avevano preceduto la fine delle ostilità con i Signori di Milano. Ma era la prima volta che questi strumenti potevano rivoltarsi contro i cittadini stessi della Contea. Bastava un attimo, un grido, un gesto, e l'irreparabile si sarebbe compiuto.
E Renato parlò: - Compagni, non commettiamo adesso un errore imperdonabile. Se cadiamo nella provocazione e accettiamo lo scontro fisico, imbocchiamo una via senza ritorno, e non avviciniamo di un millimetro la soluzione dei nostri problemi. Formiamo invece una piccola delegazione, e chiediamo ai gendarmi di fare largo per consentirci di andare a conferire con il Conte Giovanni dalle Ruote Nere. Che prevalga, nonostante tutto, la saggezza - .
- La polizia se ne deve andare! - gridò qualcuno nella retroguardia degli studenti. - Sì, è vero. Prima loro se ne vanno, poi noi decidiamo il da farsi. La piazza è nostra, la piazza è di tutti! - fece eco una ragazza . - Basta con la moderazione, ecco a che cosa ci ha portato! - urlò un altro giovane, uno spastico con la barba che si agitava su una carrozzina nera. I gendarmi fecero scattare le sicure degli addormentatori. Qualcuno di loro masticava nervosamente gomma americana, altri si massaggiavano ritmicamente le nocche, pronti a dimostrare in silenzio e senza tanti complimenti quale poteva essere la risposta dell'ordine costituito. Renato comprese che il tempo stava stringendo, un nodo di paura gli strinse la gola: - Amici, compagni. Avete ragione. Avete ragione tutti. Questa è una grave provocazione, inaudita. Ma lasciatemi andare avanti da solo, o con due di voi che si offrono di accompagnarmi. Vedrete che nessuno avrà il coraggio di fermarmi - . - Va bene, io ci sto - rispose subito Giovanna, la focomelica - Non è giusto che tutti i compagni corrano il rischio delle botte. Io non ho paura di niente: voglio proprio vedere se hanno il coraggio di picchiare una ragazza che per di più non ha neppure le braccia... - .
- Vengo anch'io - si fece avanti lo spastico con la barba, srotolando lentamente le parole, e dondolandosi sulla carrozzina manuale che spingeva con incredibile fatica - Voglio proprio sentire che cosa ci risponde il Conte - .
Gli altri studenti arretrarono di qualche giro di ruota, in direzione del portone dell'Ateneo, quasi a voler presidiare quell'ultimo baluardo di autonomia. Il comandante della guarnigione alzò il braccio destro e ordinò al suo plotone di aprire un piccolo varco, disponendosi su più file e rimuovendo i chiodi a tre punte. Un verricello cominciò a cigolare all'angolo del piazzale e i chiodi, stridendo sul porfido, lanciarono nell'aria un sinistro lamento. La battaglia, almeno per ora, era scongiurata.
E così avvenne che un distrofico, uno spastico e una focomelica si trovassero improvvisamente al centro della storia, testimoni non violenti di una vicenda complessa ed emblematica. Come spesso accade, sono le persone meno appariscenti a compiere i gesti più importanti. Il coraggio che viene dalla consapevolezza di non aver molto da perdere è assai maggiore delle energie a disposizione dei superbi e degli arroganti. Renato, Giovanna e Matteo (era questo il nome dello studente spastico) si mossero come cavalieri dimezzati di un'antica crociata, abbandonando lentamente le file amiche degli studenti in lotta, e, dopo aver attraversato la piazza che impercettibilmente stava per essere invasa dalle ombre della sera, si infilarono a testa alta fra due ali maestose di gendarmi intenzionati a incutere un sano timore nel piccolo drappello dei capipopolo. Messaggeri invisibili e accorti avevano già fatto sapere che il Conte era disponibile a ricevere subito una delegazione degli studenti, e che invitava i gendarmi ad evitare inutili prove di forza.
Una piccola folla di curiosi - come sempre accade - accompagnò l'insolito corteo. Qualche commerciante timoroso del peggio abbassò le saracinesche e chiuse bottega anzitempo - la prudenza, si sa, si accompagna di buon grado agli affari - borbottando frasi generiche del tipo: "Questi giovani non vogliono più studiare, a che punto siamo arrivati!". E la nostra Francesca, che abbiamo lasciato scossa e turbata dal monito di padre Tommaso, uscì sul sagrato del Duomo proprio nel momento in cui il piccolo corteo lo stava attraversando silenzioso, in direzione del palazzo del Conte.

 

 

14. La solitudine

Gli ultimi raggi del sole stavano scendendo, infuocati e lenti, dietro i merli delle antiche mura della Contea. Paolo osservava ipnotizzato questo spettacolo naturale, l'unico evento che in qualche modo ancora lo collegava a una normalità ormai remota. Lì, all'ottavo piano del carcere, quella convulsa giornata della quale abbiamo seguito i complessi accadimenti, si era invece dipanata con i ritmi lenti che si addicono ad una detenzione. A Paolo non rimaneva che la forza della mente, il lavorìo del pensiero che si interrogava, istante dopo istante, sui possibili sbocchi di una situazione surreale e imprevedibile. Doveva avere la pazienza di attendere la grande occasione della fuga. Prima o poi sarebbe arrivata, non foss'altro perché i guardiani, in fondo, erano dei veri handicappati. Furbi e robusti fin che si vuole, ma pur sempre disabili di prima categoria, e quindi, per un gigante come Paolo, per di più addestrato da anni di servizio militare per i Signori di Milano, un impedimento superabile, solo che si fosse verificata un'opportunità autentica.
Aveva voglia di camminare, di correre, di mettere in moto quelle lunghe leve di un organismo programmato per bruciare energie, per esaltare la forza e il dinamismo. Aveva provato per ore a immaginare una corsa nei campi, doveva assolutamente sforzarsi di non perdere la memoria della propria condizione di camminante, come veniva definito in questo strano posto dagli handicappati della Contea. Guai se il suo cervello avesse per qualsiasi motivo rinunciato a combattere e a metabolizzare i gesti mandati a memoria in anni e anni di automatismi naturali. La prima sconfitta sarebbe stata anche l'ultima. Era quello che volevano, quei maledetti aguzzini. "Riabilitazione" la chiamavano. E non si rendevano neppure conto dell'ironia involontaria di questa espressione utilizzata alla rovescia. "Riabilitazione", fino a prova contraria, voleva dire rimettere in piedi chi non cammina più. Come era possibile che i valori venissero così assurdamente capovolti, che si ritenesse davvero preferibile vivere in carrozzina, perennemente seduti, impacciati nei movimenti, in balìa di un attrezzo a quattro ruote, spesso mal costruito, e privo di qualsiasi comfort?
Camminare, dunque, e correre. Almeno con la mente. Uno, due, uno, due, e poi saltare, alti sopra la siepe, e poi voltarsi per vedere il distacco sugli inseguitori, prima di riprendere a grandi falcate, attraversando un campo immenso, di erba soffice e verde, sulla quale i piedi, in una cadenza regolare e sincronizzata, lasciano impronte morbide e precise. Alternare l'avanzare ritmato dei piedi con il bilanciato movimento delle braccia, respirando senza affanno, con la bocca semiaperta e con la testa alta, a tener dritto il tronco, bilanciando il corpo come un metronomo di precisione. Correre con levità, sentendo il sottile piacere del peso che si scarica alternativamente a destra e a sinistra, avanti e indietro, secondo regole che geneticamente si tramandano di generazione in generazione, da quando la scimmia assunse con un grido di trionfo la posizione eretta, e divenne, senza saperlo, il primo uomo. Camminare e correre, accelerare e rallentare, rifiatare e poi riprendere ritmo, senza fermarsi, saltellando in surplace, con movimenti defatiganti che restituiscono elasticità ai muscoli, che guizzano veloci sotto una pelle imperlata di sudore. Camminare e correre con la mente, un esercizio crudele e salvifico, una lotta contro la sopraffazione degli handicappati, un estremo rifiuto dell'omologazione. Così Paolo aveva percorso l'arco della giornata. Per non pensare, per non soffrire. Seduto sulla carrozzina, ma mentalmente eretto e libero, difendeva la propria psiche dal collasso nervoso, e rimandava a tempi migliori l'opportunità di un ritorno alla normalità. Ma ogni tanto, in un angolo del cervello, si affacciava un volto, dolce e sofferente. Era lei, Francesca, quell'angelo costretto a vivere un ruolo rude e innaturale. Paolo non riusciva a dimenticarla, non poteva nascondere a se stesso la forza di una vibrazione che lo attraversava ogni volta che pensava a lei, al suo carceriere speciale.

 

15. Il desiderio

Quei volti infiammati dalla passione politica avevano acceso di speranza il cuore di Francesca. I dubbi, i trasalimenti, i turbamenti che si erano ingigantiti durante la confessione in Duomo, vennero spazzati con l'aria fresca della sera: un brivido percorse la schiena della ragazza. Finalmente comprese di non essere sola. Quegli studenti in corteo, circondati dai gendarmi che pure davano segno di rispettarne la forza morale, erano la conferma che qualcosa doveva cambiare, e subito, nella gestione della Contea. Francesca non poteva certo conoscere i contenuti della loro protesta, ma ne assorbì subito l'atmosfera di lotta e di idealismo, quell'aria vincente che hanno i giusti quando sanno di combattere per una causa comune. E d'altronde era stata proprio questa convinzione di battersi per un futuro migliore e più equo a farla aderire a suo tempo con entusiasmo al movimento, negli anni ruggenti della rivoluzione. Ma adesso le cose erano cambiate, ingrigite, rattrappite.
Francesca lasciò scorrere davanti a sé il folto drappello, osservò con affetto le espressioni di Renato, Giovanna e Matteo, li seguì con lo sguardo mentre si avvicinavano al palazzo del Conte, e subito dopo prese di gran carriera la strada della prigione. Ormai nella sua mente le ombre si erano diradate, e un lucido disegno si andava componendo, un disegno d'amore, un desiderio forte di rivelare i propri sentimenti. Paolo non doveva restare un minuto di più in carcere. Avrebbe dovuto escogitare uno stratagemma per farlo uscire, sotto la sua sorveglianza. La sera era propizia, con quella tensione in città provocata dagli studenti. Nessuno avrebbe badato a lei, che fino a prova contraria aveva una delega speciale del Conte per occuparsi del prigioniero camminante. E così arrivò davanti al carcere fredda e determinata ad agire. Infilò l'ascensore con decisione, sfiorò il tasto dell'ottavo piano. Ancora una volta le luci si abbassarono e una musica dolce accompagnò la velocissima salita. Il cicalino suonò per segnalare l'apertura delle porte scorrevoli, Francesca uscì azionando bruscamente il joy-stick, e una voce la fece trasalire.
- Ehi, bella, dove credi di andare? - . Giuseppe, il secondino che quella mattina l'aveva apostrofata volgarmente, non perse l'occasione per farsi notare.
- Vado dal prigioniero per concordare le modalità della riabilitazione esterna, che comincia questa sera con un primo esercizio di mobilità autonoma - rispose professionale e secca la ragazza. - E poi non devo rendere conto a te. Stai al tuo posto, se non vuoi che faccia subito rapporto al Conte. Sono stata oggi da lui, e ti assicuro che non è giornata... -.
- Oh; scusami tanto, gran dama. Ma come sei suscettibile, oggi. Non vorrei che con la scusa della riabilitazione tu intenda spassartela con quel camminante. Comunque sono fatti tuoi. La strada la conosci, o no? -
Questa volta Francesca non badò neppure alle insinuazioni del carceriere, e tirò dritto. Il cuore le batteva forte. Erano trascorse poche ore dall'ultimo incontro. Eppure quante cose erano cambiate nel frattempo. Ma se Paolo invece non avesse condiviso la sua passione? Se la sua fosse stata un'illusione da adolescente infatuata? Francesca si arrestò davanti alla porta della cella. Una cosa era certa: lei lo avrebbe liberato. Quanto all'amore, non era così decisivo. O almeno in quel momento non voleva pensarci. Aveva tanta paura di sbagliare, di essere fraintesa. O peggio, di essere umiliata. Si rese conto in quegli istanti di avere rimosso troppo a lungo una parte di se stessa.
Come in un flashback, le apparvero alla memoria scene di un film già visto, un copione scadente, un finale scontato. Pochi mesi prima della rivoluzione, quando ancora viveva nel mondo dei camminanti. Una serata in discoteca. Lei in carrozzina, al centro della pista, a dimostrare che anche sulle ruote si può ballare il samba, impennando e roteando, scuotendo i capelli al ritmo dell'orchestra. Lui che la guardava e rideva, sorseggiando un Martini. La guardava e la desiderava. Lei che non aveva ancora provato il gusto della trasgressione, convinta di non poter piacere davvero a un uomo normale. Finito il ballo quell'invito a passare da casa. Giusto per ascoltare un disco e fare due chiacchiere in libertà. Lui era bello, forte e cortese, un giovane manager di un'azienda di tessuti del Veneto. Lei si sentiva pronta all'avventura, doveva provare, doveva dimostrare a se stessa che anche in carrozzina si possono provare emozioni forti e veloci, quelle che un dannato incidente le aveva precluso, condannandola al ruolo di eterna amica, bella ma asessuata, un angelo biondo sulle ruote, inoffensiva e ridicola. Quella sera finalmente sentiva il desiderio di buttarsi, di varcare il limite. Lui la prese per mano, uscirono insieme nel fresco umido della notte... E poi, subito, un altro fotogramma riaffiorò alla memoria: lei distesa sul letto sfatto, con le gambe nude abbandonate in un angolo innaturale, col respiro affannato e i vestiti slacciati. Lui seduto sul bordo, che le voltava la schiena, silenzioso. - Sai, non pensavo che fosse così. Non ce la faccio. Sei bellissima, ma quelle gambe inerti, fredde...mi sembra di usarti violenza, non voglio farti del male, meriti di più, meriti affetto. Insomma, scusami, ma io non me la sento. - Lei risalì in carrozzina senza dire una parola, si chiuse la porta alle spalle e pianse.
Francesca si scosse bruscamente dai ricordi che le avevano attraversato la mente con violenza. Curiosamente si rese conto di non ricordare neppure il nome di quel ragazzo. Non doveva lasciarsi prendere dalle paure e vincere dall'orgoglio. Paolo era diverso, era indifeso, era il suo prigioniero. Azionò con forza il comando di apertura della cella, e la porta blindata lentamente si aprì. Paolo le voltava le spalle: era assorto nei suoi pensieri, affacciato alla finestra che dava sulle mura della Contea.

 

16. Il piano

- Hai fatto progressi con la carrozzina, quest'oggi, o no? - esordì Francesca, fredda e impersonale. Paolo trasalì e si scosse dal tormento dei suoi pensieri. Girò di scatto la sedia a rotelle con un gesto perfettamente sincronizzato. Francesca rise nervosa: - Bene, non c'è neppure bisogno che tu mi risponda. Sei un campione, fra poco potrò darti la patente. - Paolo avvampò: - Ma quale patente. A momenti mi ammazzavo con questo arnese. Ho provato a spingere con forza e mi sono ritrovato a testa in giù con i piedi per aria. Vorrei sapere chi diavolo progetta questi strumenti di tortura. Se proprio vuoi saperlo, te la tirerei in testa, la tua bella carrozzina. -
- Cominciamo bene, caro il mio prigioniero. Mi deludi, ancora una volta - .
- Una cosa è certa, mancate del senso dell'umorismo. Vedete tutto dalla vostra altezza, che francamente non è un granché -.
- Ha parlato il gigante buono. Cerca di piantarla con quell'aria da vittima. Ricordati piuttosto che se tu sei qui, in questa cella, è perché te la sei cercata. -
- Senti, giovane amazzone del movimento, mi stai pure simpatica. Ma smettila di provocare, perché non ne ho proprio voglia. -
- Ah beh, se la metti su questo piano... Vorrà dire che me ne vado senza di te... - .
Paolo si scosse immediatamente: - Che cosa vuol dire "senza di te..."? Che vorresti farmi uscire da questa spelonca? -
- Se ti comporti così, no di sicuro. Ma se accetti qualche buon consiglio, se ne può parlare... Diciamo che è un esperimento di riabilitazione in esterno. Ma dipende tutto da te -.
- Fammi capire: oggi mi hai insultato perché non mi sottopongo di buon grado alla vostra disgraziata idea di "riabilitazione" e stasera arrivi qui col tuo bel faccino a dirmi che mi vuoi portare fuori? Si può sapere che cos'è successo? - .
- Ogni cosa a suo tempo - cambiò tono Francesca, per non scoprire subito il proprio piano. - Per ora dimmi solo se te la senti di uscire di qui senza fare tante storie e spingendo da solo quella splendida carrozzina che la Contea ti ha messo a disposizione. Altrimenti ti auguro subito la buona notte e se ne riparla domani. O forse mai. Perché potrei farmi sostituire da Giuseppe, il tuo amico qui fuori, visto come collabori al mio programma... -.
- No, Giuseppe no. Quello è una bestia. Va bene, dimmi che cosa devo fare. -
- Niente, devi spingere la carrozzina e seguirmi. Guai a te se accenni ad alzarti. Devi dimostrare a tutti che sei "riabilitato". Ti sto offrendo un'occasione unica, credimi. Non vorrei pentirmi di questa fiducia. Non so perché lo sto facendo...- e qui la voce le si incrinò leggermente.
Paolo rimase in silenzio qualche istante. Intuì che la ragazza stava per dirgli qualcosa di importante e di personale. La guardò con occhi nuovi: era bella, davvero bella. Una nuova luce le illuminava il volto delicato. Era come se improvvisamente stesse vivendo una fase nuova, coraggiosa e imprevedibile. Forse l'incubo di quella assurda detenzione era destinato a scomparire. Forse la vita ricominciava. Ma era il momento di rimanere calmi, di non lasciarsi trascinare dalle emozioni.
- Francesca, va bene, sono a tua disposizione. Dimmi che cosa devo fare - .
- Come mai adesso mi chiami Francesca? Non hai più paura della tua carceriera? -
- Mi è venuto spontaneo, non so bene perché. Ho come l'impressione che tu voglia dirmi qualcosa di più - .
- Per il momento non farmi troppe domande. Diciamo che devo verificare fuori da questo ambiente se sei cambiato, se puoi uscire dallo stato di detenzione. Questo significa, per stasera, che ti invito a cena, a casa mia. Poi, naturalmente, dovrò riportarti in cella - .
- Mi sembra un po' strano come metodo di controllo, ma non ho nessuna voglia di discutere. Spero solo che non sia una trappola. Ma non credo, penso ormai di conoscerti un po'. Mi fido. -.
E improvvisamente Paolo allungò il braccio andando a sfiorare la mano di Francesca. Un gesto semplice, asciutto, rapido. E Francesca strinse quella mano, tremando. - Tu tremi, hai paura? - . - Sì, tanta. Dio ci aiuti. -. - Allora non mi hai detto tutto -. - Aspetta, non chiedermi nulla. Devi fidarti - . Paolo ritirò la mano, si sciolse da un contatto fisico al quale non era preparato. Aveva voglia di alzarsi e gridare di gioia. Ma c'era un tempo per ogni cosa. Adesso l'importante era uscire. Tornare a riveder le stelle. Con Francesca.

 

17. Il disincanto

Stanco. Si sentiva incredibilmente stanco. Una scarica lenta di contrazioni nervose fece vibrare le gambe come da tempo non accadeva. Il Conte spinse allora in avanti il bacino, appoggiò con forza le spalle allo schienale della carrozzina e con la mano destra sollevò l'incavo del ginocchio, per assecondare la distensione dei nervi e dei muscoli. Un gesto defatigante che lo riportò alla giovinezza, quando il suo organismo ancora si rifiutava di accettare la ferrea sentenza di un destino ineluttabile. Giovanni dalle Ruote Nere aveva bisogno di riflettere con calma. Era una giornata particolare, davvero particolare, quella che stava terminando in un tramonto infuocato. Si fermò davanti all'ampia finestratura che dal suo ufficio dava sulla piazza del palazzo di Governo. Una vetrata a specchio impediva che dall'esterno si vedessero i movimenti del palazzo. E Giovanni amava molto, terminati gli adempimenti del potere, dedicare qualche minuto ad osservare il viavai della gente nell'ora più dolce e indolente, quella del ritorno a casa. Era un modo per verificare dall'alto lo stato di salute della Contea. Le carrozzine elettriche che sfrecciavano silenziose, ognuna con una meta precisa, le poche autovetture autorizzate a transitare nel centro cittadino, e soprattutto i giovani che si davano appuntamento sotto i freschi portici, per avviare amicizie, per sognare avventure, per commentare i risultati del campionato di basket in carrozzina. Si sentiva come un papà, buono e incompreso come tutti i papà. La Contea era la sua creatura, un sogno dolce e potente, realizzato con la forza delle idee e delle armi. Era l'unico posto al mondo nel quale la disabilità era una forza, era la misura delle cose.
La memoria storica: ecco qual era il problema. Ancora una volta, si trattava di memoria storica. Il popolo dimentica in fretta. Rimuove i cattivi ricordi. Preferisce seppellire l'odio nell'oblio. La fretta di ricominciare a vivere, il gusto per la libertà riconquistata, la gioia di essere liberi: la rivoluzione aveva bruciato i suoi cento fiori in una stagione breve e intensa. E già si respirava l'aria dello scontento, del disincanto. Giovanni aprì il bracciolo della carrozzina imbottita e sfilò dall'astuccio un sigaro profumato. Con cura ne verificò il tiraggio, eliminando gli eccessi di tabacco dalle parti, e poi lo accese con una strana, intensa voluttà. Aveva bisogno di questo momento tutto per sé. Si sentiva incompreso e solo. Ma non provava rancore, né rabbia. Era in uno stato d'animo particolare, quasi di sospesa nostalgia. Probabilmente era vero che le più grandi vittorie sono quelle che si sognano e che devono ancora avvenire. Lui, Giovanni dalle Ruote Nere, era un leader indiscusso e atipico. Aveva saputo creare un movimento forte e compatto proprio negli anni più bui della disgregazione della Prima Repubblica.
Ricordava ancora la miriade di sigle e di sedi, dietro le quali un ceto accattone di handicappati stolidi lucrava sulle disgrazie altrui, guardandosi bene dal cambiare le cose, partecipando per poche lire allo scempio dello stato sociale e all'imbarbarimento dell'assistenza, dopo la disgregazione del governo centrale. E poi c'era il volontariato, anima buona del sistema al potere, giustificazione morale dell'inefficienza, con quella ambigua parola d'ordine: "non profit". Nessuno, a parole, ci guadagnava. Eppure fiorivano le sedi e i circoli, gli organi di stampa e i convegni, in un meccanismo perverso il cui unico obiettivo era lasciare le cose esattamente come stavano, con gli handicappati a fare gli handicappati, con una pensione da fame e un tesserino sanitario per pietire l'elemosina di un'assistenza sempre più indecente. Lui, Giovanni dalle Ruote Nere, era stato capace di trasformare questa corte dei miracoli sparsa in tutto il Paese in un esercito glorioso e marciante, capace di vincere scaramucce e battaglie, di conquistare sul campo il diritto alla parità e al rispetto. La Contea era l'Utopia realizzata. L'esperimento più difficile e arduo della nuova civiltà.
Non si poteva tornare indietro proprio adesso. Era troppo rischioso. Prematuro. Ingiusto. Il Conte sapeva bene di aver calcato un po' la mano nell'architettare un Paese non solo senza barriere, ma addirittura adatto solo a chi vive in carrozzina. All'inizio il suo era stato un gioco intellettuale, una provocazione determinata dal desiderio di contrappasso. Ma con il passare del tempo si era radicato nel personale convincimento che non esisteva altra via per consentire davvero ai disabili una vita indipendente e autonoma. La logica ferrea dei rapporti di forza faceva sì che anche la più debole concessione alle ragioni dei camminanti avrebbe fatto crollare rapidamente l'impalcatura della Contea. Ecco perché era importante "riabilitare" il prigioniero. Ecco perché bisognava adesso convincere gli studenti che con il loro ingenuo libertarismo stavano facendo il gioco della controrivoluzione.
Giovanni aspirò con grande piacere una boccata di sigaro, osservò la brace che si accendeva e diventava incandescente prima di tornare ad essere un cerchio di cenere grigia e pulita.
"Devo convincere i giovani" pensò il Conte. "Non posso permettermi il lusso di avere contro i ragazzi che studiano all'università. Nel loro idealismo c'è, alla rovescia, la medesima carica che mi ha spinto ad agire. Loro adesso comprendono che il nostro regime sta diventando rapidamente illiberale e autoritario. Non si domandano il perché. Non vogliono sapere se questo è giusto, o almeno inevitabile. Soffrono l'ingiustizia come un male intollerabile. Poco importa se poi, sotto la spinta del loro spirito liberale, si riaprono le condizioni per una nuova e più feroce sudditanza. Quello che conta è dimostrare di essere dalla parte giusta. E allora io li devo conquistare. Se hanno chiesto di parlamentare con me significa che esiste un sia pur tenue margine di manovra. Lo sfrutterò a mio favore".
Giovanni ruppe gli indugi. Tornò con la carrozzina dietro la pesante scrivania e azionò il citofono: "Fate entrare gli studenti".

 

18. La trattativa

La barba di Matteo apriva la fila. Dietro il giovane spastico entrò Giovanna, ultimo era Renato. Alle loro spalle un manipolo di gendarmi si bloccò sulla porta, in attesa di ordini. - Andate pure, lasciateci soli - disse il Conte, accompagnando la frase con un gesto bonario di saluto. Voleva fortemente ostentare sicurezza e serenità, come un buon padre di famiglia che dà udienza ai figli un po' viziati. I tre studenti si disposero a semicerchio dall'altro lato della grande scrivania, disadorna e sgombra. Un silenzio imbarazzato si accompagnava ad un incrociare di sguardi taglienti come lame. Giovanna parlò per prima: - Siamo venuti solo noi tre per puro senso di responsabilità. Abbiamo voluto evitare lo scontro con i gendarmi, ma la provocazione è stata forte e inaccettabile. Lei ci deve una spiegazione - .
- Punto primo: io non devo nessuna spiegazione. Punto secondo: siete voi che volete parlarmi. Vi ascolto. - .
Matteo incalzò: - Abbiamo rischiato lo scontro fisico. Non so se lei si rende conto del contraccolpo di immagine che il suo Governo avrebbe avuto da una situazione del genere. Se non ci chiariamo su questo punto è perfettamente inutile andare avanti.. - .
E Renato: - Signor Conte, se siamo qui è perché vogliamo discutere. Ma non accettiamo di farlo sotto la pressione dei gendarmi. Gli studenti vogliono libertà e autonomia, indipendenza e giustizia. Lei dovrebbe essere il primo a condividere i nostri ideali - .
Il Conte aggrottò le sopracciglia: - Vi ho fatto costruire una università su misura. Se non era per me nessuno di voi avrebbe mai potuto proseguire gli studi dopo la scuola dell'obbligo. Invece di venire qui a ringraziarmi, mi chiedete chissà quale libertà, chissà quale giustizia. Ditemi chiaro e tondo che preferite il vecchio regime, che non ve la sentite di vivere da cittadini autonomi e autosufficienti. Tornate a casa, da mamma e papà. Vi capisco, sapete. Il coraggio non è di tutti. -
- Non è vero. Non è così - si buttò Renato - E' che la cultura non può progredire chiusa dentro queste mura. Siamo isolati e abbandonati a noi stessi. E' una prigione dorata e senza vita. Noi crediamo che la rivoluzione di Handicap Power abbia una grande rilevanza storica, e rimanga un modello di riferimento culturale imprescindibile. E in questo ambito le sue capacità personali di condottiero sono fuori discussione... Però questo non ci basta: il nostro modello di organizzazione sociale e urbanistica deve poter reggere al confronto con i camminanti. Ormai siamo in grado di difendere le nostre conquiste abbandonando questo clima poliziesco e persecutorio. Mi sembra il deserto dei Tartari... - .
- Fatemi capire - riprese il Conte, aspirando lentamente il sigaro, che ormai aveva sparso nella grande sala una nuvola pesante di fumo denso e corposo - Io avrei fondato Handicap Power, combattuto mille battaglie, rischiato la vita, vinto una rivoluzione, per far scoprire a voi che dobbiamo aprire le porte ai camminanti? Siete così presuntuosi da ritenere di poter contrastare da soli l'arroganza e la violenza di un sistema basato sulla "normalità" vista dall'alto? Non vi ricordate più che neppure i letti degli ospedali erano accessibili per chi vive in carrozzina, perché bisognava saltare come grilli per appollaiarsi su un materasso scomodo e stretto, pensato solo per non far piegare la schiena a medici e infermieri? Non vi ricordate più che perfino i Bancomat venivano collocati alti e irraggiungibili, tanto chi se ne importava dei disabili e delle loro esigenze di libertà? Vi siete dimenticati le aule strette, le scale ripide, gli ascensori guasti, i parcheggi inesistenti, di quelle decrepite università baronali, che però adesso idealizzate e trasformate in templi dell'autonomia e della giustizia? Beh, se voi avete la memoria corta, io no, non ci sto. Sono disposto a mandarvi in missione speciale, così vi renderete conto di persona. Arrivo perfino a soprassedere sull'occupazione dell'Ateneo. Potreste essere miei figli. Non voglio avervi come nemici. Ma non chiedetemi troppo. La Contea per ora non cambia. Dimostratemi voi il contrario, portatemi qui i camminanti pentiti che sono disponibili a vivere in pace con noi in condizioni di vera parità e indipendenza, e io sarò pronto a modificare le regole e i controlli di polizia. Ma fino ad allora niente e nessuno potrà farmi cambiare idea. Allora: che ne pensate? -.
I tre giovani si guardarono scambiandosi occhiate di soddisfazione: dunque il Conte, sia pure lentamente, stava cedendo.
- Va bene, accettiamo. Mandate una nostra delegazione in visita alle università dei Signori di Milano e degli altri Stati vicini. Noi porteremo con orgoglio la documentazione dei grandi traguardi della rivoluzione. Ma nello stesso tempo verificheremo se finalmente esistono le condizioni per riaprire le frontiere e uscire dall'isolamento - fu Renato a scandire lentamente i termini dell'accordo e a cogliere al volo l'opportunità lasciata balenare dal Conte. Nella grande sala si respirava l'atmosfera dei momenti storici.
- Bene, ragazzi. Così mi piace. Che ne dite se brindiamo con un calice di vino alla nostra intesa? - Giovanni dalle Ruote Nere si sciolse in un sorriso inconsueto: ancora una volta il suo ruolo di capo indiscusso della rivoluzione non era stato intaccato. Quanto alla "missione", era assolutamente certo che l'impatto con il mondo esterno avrebbe riservato ai giovani idealisti una cocente delusione. E li avrebbe visti ben presto tornare nella Contea trasformati definitivamente nei migliori e più agguerriti difensori della rivoluzione dei ruotanti. Per il momento era sufficiente aver evitato il peggio.

 

19. Insieme


Percorsero il corridoio in silenzio, lei davanti come a proteggerlo da qualsiasi sorpresa, lui dietro, un po' impacciato con quella carrozzina che finalmente poteva muoversi in velocità crescente. Passarono davanti al secondino senza neppure dover fornire spiegazioni, in quel momento infatti Giuseppe si era appisolato sprofondando l'enorme testa fra le spalle e calandosi sugli occhi il berretto della divisa. Non era davvero una gran giornata per l'ordine costituito nella Contea della Sacra Ruota. Trattennero a stento una risata, il silenzio è d'oro in certe circostanze, e infilarono la porta dell'ascensore facendo attenzione a non urtarne gli stipiti e ad azionare il più rapidamente possibile il comando di discesa. Trattennero il fiato per otto piani, senza aver il coraggio di guardarsi negli occhi, ma sentendo crescere il battito del proprio cuore. Poi, finalmente, l'uscita. Il buio era calato e i lampioni illuminavano fiocamente il piazzale. Francesca alzò il braccio sinistro e indicò a Paolo la direzione da prendere, poi aumentò la potenza della carrozzina elettronica e imboccò decisa una viuzza stretta e in leggera discesa. Paolo faticava a tenerne il passo, anzi, ad essere precisi, il ritmo di rotazione, ma non voleva ammettere di trovarsi atleticamente a disagio. Francesca si voltò dopo qualche minuto per controllare se era seguita, e vedendolo affannare sui corrimano, rallentò di colpo: - Dai, attaccati al manubrio che ti tiro io - offrì con un sorriso indulgente. - Ma stai scherzando, vuoi dire che non ce la faccio? - rispose Paolo sibilando.
- Non c'è niente di cui vergognarsi, e poi impari una tecnica nuova. Diciamo che anche questa è "riabilitazione" -.
E così Paolo, dapprima titubante, poi sempre più divertito, si aggrappò con la destra al manubrio sinistro della carrozzina di Francesca, mentre con la mano sinistra agiva come un timone per orientare il proprio mezzo in modo da marciare di pari passo. Francesca accelerò ancora, Paolo fu costretto a piegare la schiena in avanti, a oscillare con il tronco per compensare gli sbilanciamenti della carrozzina determinati dalla velocità. Evitò un tombino con un ardito slalom ma stava per perdere la presa sul manubrio, il cuore batteva all'impazzata, fino a che un grido arrochito gli eruppe dal profondo: - Francesca, ti prego, rallenta... - . E lei , come non le accadeva da tempo, si sciolse in una risata argentina, mentre lacrime di gioia le premevano all'angolo degli occhi. Si sentiva una bambina felice e dispettosa, finalmente messa in condizione di giocare e di divertirsi, senza quell'obbligo, quella cappa di "dover essere" che la stava attanagliando da tanto, troppo tempo. Felice e innamorata, splendida e femminile al punto da stupirsi di se stessa, della propria luminosa bellezza, nel passare davanti a una vetrina che rimandò l'immagine galeotta di quelle due carrozzine agganciate e allegre, simbolo di liberazione e non di sofferenza. Paolo rimase stupito della risata, non aveva mai sentito ridere Francesca. Si sentì turbato e complice, capì che in quel momento la ragazza gli aveva inviato un altro messaggio dolce e coinvolgente. E gli piacque lasciarsi trascinare in quella straordinaria avventura fuori del tempo e della logica. Si accorse di non avere difese, di non avere remore.
Ma In un angolo della mente gli apparve il ricordo di Chiara, la sua ragazza di Milano. Avevano fatto l'amore prima di quell'ultima missione ai confini della Repubblica del Nord. Lei era annoiata, scontenta, delusa. Considerava Paolo una sua proprietà e mal tollerava il suo attaccamento al lavoro, la sua indipendenza mentale. Con le sue lunghe gambe da indossatrice aveva attraversato la camera da letto senza nemmeno guardarlo, come dopo aver sbrigato una formalità, un'abitudine da non mettere in discussione. Poi, tornando gocciolante dalla doccia, si era appoggiata alla porta, avvolgendosi i lunghi capelli neri in un asciugamano candido. Paolo rivide i suoi seni piccoli e a punta, leggermente turgidi, i fianchi elastici e magri che si appoggiavano a glutei ben disegnati e appena esuberanti. Anche Chiara era bella. Ma fredda ed esigente, possessiva e pigra. - Smettila di giocare alla guerra. Trovati un lavoro tranquillo, qui in città. Sono stanca di vederti di sfuggita, come se fossi una prostituta di classe. Adesso poi, che vuoi andare a infilarti in quella Contea ridicola di quel folle in carrozzina... Ma ti rendi conto? Quando vedono uno come te, minimo minimo ti arrestano per oltraggio al pudore... - E Paoloera balzato dal letto, completamente nudo, ridendo e minacciandola con un cuscino: - Bada sai, che ti porto con me e ti lascio lì, a fare l'infermiera degli anziani handicappati. Così ti corrono dietro in carrozzina, voglio vedere come te la cavi... - . E poi l'aveva abbracciata sullo stipite, scoprendo sorpreso il crescere di un nuovo desiderio. Avevano fatto all'amore in piedi, con urgenza e rabbia. Poi lei addentò una mela, si rivestì con negligenza, mentre Paolo indossava la divisa e sorrideva al pensiero della Contea della Sacra Ruota. Fra tutte le missioni che gli avevano affidato quella era davvero la più semplice e curiosa. Chiara gli passò una mano tra i capelli, avvicinò le labbra a un orecchio, glielo morse leggermente e sussurrò: - Mi raccomando, non mi tradire con una giovane sgualdrina in carrozzina, non ti impietosire, tu con il tuo cuore d'oro. Perché se lo vengo a sapere... ti riduco io in carrozzina, e poi faccio anche qualcosa di peggio - e con una mano lo accarezzò lentamente in mezzo alle gambe, prima di lasciarlo di stucco, impalato in mezzo alla stanza e incapace di replicare. Ma che idea, lui, il bel Paolo dagli occhi azzurri, avrebbe dovuto perdere la testa per una povera disabile in carrozzina, avendo fra le mani uno splendore come Chiara?
Già, un'idea assurda, eppure adesso, in quella sera improvvisamente fresca e carica di profumi, trascinato in un'avventura ai confini della realtà, non sapeva più cosa pensare, e il ricordo di Chiara sembrava appartenere ad un'altra vita, a un'altra dimensione. Si accorse di non provare alcun rimpianto, e di non sentire crescere dentro di sé il richiamo della fedeltà a un legame che, per la verità, ora gli sembrava tenue come un fantasma all'alba. Un'improvvisa frenata di Francesca lo scosse dai suoi pensieri. Erano arrivati davanti a una villetta bassa, anni Cinquanta, nella periferia addossata alle mura della città. Un fazzoletto di verde ben curato dietro un cancelletto elettrico azionato da un telecomando incastonato nel bracciolo della carrozzina elettrica. Francesca fece strada, al suo passaggio si accesero le luci basse del giardino e rivelarono la geometria sobria di una casetta che sembrava davvero su misura. La ragazza si volse verso Paolo e con lo sguardo lo invitò ad entrare.

 

20. Normalmente


Paolo si attendeva di entrare in un'abitazione supertecnologica e ospedalizzata. Tutto su misura per una carrozzina, senza tanti fronzoli e senza personalità. Un tripudio di maniglioni e di telecomandi a infrarossi, un incrociarsi di impianti idraulici e di sollevatori, magari con un robottino a girare nevrotico di stanza in stanza per eseguire mansioni impartite con comandi vocali. Grande fu il suo stupore quando la piantana in stile liberty nell'angolo dell'ampio salotto illuminò uno spazio ampio e ben organizzato, che legava in un solo ambiente l'angolo conversazione con uno studio sobrio e funzionale da una parte, e un soggiorno vissuto e confortevole dall'altra, con bei quadri alle pareti, riproduzioni di Escher e Magritte, ma anche qualche litografia interessante, dai colori tenui. Francesca sembrava muoversi a suo agio fra le poltrone e i tavoli, dirigendosi con sicurezza verso l'ampia armadiatura scorrevole a tutta parete che conteneva un grande impianto stereo, con i diffusori inseriti fra i libri, nell'asse centrale della credenza. La ragazza azionò il telecomando e il riproduttore di cd diffuse in sottofondo l'ultimo successo di Annie Lennox, la sua cantautrice preferita, ormai un po' in là negli anni, ma ancora in grado di cavalcare le classifiche internazionali. - Ora puoi alzarti, se vuoi - disse senza voltarsi. - Naturalmente, fai attenzione al soffitto, è un po' basso, come si conviene nella Contea, ma nelle abitazioni private le norme sono più elastiche. Quando ho avuto in dotazione questa villetta, la ristrutturazione prevedeva uno standard di due metri al massimo. Dovresti farcela a non battere la testa. Ma se preferisci restare seduto, inutile dire che mi fai piacere, mi metti meno in imbarazzo... -. Paolo restò in silenzio. Ora si sentiva lui il diverso, il fuori posto. Non avrebbe mai immaginato Francesca vivere in un ambiente simile, così caldo e normale. Ancora una volta doveva ricredersi e rimettersi in discussione. E adesso lei gli proponeva perfino di alzarsi dalla carrozzina, dopo settimane trascorse a trapanargli il cervello con i princìpi assurdi di quella "riabilitazione" che lo aveva condotto sull'orlo della paranoia. - No, grazie, Francesca - rispose finalmente - sto bene in carrozzina, mi diverte. Finalmente comincio ad abituarmi e se mi alzo adesso rovino tutto - . - Come credi - riprese lei - Ma non pensare di stare lì ad ascoltare la musica. Se vuoi mangiare mi devi aiutare a preparare la tavola mentre io scaldo qualcosa nel microonde. E voglio proprio vedere come te la caverai... - . Con uno scatto silenzioso la carrozzina di Francesca si diresse verso la porta che dava su un'altra parte della casa, e Paolo la seguì docilmente. La ragazza accese i faretti della cucina, una parete attrezzata con tutti gli elettrodomestici e i fornelli ad altezza intermedia e un ampio spazio vuoto sotto il lavello. Un tavolo a bancone incernierato nella parete consentiva agilmente alla carrozzina di ruotare e di spostarsi senza urti e impedimenti. Ma il tutto manteneva, con i colori caldi del legno scuro e gli alleggerimenti rappresentati dalle ceramiche bianche, un tono familiare e confortevole, lontano dal cliché degli arredamenti "speciali" che nell'immaginario collettivo si ritenevano adatti ai disabili.
- Non ho niente di pronto... Ti va intanto un Martini con un po' di ghiaccio? - . - Veramente non bevo alcolici - . - Non mi dire... - . - Sono una guardia. E poi adesso sono anche un prigioniero... o no? - . - Senti, io me lo preparo, poi vedi tu... - . - Va bene, forse è meglio se bevo qualcosa di forte. - . - Dai, prepara la tavola, è tutto nei cassetti qui a fianco - . - Arrivo - e così Paolo inferse il primo duro colpo all'angolo del mobile con la pedana della carrozzina, nel goffo tentativo di avvicinarsi. Poi cercò faticosamente di girarsi in modo tale da poter aprire i cassetti, ma era ancora troppo vicino, o troppo lontano. Cominciò a sudare e a innervosirsi. - Che cosa ti avevo detto? Dai, alzati. La "riabilitazione", per il momento, è sospesa... -.
Paolo non rispose. Con un po' d'imbarazzo sganciò le due piccole pedane della carrozzina, le allargò in modo tale da poter poggiare i piedi per terra, si aggrappò con le mani ai braccioli, ripassò mentalmente un movimento fatto migliaia di volte in condizioni normali, misurò con lo sguardo la distanza dal soffitto, poi, tenendo il capo leggermente inclinato, si diede la spinta giusta, appoggiando il peso sulle gambe e caricando i muscoli quel tanto che bastava a vincere la sfida con la forza di gravità. Per lui, un camminante, non era poi così difficile. Bastava scrollarsi di dosso quell'assurdo coinvincimento di essere diventato uno di loro, uno degli strani cittadini della Contea.
Francesca, vista dall'alto, aveva perso tutta la sua autorità di carceriera, era solo una splendida ragazza in carrozzina, indifesa e dolce. Paolo si accorse di essere in piedi, sentì le vene delle gambe percorse da un piacevole formicolìo. Era il sangue che tornava a scorrere verso il basso con naturalezza. E le mani, improvvisamente, divennero due appendici strane, libere di muoversi, senza l'obbligo di spingere le ruote della carrozzina. Paolo le guardò, vide i segni incipienti dei calli nell'incavo fra il pollice e il palmo. Comprese che la mutazione stava avvenendo. E respirò profondamente per ricacciare un brivido di paura.

 

21. Tenerezza

Francesca si avvicinò in silenzio con la carrozzina. Poi passò la mano dietro la schiena di Paolo, e appoggiò dolcemente la testa sul suo fianco finalmente eretto. Un gesto tenero e inatteso, disarmato. Paolo si sentì sciogliere, colto di sorpresa e incapace di muoversi. Restò lì, fermo in mezzo alla stanza, poi cominciò a carezzare i capelli della ragazza, sfiorandole il viso. Lentamente si chinò sulle ginocchia, per portarsi all'altezza di quei grandi occhi spalancati che lo attendevano fiduciosi. Le labbra si sfiorarono, si allontanarono e poi si cercarono come per una prima conferma. Francesca socchiuse le palpebre, Paolo la baciò con calma, senza invadenza, quasi nel timore di rompere un incantesimo. Non aveva mai provato un'emozione così intensa.
- Ho atteso tanto questo momento. Adesso l'ho capito. Ora so perché ti aggredivo ogni volta. Perché mi stavo innamorando. E non volevo ammetterlo. Mi fai paura. Sei la negazione di tutta la mia vita. Eppure adesso sono felice - Francesca parlava sottovoce, mentre le sue mani perlustravano sinuose la schiena, le spalle e il collo di Paolo. - Non dire niente. Lasciami vivere questo momento. Forse me ne pentirò. Non voglio neppure pensare a quali conseguenze andrò incontro per averti fatto uscire dal carcere. Aiutami a non pentirmene... - . E Paolo improvvisamente pianse. In silenzio, scosso da un tremito leggero, da singhiozzi che faticava a trattenere. La tensione di quei terribili giorni trascorsi nell'incubo stava cedendo il passo a un sentimento nuovo, a una passione inattesa e bruciante. Aveva paura di farle del male, era quella, adesso, la sua unica preoccupazione. Francesca gli strinse la testa fra le mani, piegò leggermente il capo e lo baciò di nuovo, questa volta con più impegno, muovendo le labbra lentamente, esplorando la bocca di Paolo, prima timida, poi sempre più esigente e curiosa, fino a perdere il fiato e stordirsi in un'oasi di tenerezza. Si staccarono dall'abbraccio ansimando, si guardarono come fosse per la prima volta, perché l'amore trasfigura e accende i lineamenti, crea sintonie irripetibili, spoglia il desiderio di ogni pudore e rende prezioso e irripetibile quel primo momento, preludio di passione, promessa ancora da attingere. Appoggiarono la fronte l'uno all'altra, misurarono la profondità dei loro sguardi, la trasparenza di occhi color del mare, entrambi azzurri, entrambi sinceri e colmi di attesa. Paolo si voltò mollemente appoggiando le mani ai braccioli della carrozzina di Francesca, si sciolse dal suo abbraccio e la baciò in fronte, con delicatezza, poi scese nuovamente a cercare le labbra. Ma Francesca frenò di scatto questo nuovo abbraccio e si riscosse dal languore: - Basta adesso. Non togliamoci il piacere del tempo, e della scoperta. E poi ho fame, ho tremendamente bisogno di mangiare. Dopo una giornata così... - . Paolo la guardò sorpreso e un po' contrariato: - Scusa, credevo ti facesse piacere. Sei bellissima... - . - Sì, lo so. Me lo dicono tutti. Ma ora aiutami a preparare qualcosa. Non abbiamo molto tempo a disposizione... se vogliamo fuggire stanotte - .
- Fuggire? -.
- Certo, non penserai che il Conte ti lasci andare in giro per la città di notte a spaventare i poveri carrozzati indifesi, con quelle lunghe gambe? -.
- Ma io ero convinto che tu avessi l'autorizzazione - .
- In un certo senso, credo di averla. Ma non per molto. E poi ho deciso: ce ne andiamo insieme. Questa notte. C'è qualcosa che non va? Preferisci tornare in carcere e passare il resto dei tuoi giorni in carrozzina? - .
- No, credo di no. Ma non ero preparato a un'ipotesi del genere. L'ho sempre sperato, certo. Ma come in un sogno. Ormai cominciavo a rassegnarmi. E poi chissà, non sono più tanto sicuro di trovarmi a mio agio nel mondo dei camminanti. Senza contare che adesso devo pensare anche a te... - .
- Vedi tu... A meno che tu non voglia lasciarmi in balìa del Conte, dopo che ti ho liberato. Ma adesso basta con i discorsi, diamoci da fare - .
Francesca si mosse rapidamente con il joy-stick, compiendo una piroetta, e si diresse al congelatore, dal quale estrasse una confezione di hamburger surgelati. Paolo preparò la tavola, muovendosi con circospezione fra i cassetti e gli sportelli, ancora incerto sulle gambe, troppo a lungo disabituate a rispondere ai comandi del cervello. Poi, nell'attesa che il microonde scongelasse la carne, gironzolò in salotto esaminando le videocassette e i cd di Francesca. - Dai, metti su qualcosa di dolce... - gridò Francesca dalla cucina. E Paolo: - Ti vanno bene gli Wheelchairs? - . - Se proprio insisti... - . - Ma non sono i vostri idoli, con quel chitarrista paraplegico che assomiglia al vecchio Eric Clapton? - . - Senti, non so tu... ma io di disabili non ne posso più. E' logico che in casa devo avere di tutto, per non dare nell'occhio, ma a me piace la musica vera, non quella di regime - disse la ragazza affacciandosi alla porta con un mestolo nella sinistra. - Ho capito, basta parlare. Vediamo un po'...Ecco qui, che ne dici di Carlos Jobim? E' una vecchissima raccolta, ma è tanto che non sento musica brasiliana... - . - Sì, va benissimo. E' uno dei miei preferiti, in certi momenti. Cominci a capire che anche in carrozzina si possono avere gusti normali? - . - Veramente se hai scelto me, hai dei gusti eccezionali, altro che normali! - Risero insieme mentre le note di Agua de março si diffondevano nella casa, insieme al profumo della carne passata al grill elettrico. Francesca abbassò le luci, accese una candela e la posò sulla tavola. - Vieni, è pronto - . Paolo si sedette accanto alla ragazza, le strinse una mano, la guardò intensamente e disse soltanto: - Grazie - .

 

22. La scoperta

Giuseppe si svegliò con una sgradevole sensazione di disagio. Alzò la visiera del berretto, si puntellò sui gomiti per ricomporsi in una posizione meno indecente, si guardò attorno come per riprendere le misure di uno spazio enorme che era affidato al suo controllo. Guardò l'orologio e trasalì: erano le ventidue e dieci. Avrebbe dovuto compiere il giro di ispezione più di un'ora prima, alle ventuno, stando al regolamento. E poi ancora alle ventidue, sempre nell'attesa del cambio della guardia, che sarebbe avvenuto a mezzanotte. E' vero che nella Contea non succedeva mai niente di eclatante, ma quel giorno erano già capitati troppi contrattempi per potersi permettere una simile rilassatezza. Tutto sembrava in ordine e avvolto nel silenzio. Eppure in un angolo del cervello gli stava lievitando un atroce dubbio. Nel dormiveglia, come in un brutto sogno, gli era parso di veder passare davanti al suo posto di controllo niente meno che Francesca con quel Paolo, seduto in carrozzina e buono come un angioletto. Ma forse si sbagliava, anzi senz'altro. Che idea mai sarebbe stata quella di far uscire il prigioniero, per di più di sera? Comunque era preferibile dare un'occhiata, e subito. Giuseppe azionò la vecchia carrozzina a cingoli, percorse il corridoio con la mano appoggiata sull'addormentatore, e si arrestò davanti alla cella del camminante. Azionò il meccanismo di apertura della porta blindata, e, appena dentro, strabuzzò gli occhi: la stanza era perfettamente vuota. Rigorosamente in ordine, ma di Paolo, il camminante, nemmeno l'ombra. Ed era scomparsa anche la sua carrozzina. "Non era un sogno, accidenti a me" pensò.
Estrasse il radiotelefono e compose concitatamente il numero d'emergenza: - Devo parlare urgentemente con il Conte Giovanni dalle Ruote Nere. Sono la guardia scelta capo-carceriere. Sbrigatevi - . Una voce secca e metallica lo bloccò subito: - Ho l'ordine tassativo di non disturbare il Conte per nessun motivo - . Era Cristina, la centralinista ipovedente del palazzo di Governo. Per lei un destino ancor più penoso: non essendo né cieca né normale, non poteva godere neppure del cosiddetto privilegio dei ciechi, quello di camminare senza restrizioni. No, lei doveva, almeno sul lavoro, restare seduta in carrozzina Come tutti gli altri. Ma lei si consolava ripetendo spesso: "C'è chi sta peggio di me. Io in fondo ho anche un lavoro". Con il passare degli anni, anzi, l'attaccamento al proprio lavoro e soprattutto una passione inconfessata per il Conte, l'avevano trasformata in una delle più efficienti forme di filtro telefonico mai viste all'opera. - Dimmi, qual è il problema? - . - Non posso dirlo a te, devo parlare con il Conte - Giuseppe temeva di essere sbugiardato e che la notizia dell'evasione facesse subito il giro della Contea. - Che cosa sarà mai successso? Non mi dire che è scappato qualcuno? - . - Come fai a saperlo? - si tradì il carceriere, confermando ancora una volta come la massa muscolare non si accompagni necessariamente ad elevate qualità intellettive. - Mi chiamano Circe, caro mio. E poi lo sai che chi ci vede poco aguzza l'ingegno... Va bene, vediamo che cosa si può fare.. - e Cristina lasciò in attesa il povero Giuseppe, colpevole soprattutto di essere l'uomo sbagliato al momento giusto. Il Conte afferrò il microfono con rabbia: - Che cosa è successo? Per oggi non bastavano le novità disastrose? - tuonò nel ricevitore. - Ecco, vede, signor Conte... sono Giuseppe, la chiamo dal carcere... - . - Non vorrai mica dirmi che è scappato il prigioniero? - . - Già, effettivamente lei mi legge nel pensiero, l'ho sempre detto che lei è un grande - balbettò il malcapitato. - E come ha fatto a uscire dal carcere, se tu sei lì a fare a guardia? - .
- In effetti io sono sempre rimasto al mio posto, ma ho l'impressione che sia passata di qui la sorvegliante, quella Francesca che lei ha mandato per riabilitare il camminante... - .
- Come sarebbe a dire: "ho l'impressione? " - urlò il Conte.
- Beh, ecco, vede... mi ero distratto un attimo, forse mi ero anche appisolato, non ne sono così sicuro...quando a un certo momento, non saprei neanche dire esattamente a che ora, ma probabilmente erano le otto, o poco più tardi, dunque, allora, io ho visto, o meglio, mi pare di aver intravisto, con la coda dell'occhio, ma pensavo di aver sognato, insomma, a farla breve, se è vero quello che mi sembra di ricordare, ecco, è quasi certo che la signorina Francesca sia passata davanti a me insieme a quel Paolo, seduto in carrozzina. Sì, è così. Ecco perché non ci ho fatto tanto caso, mi sembrava tutto normale, già, perché lui, il detenuto, era bello tranquillo in carrozzina, non stava facendo nulla di strano, non camminava, non cercava di scappare. Ecco, dunque, è come se stessero uscendo a passeggio. Almeno mi pare, certo è che forse era meglio se stavo più attento, vero, signor Conte?... - Ma dall'altra parte del telefono la linea era interrotta da tempo.
Doveva pensare. Non doveva lasciarsi prendere dall'impeto. Dunque il camminante era in libertà. Forse non era fuggito nel senso stretto del termine. Si era solo allontanato dalla cella in compagnia di Francesca. Poteva essere un esperimento della ragazza per metterlo alla prova, dopo il colloquio del pomeriggio. "Una cosa è certa, non la tradirò mai" aveva detto Francesca prima di andarsene. Giovanni dalle Ruote Nere si fermò davanti alla finestra che dava sulla piazza. Ormai non si vedeva più anima viva. Erano quasi le ventitré, e i lampioni illuminavano a giorno uno spazio vuoto e spettrale. Giovanni si sentì terribilmente solo.
Come quel giorno. Quando Laura lo guardò negli occhi seduta a cavalcioni sul suo stomaco, nel grande letto sfatto, e gli diisse: - Mi spiace, ma non siamo fatti per vivere insieme. Non mi sento l'animo della missionaria, lo capisci, no? - . Giovanni annuì, senza parlare. Osservava con calma l'ampio seno che oscillava leggermente, accarezzava con un dito la curva delle spalle, scendendo lungo i fianchi pigramente. - Sì, Laura, ti capisco. Tu hai un lavoro che rende, io ti offro una vita di avventura e di lotta, per inseguire il sogno di un mondo tutto mio, a misura di quelli come me... E tu poi, che cosa ci faresti nel mio sogno? Una puttana di lusso, la cortigiana del Conte? Già, perché so già come si chiamera il mio mondo: la Contea della Sacra Ruota... - . Laura rise sonora: - Tu sei matto da legare, altro che. La Contea della Sacra Ruota, questa sì che è grande. Senti, bello, lo so che mi vuoi bene. Con me riesci perfino ad avere di quelle erezioni che francamente, voglio dire, non si direbbe neppure che dalla vita in giù non ci senti niente... Sai, per me che lo faccio per professione, queste sono soddisfazioni mica da poco, ma da questo a cambiar vita per correr dietro alle tue follie. Eh no, bambino mio. La tua Laura ti aspetta qui, quando vuoi, basta telefonare prima... - . Giovanni sorrise silenzioso. Chissà perché si era quasi innamorato di questa donna a pagamento. Forse perché era stata l'unica ad accettarlo così com'era, senza tanti problemi. E poi era brava, brava davvero. Giovanni si liberò dall'abbraccio, si mise seduto sul letto accendendosi una sigaretta, e le chiese: - Ma secondo te, che cosa cercano le donne in un uomo? Che cosa vogliono? - . - Io non sono una donna normale, caro il mio Giovanni - rispose Laura infilandosi pigramente la gonna - Io voglio i soldi, e voglio restare libera. Le attre, beh, forse vogliono la stessa cosa; sì, la stessa cosa, i soldi e restare libere. L'unica differenza è che io sono considerata una di quelle... e loro no - . - Mi mancherai, Laura - concluse con un sospiro Giovanni, balzando a forza di braccia in carrozzina - Ci vorrebbero donne come te per fondare la Contea, ma mi dispiacerebbe vederti seduta su una quattroruote come la mia, meglio di no. Chissà, un giorno forse ci rivedremo. Non ti trascurare... - .
Chissà perché gli era tornata in mente Laura, proprio adesso. Una donna così diversa da Francesca. Eppure l'unica donna che lo aveva capito, e che lui aveva ricambiato con un affetto non solo monetario. Giovanni era troppo preso dal sogno della rivoluzione per potersi legare davvero a un amore. Ma adesso era diverso. Quanto avrebbe voluto poter condividere gioie e preoccupazioni, ansie e vittorie, programmi e speranze, con una compagna dolce e intelligente, sensibile e capace di farlo sentire un uomo completo. Il Conte si riscosse da quegli strani pensieri e tornò alla nuova, grave emergenza.
Francesca era sincera, o almeno lui voleva crederlo sino in fondo. Per il momento, dunque, lui non avrebbe fatto nulla. Cominciava persino a pensare che era stata la sua coscienza più segreta e riposta a mettere in moto quel meccanismo. Si sentiva inconsciamente attratto da quel gioco d'amore, così palese, così intrigante. Paolo e Francesca, una coincidenza anche di nomi, con una storia antica e affascinante. La sua ragione urlava di mandar subito le guardie a riportare in cella il prigioniero e a catturare la carceriera incauta. Ma il cuore diceva esattamente il contrario. E una volta tanto, il vecchio intristito condottiero volle che fosse il cuore ad avere la meglio. Almeno per qualche ora.

 

23. Le differenze

- Ne vuoi ancora un po'? - Francesca spinse il piatto con la focaccia fatta in casa verso Paolo, che finalmente si stava rilassando, dopo aver divorato hamburger e patatine, bevendo acqua minerale e due calici di un delizioso Beaujolais sopravvissuto alla rivoluzione, che la ragazza aveva conservato per le occasioni speciali. - No, grazie. Sono davvero pieno - declinò l'offerta - Non faccio complimenti; sei davvero brava, non avrei mai immaginato... - .
- Chissà quante cose non ti immagini, di me, di quelli come noi -
- Beh, non so, qualcosa ho letto, ho visto dei vecchi film, prima di venire in missione. Aspetta che mi ricordo i titoli... ah sì, Il mio piede sinistro, Nato il 4 luglio, Lezioni di piano, e poi quell'altro con Dustin Hoffman, Rain man...
- Ecco, lo sapevo... - .
- Perché, non vanno bene? - .
- E' come se io, per capire la vita di voi camminanti, vedessi soltanto Superman, oppure Rambo, o, che so io, Nove settimane e mezzo... -.
- Che vuoi dire? - .
- Che voi credete di capire cosa passa per la testa dei disabili attraverso l'immagine patinata di Hollywood, dove tutto è perfetto, studiato a tavolino, con il lieto fine, naturalmente. Solo che alla fine del film l'attore si alza dalla carrozzina o smette di fare l'autistico. Nella vita, purtroppo, le cose non stanno così- .
- E allora che cosa dovrei vedere, per capire? - .
- Ognuno ha i suoi gusti e la sua testa, non esiste l'"handicappato" - si infervorò Francesca, sorseggiando un goccio di vino, che le imporporò le guance - Vuoi che ti dica i film che secondo me ti aiutano a capire il nostro mondo? Blade runner, tanto per cominciare, con quella splendida scena finale di Rutger Hauer, o La bella e la bestia, o ancora Il pianeta delle scimmie, per non parlare di E.T.... - .
- Ma che diavolo c'entrano con l'handicap? - .
- Niente, non c'entrano niente. Eppure, se ci pensi bene, ti raccontano la diversità e il desiderio di felicità, ti comunicano emozioni e pensieri condivisibili e comprensibili a tutti, solo che vengono percepiti in maniera differente a seconda del punto di osservazione. Voglio dire: io sono cresciuta leggendo di tutto, ascoltando buona musica, guardando i film migliori. Anche se da dieci anni sono in carrozzina non voglio ghettizzarmi. Io credo in una cultura della normalità, in valori che uniscano le persone al di là delle differenze di qualsiasi tipo. Esistono valori universali, punti di riferimento comuni al genere umano, che mutano solo con il passare delle generazioni, ma non cambiano nella sostanza... - .
- Non avevo mai riflettuto in questo senso - ammise Paolo, turbato.
- Sapessi a quante cose non badate, voi camminanti. Io credo che i disabili, non tutti, ma la parte migliore e più avveduta di loro, abbiano una marcia in più, perché la vita assume, inevitabilmente, un senso più profondo e aspro. Non possiamo permetterci di sottovalutare i problemi. La nostra esistenza, necessariamente in salita, ci porta a lottare, e a vincere - .
- Ma allora perché avete costruito questo ghetto? Non mi dirai che la Contea della Sacra Ruota è un modello di princìpi liberali... - .
- No, questo è vero. Ma c'era bisogno di un'Utopia realizzata, di un punto fermo. Ma tu non puoi capire... - .
- Che cosa non posso capire? - .
- Le angherie, i soprusi, le piccole e grandi frustrazioni alle quali siamo stati sempre sottoposti nel vostro mondo, fatto su misura per voi. Il richiamo della Contea è stato fortissimo, è come se un popolo disperso e deriso avesse ritrovato finalmente l'orgoglio di una terra promessa; Ecco, il paragone è quasi perfetto, la Contea della Sacra Ruota ha funzionato proprio come la terra promessa per gli ebrei della Diaspora. Solo che qui le Nazioni Unite non ci hanno certo aiutato. Ecco perché tutto è diventato così difficile, così chiuso. Non credere, faccio fatica anch'io a riconoscermi in questo sistema. Però non posso non apprezzare il fatto che qui le barriere architettoniche sono state abbattute davvero, e dappertutto. E che un disabile trova lavoro, e non pietà. - .
- Francamente, mi pare che sia un'economia troppo chiusa, un altro piccolo ghetto. Non ho capito bene neppure quale tipo di lavoro sia prevalente. Probabilmente soffrite ancora le conseguenze dello stato assistenziale e siete abili soltanto nelle attività di servizio, di tipo sociale. Dove sono le fabbriche, i laboratori artigiani, le banche? - .
- Non è così. Non hai avuto tempo per vedere - Francesca si era accalorata - E' vero che spesso ci mancano gli strumenti tecnologici per lavorare senza impedimenti, ma la colpa è del vecchio regime che non si è mai preoccupato di abbattere le barriere sui luoghi di lavoro, tanto si preferiva dare il posto ai falsi invalidi, e che quelli veri si arrangiassero. Il primo Piano Economico della Contea è invece basato proprio sulla trasformazione dei meccanismi di produzione industriale e sulla ristrutturazione della grande distribuzione. Ma adesso non è il momento di perderci in una discussione senza fine - .
- Va bene, finiamola qui. Ma non posso accettare la logica secondo la quale tutti devono vivere secondo le vostre regole, secondo la misura dettata dalla carrozzina. E' aberrante... - .
- Bravo, ci sei arrivato. Peccato che tu non trovassi altrettanto aberrante che nella tua splendida MIlano, quella dei Signori per i quali lavori così volentieri, la regola, la misura, è esattamente quella opposta, quella che va a pennello per gente come te. Prova a domandarti quanti distrofici, o quanti paraplegici sono riusciti a finire gli studi universitari, a trovare un lavoro dignitoso, a mettere su una famiglia, ad abitare in una casa comoda senza pagare cifre astronomiche. Il fatto è che quelli come te domande di questo tipo non se le pongono nemmeno. Si limitano ad ammirare quei pochi che, in mezzo a mille difficoltà, sembrano degli eroi o dei marziani, perché sono riusciti a realizzare almeno qualcuno degli obiettivi di una persona normale. E poi vuoi dire che non c'era bisogno della Contea? Certo, gli eccessi non piacciono neanche a me... altrimenti non sarei qui ad offrirti una via di fuga. E poi mi sembra che tu sia diverso, in qualche modo... - E dicendo questo, Francesca posò la mano su quella di Paolo, come per farsi perdonare il lungo sfogo.
- Quando ti accalori, sei ancora più bella - .
- Non ho più voglia di discutere, è che forse è la prima volta che riesco ad esprimere tutte le mie idee con chiarezza - .
- Non sono in grado di riflettere, stasera. Ma lasciami il tempo per pensare, forse hai ragione tu. Sono tanto confuso, dopo questa esperienza. Fino a poche ore fa avrei sinceramente maledetto la Contea con tutte le mie forze. Ma adesso sono qui, con te, con la donna più bella, più dolce, più intelligente e sensibile che io abbia mai incontrato. Ti porto via con me, subito. Per te non esisteranno barriere, risolverò tutto io, vedrai... - .
Francesca annuì pensierosa, ma non disse niente. Il suo piano, ormai, era ben definito. Guardò l'orologio: mancava un'ora alla mezzanotte, quando sarebbe stato facile approfittare del cambio della guardia per avvicinarsi al vecchio passaggio riservato alle merci, nel bastione orientale. Ma adesso poteva concedersi quell'emozione tanto a lungo pensata, e voluta. Prese per mano Paolo, lo guardò teneramente, agì sulla carrozzina per allontanarla dalla tavola, e si diresse lentamente verso la camera da letto. Paolo, docilmente, si alzò dalla sedia e la seguì.

 

24. L'amore

- Non abbiamo molto tempo. E dopo, chissà quando potremo farlo di nuovo. Non aver paura, adesso - .
- Sei sicura di volerlo, voglio dire, è accaduto tutto così in fretta, non voglio farti del male. - .
- Non parlare più. Ora basta - .
Francesca accese la lampada sull'ampio comodino, accanto al letto, sobrio e rigido, con l'unica concessione alla civetteria rappresentata da una grande bambola appoggiata sul cuscino. La ragazza prese la bambola e la posò sulla sedia che aveva collocato vicino alla parete, poi cominciò lentamente a sbottonarsi la camicetta, guardando Paolo in modo disarmante. Il ragazzo capì, e iniziò a sua volta a spogliarsi, con calma, con gesti che parevano telecomandati dallo sguardo ipnotico di lei. Francesca si sfilò gli stivaletti, sganciò la gonna e la fece scorrere sotto le cosce con un gesto collaudato, scoprendo due gambe affusolate e perfette, mentre uno slip nero di pizzo copriva e rivelava al tempo stesso la natura più intima, una macchia scura e piccola di peluria che si affacciava sul ventre liscio e teso. I seni tondi e sodi culminavano in due capezzoli sottili e a punta, già turgidi. Paolo sentì crescere dentro di sé un desiderio mai provato, si sfilò i pantaloni, restò indifeso e in mutande, in piedi davanti a lei, in attesa di un gesto, di un comando. E Francesca lo attirò a sé con dolcezza: - Dai, prendimi in braccio. Sollevami tu, questa volta, dalla carrozzina, e appoggiami sul letto. -
Paolo infilò un braccio sotto le ginocchia della ragazza, passò l'altro braccio dietro le spalle, sfiorandole il seno. Piegò la schiena e irrigidì i muscoli. In un attimo Francesca uscì dal guscio di acciaio e si trovò, farfalla leggera, appoggiata al petto robusto del ragazzo. Restarono così, abbracciati teneramente, per qualche istante inteminabile. Lei lo baciò dolce e intensa, allacciando le mani dietro la nuca e arricciandogli i capelli. Lui la avvicinò al letto, appoggiò un ginocchio sul materasso e lentamente la distese, senza sciogliersi dall'abbraccio. Francesca gli prese le mani e cominciò a guidarle sul proprio corpo, con calma, facendo scoprire all'amante i luoghi segreti e vitali del desiderio, insegnando con fantasia nuovi segnali d'amore, e, a sua volta, percorse con le dita il filo della schiena fino alla separazione delle natiche, poi fece scivolare lentamente l'elastico degli slip e con naturalezza cercò il suo membro, che era già prepotente. Lo accarezzò dolcemente, mentre con l'altra mano abbassava le sue mutandine, invitando Paolo ad aiutarla. Il ragazzo salì sopra di lei con delicatezza, le baciò i seni, poi scese con la bocca lentamente percorrendo il sentiero del ventre fino a scoprire una natura fremente di desiderio.
Con sorpresa si accorse che anche lì Francesca dimostrava sensibilità e rispondeva alle sue sollecitazioni con vibrazioni sempre più intense e ritmate del corpo. La mano di lei continuava a stimolarlo languidamente, finchè la ragazza decise di guidarlo dentro di sé, con semplicità. Paolo la penetrò con calma, quasi timidamente, come se avesse paura di ferirla, di rompere l'equilibrio di quell'organismo che riusciva a godere e a trasmettere una carica erotica potente e dolce anche senza il contributo delle gambe e delle reni, che pure non restavano del tutto inerti, ma assecondavano l'andare e venire dell'amante come se fossero animate da un'energia segreta, insolita e arcana. Era il mistero dell'amore, che non conosce confini, che chiede soltanto altro amore. Paolo sentì l'orgasmo arrivare con urgenza, e in quel momento Francesca si aggrappò con le mani alla sua schiena, quasi graffiandolo, condividendo l'istante supremo del godimento dei sensi, prima di abbandonarsi spossata sul letto, col respiro affannato e corto, con i seni lucidi e tesi che si alzavano e si abbassavano veloci. Paolo cercò la sua bocca e la baciò a lungo, come per suggellare con un tenero ringraziamento una prova d'amore che non avrebbe mai potuto dimenticare.

 

25. La fuga

Francesca si rivestì lentamente sul letto, recuperando il ritmo regolare del respiro e mettendo ordine nel tumulto dei sentimenti e dei pensieri. Aveva appena vissuto un'emozione profonda e fortissima. Il suo corpo e la sua mente si erano donati senza remore. Paolo aveva suggellato con la delicatezza di chi è innamorato un momento irripetibile e dolce. La sua vita era cambiata, assumeva una fisionomia diversa, anche se gli ideali per i quali era vissuta sino a quel giorno non cessavano di essere presenti nel suo spirito. Ma l'equilibrio tutto razionale raggiunto in quegli anni di militanza all'interno di un mondo interamente popolato di disabili, si era spezzato come al termine di un incantesimo. Il principe azzurro era lì, davanti a lei, anch'egli pieno di pensieri, con lo sguardo perso nel vuoto mentre le mani allacciavano velocemente le stringhe delle scarpe. Stava a lei decidere lo sviluppo degli eventi. Ma la sua immaginazione riusciva ad arrivare solo fino a quel varco nelle mura, non oltre. Il suo futuro era all'interno della Contea, certo in modo nuovo e diverso, ma pur sempre lì, al sicuro, certa di poter vivere in un mondo pensato e costruito su misura per le sue esigenze. Paolo sarebbe divenuto un rimpianto dolce e struggente, prima più aspro e cocente, poi, con il passar del tempo, più tenero e nostalgico. E in un futuro imprecisato non era assurdo sperare in un nuovo incontro, senza più frontiere a separare i due mondi, ma in una realtà migliore, tutta trasformata a misura d'uomo.
Paolo sembrò cogliere quel velo di tristezza negli occhi della ragazza. Ebbe un presentimento: - Non ti prepari almeno una borsa, tanto per avere con te l'essenziale, fuori dalla Contea? - .
- Non ti preoccupare, non abbiamo tempo da perdere. E poi dobbiamo evitare di dare nell'occhio, quando ci avvicineremo al passaggio segreto - glissò Francesca.
Si rivestirono in silenzio, come due pescatori che trascorrono le ore in fianco l'uno all'altro senza turbare i pesci col rumore delle proprie voci. E i pesci, in questo caso, erano i pensieri, i sogni, i desideri che si accalcavano alla mente senza riuscire ad organizzarsi in connessioni limpide e coerenti. Paolo si avvicinò a Francesca pronto a sollevarla per ritornare in carrozzina, ma lei con un gesto secco gli fece capire che voleva muoversi da sola, con la consueta indipendenza. Quella concessione all'abbandono fra le sue braccia muscolose doveva rimanere un momento unico di debolezza, un segreto da conservare con pudore. Paolo capì senza bisogno di parlare, si limitò ad accostare la carrozzina al letto. La ragazza si girò sul bordo, fece scendere le gambe appoggiando i piedi sulle pedane della carrozzina, puntò la mano destra sul sedile e con un movimento rapido e secco spostò il corpo dal letto, con naturalezza. Una leggera contrazione nervosa le irrigidì le gambe, costringendola a un massaggio defatigante. Fu quello l'unico segnale della sua situazione di paraplegica, quasi un richiamo necessario e sobrio alla realtà delle cose, alla differenza ineluttabile dei destini. Paolo infatti guardò con occhi diversi quell'altra carrozzina, nella quale, forse per l'ultima volta, doveva tornare a sedersi per ingannare le guardie della Contea, prima del tentativo di fuga. Non aveva più paura, né remore di tipo psicologico. No, adesso sentiva solo il peso della propria differenza esistenziale, e mal sopportava l'idea di una finzione che ora gli pareva quasi offensiva nei riguardi di chi, come Francesca, non poteva certo alzarsi da sola e camminare. E cominciava impercettibilmente a ragionare su quel ribaltamento dei ruoli, che di lì a breve avrebbe riportato le cose ad una normalità ormai inconcepibile: come avrebbe potuto vivere, Francesca, al di fuori delle mura amiche della Contea? E come avrebbe saputo affrontare lui, il bel Paolo dei Signori di Milano, una vicenda così intrigante e indicibile?
La ragazza parve intuire questa ombra nello sguardo di Paolo: - Non ti preoccupare, caro. Per me la carrozzina non è una costrizione, non è un simbolo di sconfitta. Anzi, dopo l'incidente, è stata proprio la carrozzina a restituirmi la mobilità e la gioia di vivere. E' la mia seconda pelle, è parte integrante della mia vita. Ma capisco che per te è diverso. Resisti ancora qualche minuto. Poi potrai tornare a correre e a usare normalmente le tue gambe - continuò Francesca - E forse apprezzerai maggiormente l'importanza di poterti muovere liberamente. Solo chi perde, anche momentaneamente, una funzione essenziale, si rende conto della sua importanza e impara ad apprezzarla. Almeno questo, forse, ti è servito - .
Paolo annuì e cercò di allontanare i pensieri più cupi: - Ho ancora molto da imparare da te. Ma avremo tutto il tempo che ci serve. Dai, muoviamoci. - .
Francesca controllò l'ora, mancava un quarto d'ora a mezzanotte. Perfetto. Aprì la porta di casa, scivolò in silenzio in giardino, Paolo la seguiva spingendo lentamente con le braccia la carrozzina manuale sulla quale era tornato a sedersi. Varcarono il cancelletto elettrico e presero subito la strada che costeggiava il bastione. La luna rischiarava il percorso proiettando una luce spettrale sulle pietre e sui volti. Francesca si stava domandando come mai nessuno ostacolasse il suo piano. L'allarme avrebbe dovuto essere scattato da tempo. Ma nessuno, apparentemente, li stava cercando.

 

26. La saggezza

Il Conte era solo, nell'enorme sala del Consiglio. Aveva ordinato a Giuseppe, il carceriere, di non fare parola dell'accaduto. E allo sciagurato non era sembrato vero. Mai come in certe circostanze il silenzio può essere scambiato per intelligenza. Giovanni dalle Ruote Nere si avvicinò alla vetrata e vide la luna alta nel cielo. Mancavano dieci minuti alla mezzanotte. "Francesca a quest'ora starà cercando di far fuggire il prigioniero approfittando del cambio della guardia" pensò. Rivide gli occhi della ragazza, le sue mani nervose, ripercorse il lungo colloquio del pomeriggio, quasi un annuncio gridato degli eventi che ora stavano precipitando. Eppure non riusciva a sentirsi in collera. Compito di un condottiero è anche quello di interpretare i fatti e di coglierne il messaggio più profondo, le implicazioni positive per guidare le future mosse. Recriminare non serve, men che meno in un caso del genere. Se Francesca aveva davvero il coraggio di una trasgressione così forte, voleva dire che la ragazza possedeva doti non comuni di indipendenza di giudizio e di capacità di lottare. Era tanto tempo che Giovanni cercava un consigliere vero, imparziale e giusto, tenace e sensibile. Era circondato invece, come spesso accade ai capi, da cortigiani sciocchi e avidi, pigri e ottusi. Sulle sue spalle ricadeva l'onere dell'ideazione e dell'organizzazione, della gestione e del controllo. Perfino dell'amministrazione. Certo, il Consiglio aveva suddiviso le deleghe, ma nella pratica le cose andavano assai diversamente. Era Giovanni la mente e il braccio, il bene e il male di una Contea unica al mondo, e con troppi, potenti nemici. Era giunto il momento di dividere con altri il peso del potere. E Giovanni pensò a Francesca con occhi nuovi.
Poco importava se in quel medesimo momento la giovane stava facendo scappare un prigioniero importante. In realtà era meglio così: il Conte era certo che Paolo avrebbe raccontato con dovizia di particolari ai Signori di Milano le stranezze di quella città e la durezza della sua reclusione. Il prestigio della Contea sarebbe cresciuto a dismisura. I giornali ne avrebbero parlato, le televisioni avrebbero intervistato il fuggitivo, magari facendolo sedere in carrozzina, per far capire alla gente quale terribile tortura era stata inflitta a un loro coraggioso soldato di frontiera. E il mito, l'epopea del Conte Giovanni dalle Ruote Nere, sarebbero usciti rinverditi e più forti che mai.
Sorrise da solo a questo pensiero. Si era sempre divertito a immaginare il futuro e le conseguenze di ogni singola mossa, come un esperto giocatore di scacchi apprezza maggiormente quell'avversario che rispetta le regole, e non sovverte l'ordine delle mosse, introducendo varianti solo a partire dal centro partita, perché così è più corretto misurare le forze in campo senza precipitare decisioni e attacchi, che potrebbero rivelarsi catastrofiche e avventate iniziative. La forza della Contea era il gioco in difesa. Guai ad avventurarsi con cavalli, torri e alfieri nella parte della scacchiera occupata dall'avversario. Anzi, un'accorta disposizione dei pedoni consentiva al Conte di dominare il centro del tavoliere, contemplando dall'alto l'affannato nervosismo con il quale un avversario lontano e distratto cercava inutilmente e con mosse azzardate di alterarne geometrie ed equilibri. La missione del camminante dentro le mura della Contea si stava risolvendo in una rovinosa ritirata che sarebbe stata gabellata per scaltra fuga, ma la sostanza non mutava. Il vincitore era ancora una volta lui, il Conte in carrozzina, il Re Nero di una scacchiera fantasma nota a lui soltanto. Ma accanto al Re mancava una Donna attenta e potente, fidata e capace. Francesca, forse, poteva vestirne i panni. Perché lei sola, adesso, conosceva davvero pregi e difetti del nemico.
Il Conte continuava a pensare, a rimettere insieme i tasselli di un disegno che sembrava aver perso la sua tramatura sottile e logica. Francesca, con la sua femminilità, con la sua aspirazione a una giustizia meno aspra e più equa, con il rigore della virtù che spesso appartiene alle donne, era la compagna ideale per la seconda parte di quel lungo viaggio intrapreso con la rivoluzione. "Una cosa è certa, non la tradirò mai" aveva detto prima di lasciarlo. E Giovanni era sicuro che non sarebbe venuta meno alla parola data. A ogni buon conto era meglio non correre rischi. Si scosse dai suoi pensieri e tornò vicino alla scrivania, azionò il pulsante che lo metteva in contatto a viva voce con i guardiani scelti. Subito rispose il comandante del plotone: - Agli ordini signor Conte - .
- Guida una pattuglia in silenzio lungo le mura esterne, in direzione del varco che una volta era riservato alle merci. Se la mia intuizione è esatta, il prigioniero sta per fuggire attraverso quel passaggio, aiutato dalla nostra guardia scelta Francesca. Ascoltami bene: non voglio impedire la fuga. Dovete solo seguire da vicino gli eventi e intervenire soltanto se anche Francesca volesse provare ad abbandonare la Contea. Ma se la vedete tornare indietro di propria volontà, come io credo che avverrà, limitatevi a prenderla in consegna e portatela subito qui da me. Hai capito? - concluse il Conte.
- Sissignore. Agisco immediatamente - rispose senza indugi il comandante - Avete altre disposizioni? - .
- Sì; non usate la forza: voglio Francesca viva -.

 

27. L'addio

Il varco era lì, a pochi metri di distanza: un portale semichiuso, addossato al tratto di muro più lontano dalla sede stradale. Un passaggio praticamente abbandonato, da quando esisteva la Contea, giacché le merci, per ragioni di sicurezza, venivano fatte passare e ispezionate da un unico ingresso a raso, piantonato ventiquattr'ore al giorno. Lì erano rimaste perfino delle tracce di barriere architettoniche, qualche gradino invaso dalle erbacce, un terrapieno sconnesso e una pendenza eccessiva per le carrozzine della Contea. Questo giustificava ampiamente la mancanza di controllori. Nessuno poteva dall'interno fuggire attraverso tale passaggio, a meno che non camminasse. Ed era appunto questa la facoltà segreta del prigioniero, il fattore sul quale Francesca giocava la sorpresa. Paolo si fermò ad ascoltare: gli era parso di sentire alle proprie spalle un rumore metallico di cingoli che avanzavano, come quelli della ronda che aveva più volte osservato dal carcere. Francesca lo tranquillizzò con lo sguardo. - E' giunto il tuo momento, Paolo. Vai - .
- Come sarebbe a dire? E tu che cosa fai? Non vieni con me?
- Non posso. Ho dato la mia parola al Conte.
- Cosa? Non ci posso credere. Io non me ne vado senza di te.
- Paolo, ti prego. Non rendere tutto più difficile.
- Francesca, io ti amo. Non posso lasciarti qui, in questo mondo folle e assurdo.
- Paolo, questo è il mio mondo, non posso rinnegare i miei ideali, le mie battaglie. Anch'io ti amo. Non ti dimenticherò mai.
- Non ci posso credere. Mi hai ingannato.
- No, ti ho solo protetto. Non avresti accettato di fuggire da solo. Ma devi farlo. Sei il mio ambasciatore di pace. Confido in te, non deludermi.
- Ma tu stai correndo un rischio tremendo, ti lasceranno in cella per il resto dei tuoi giorni. Te ne rendi conto?
- Non lo so. E non mi importa. Accetterò il mio destino con gioia, sapendoti libero.
- Come puoi parlare così, Francesca. Non ce la faccio. Non posso...
- Tu devi, Paolo. Tu devi, anche per me, anche per noi. E poi sono sicura che tornerai, quando tutto sarà più semplice, e le barriere cadranno. Se avrò fortuna mi amerai ancora, altrimenti serberò nel mio cuore il ricordo di una notte magica, preziosa come una vita intera. E adesso baciami. E vattene. Alzati da quella carrozzina e non voltarti più -.
Paolo si mosse lentamente, scosso e turbato, incapace di prendere decisioni autonome, completamente soggiogato dalla volontà e dalla logica della ragazza. Francesca allargò le braccia per accogliere teneramente il volto di lui. Lo accarezzò come una mamma. Lo baciò sulla fronte e sugli occhi. Poi appoggiò le labbra sulla bocca, e gli cinse il viso con le mani: - Vai, mio prigioniero. Sei libero. Non dimenticarti di me, come io ti serberò nel mio cuore - . Paolo cercò di baciare la ragazza con passione, ma lei si ritrasse. Il tempo era finito. Il destino era segnato. E lui capì.
Guardò per l'ultima volta Francesca, e poi quella carrozzina vuota, con le cromature che brillavano come un'antica armatura sotto i raggi della luna. Poi si voltò e pianse, correndo, sempre più veloce, verso quel varco che lo riconduceva nel mondo dei camminanti.
Francesca azionò il joy-stick, invertì la direzione di marcia, e quando imboccò nuovamente la strada verso casa, si sentì affiancare da due gendarmi sbucati silenziosamente dalle tenebre. E andò incontro al suo nuovo, inesplorato destino.