La fragilità delle categorie ontologiche

 

Guido Conti

Nel suo percorso filosofico G. Vattimo ha concentrato il suo interesse verso due pensatori, Nietzsche ed Heidegger, che si sono assunti come compito della propria indagine filosofica una critica alla modernità, intesa come la filosofia della scienza empirico-positivista, o comunque impostata sul modello delle scienze della natura, erede della tradizione millenaria della filosofia occidentale.
Questi due pensatori, mettendo in discussione la nozione di fondamento, si sono venuti a trovare nella precaria situazione di dover prendere le distanze dal pensiero occidentale quale pensiero del fondamento, mentre nello stesso tempo non poterono criticare questo pensiero facendo leva su un'altra, più vera fondazione.
Se lo avessero fatto, sarebbero ricaduti nell'impasse che avevano denunciato, quella cioè di una verità preesistente data una volta per tutte, che si tratta semplicemente di svelare attraverso l'indagine, in un lavoro in continuo progresso.
L'esigenza di esplorare nuove vie di pensiero derivava loro dalla constatazione della dissoluzione della stabilità dell'essere, già avvertita, sebbene in nuce, nelle filosofie della fine dell'ottocento inizio novecento.

Nietzsche, e soprattutto Heidegger, pensano l'essere come evento, per loro dunque diventa decisivo, proprio per parlare dell'essere, capire chi è (cos'è) quell'ente particolare che si pone la domanda circa il senso dell'essere.
La loro ontologia non è altro che l'interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l'essere non è nulla al di fuori del suo evento, che accade (es gibt) nel suo e nel nostro storicizzarsi.

 

La critica serrata alla filosofia occidentale prende avvio ovviamente da quella greca: questa non solo ne rappresenta l'origine e il luogo di fondazione, ma l'ha determinata nella sua impostazione generale ed è tutt'ora viva e operante nella scienza moderna, che non è altro che la sua secolarizzazione.
Si può parlare della filosofia di Nietzsche come di un antiplatonismo militante: gli obbiettivi delle sue critiche sono, tra gli altri, l'idealità delle idee e la lotta serrata contro l'essere pensato come presenza piena, visione.
Fin dalle origini il pensiero, per i greci, è legato alla visione (il più nobile dei sensi per Platone, perché il più immateriale).
Il termine viene da eidon (da orao, vedere), che significa guardo, osservo, il cui perfetto oida significa: so, comprendo, intendo, conosco.

 

Per i greci l'io penso è tutt'uno con l'io ho visto: per il fatto che ho avuto la possibilità di vedere, so, conosco, dunque penso.
L'autentica "visione" per Platone non è quella delle cose sensibili, che non sono altro che le apparenze fenomeniche dei veri modelli delle cose, trascendenti rispetto ad esse. Per i greci l'io penso è tutt'uno con l'io ho visto: per il fatto che ho avuto la possibilità di vedere, so, conosco, dunque penso.
Ma l'autentica "visione" per Platone non è quella delle cose sensibili, che non sono altro che le apparenze fenomeniche dei veri modelli delle cose, trascendenti rispetto ad esse.

Anche il linguaggio è solo un momento esterno, pericolosamente equivoco, che deve essere superato dal filosofo per approdare alla dianoia, il puro pensare le idee, il dialogo muto che l'anima conduce con se stessa.
Di contro Nietzsche era convinto che questa svalutazione della sensibilità, estremizzata in seguito dal cristianesimo (il platonismo dei semplici), aveva snaturato il vero ordine delle cose, che la sola realtà a noi accessibile è quella che possiamo concretamente percepire, il resto sono trucchi da preti per gabbare gli stolti.

Aristotele sosteneva che la verità o non verità non appartiene alle cose, ma ai discorsi che si fanno intorno a queste.
Attribuiva un significato essenziale al modo in cui, nel discorso, si fa visibile l'ordine delle cose stesse. Le categorie allora non sono altro che le forme della predicazione.
Aristotele quindi non isola la sfera del linguaggio in quanto tale dal mondo obbiettivo dei contenuti che esso nomina. Il discorso (logoV) diventa quindi il luogo fondante della razionalità occidentale, che ordina il mondo in modo univoco secondo leggi immutabili ed eterne.

La formalizzazione del linguaggio operata dai logici e gli sviluppi della matematica (il linguaggio stesso di Dio, secondo Galileo), sono gli eredi di questa tradizione millenaria, e l'oggetto della critica di Heidegger.


Kant è il più importante filosofo della modernità ad aver elaborato una dottrina delle categorie nella Critica della ragion pura allo scopo di risolvere il problema di come si possa fondare la scienza della natura, cioè occupandosi delle sue condizioni di possibilità. Per Kant la concordanza intersoggettiva sui giudizi d'esperienza è possibile perché è l'intelletto umano ad ordinare il reale, secondo certe regole che funzionano per tutti allo stesso modo: queste regole costituiscono lo schematismo trascendentale che è qui sotto riportato.

 

  I GIUDIZI LE CATEGORIE GLI SCHEMI I PRINCIPI
QUANTITA'

Universali

Particolari

Singolari

Unità

Pluralità

Totalità

Numero

Assiomi dell'intuizione:
tutte le intuizioni sono quantità estensive

QUALITA'

Affermativi

Negativi

Infiniti

Realtà

Negazione

Limitazione

Grado Anticipazioni della percezione:
in tutte le apparenze il reale possiede una quantità intensiva, un grado
RELAZIONE

Categorici


Ipotetici


Disgiuntivi

Sussistenza e inerenza (sostanza/accidente)

Causalità (causa/effetto)


Comunanza (azione reciproca)

Permanenza del reale nel tempo

Successione del molteplice

Simultaneità delle determinazioni
Analogie dell'esperienza:
permanenza della sostanza
Successione temporale secondo causalità
Simultaneità secondo la legge reciproca
MODALITA'

Problematici



Assertori






Apodittici

Possibilità/impossibilità



Esistenza/non esistenza

 



Necessità/contingenza

Accordo tra sintesi di diverse rappresentazioni

Esistenza in un determinato tempo

 

Esistenza in ogni tempo

Postulati del pensiero empirico in generale:ciò che si accorda con le condizioni formali della esperienza è possibile

Ciò che è collegato con le condizioni materiali dell'esperienza è reale


Ciò il cui collegamento col reale è determinato da condizioni universali dell'esperienza esiste necessariamente


Per Kant l'intuizione sensibile (cioè la percezione) ci offre il molteplice che si può conscere solo perché questo viene trattato dal nostro intelletto secondo certi regole logiche, razionali, non d'esperienza (giudizi sintetici a priori) sulle quali tutti convengono necessariamente.
Questi concetti puri dell'intelletto, generalissimi, sono le categorie, che in pratica non sarebbero altro che funzioni logiche universali.

Sulla scorta dell'analitica esistenziale dell'esserci esposta in Essere e tempo, Heidegger sviluppa un concetto originario di verità come apertura di un mondo, apertura che non è una struttura originaria del soggetto come in Kant o nella fenomenologia husserliana, ma è, conformemente alla tesi della radicale finitezza e storicità dell'esserci, appunto un evento, un accadimento storico.
La nozione classica di verità come conformità della preposizione alla cosa (veritas est adaequatio intellectus ad rem), e quindi ogni verità del tipo proposto dalla scienza moder unona, è possibile solo una volta che si sia istituita questa preliminare, e sempre storicamente determinata, possibilità di rapporto dell'esserci con gli enti intramondani, costituito appunto dalle categorie dell'essere della tradizione metafisica occidentale.

Alla base della verità come conformità sta per Heidegger una verità più originaria, che è l'evento nel quale s'istituiscono le strutture di base entro le quali soggetto e oggetto diventano accessibili uno per l'altro.
La verità primaria non è dunque quella che ci dice come stanno le cose, ma l'evento in cui si annunciano queste strutture base, che rendono visibile ogni verità (secondaria) come conformità della proposizione alla cosa.

Per Heidegger l'esperienza della verità dunque si compie in modo privilegiato entro un modello retorico, più vicino a quello estetico (da qui la sua lunga riflessione sull'arte, specialmente sul linguaggio della poesia di autori che s'interrogano proprio sul problema del suo senso e messaggio veritativo), piuttosto che ad uno tecnico-scientifico.

Questa prospettiva, che potremmo definire antimoderna, è teoricamente sostenuta da tutta la sua indagine sulla struttura dell'esserci, dalla sua determinazione come essere nel mondo, quale apertura che comprende in quanto interpreta sulla scorta della precomprensione, dalla quale solo è possibile ogni nostro atto conoscitivo.
Comprende solo chi ha già compreso, in base proprio a questo accesso già da sempre in opera nella nostra mente.
Questo apparente paradosso ha una lunga tradizione che possiamo rintracciare nella reminiscenza platonica del Menone, come pure in una rielaborazione ad hoc dell'a priori kantiano: Heidegger dice lo stesso (das Selbe), ma non l'uguale (das Gleiche).

Il risultato di tutto questo discorso, a tratti così complesso e intricato, qui solo tracciato per sommi capi, non può arrivare a stabilire una volta per tutte chi, tra tutti questi maestri del pensiero abbia ragione circa l'interrogativo sull'essere.
Se lo facessimo daremo per certa l'esistenza di una verità che qualcuno, prima di noi, è arrivato a scoprire, o a cui, per lo meno, si è avvicinato.
Essa sarebbe la risposta già pronta e confezionata ai nostri interrogativi, così come in precedenza lo è stata per i nostri predecessori. Allora questa, che avrebbe allora le caratteristiche dell'Assoluto, valida in ogni tempo e in ogni luogo, è in realtà fuori dalla storia.
Proprio perché risposta unica a qualsiasi contestualizzazione si propone in regime di astrazione rispetto ad ogni stato esistenziale, sciolta da quelle concrete e specifiche relazioni che caratterizzano in modo univoco ogni tempo storico.
Così concepita la verità appare dunque di marca religiosa, giacché trova coincidenza e corrispondenza solo con l'essere stesso di Dio, inteso come totalmente altro, e dunque collocato fuori dallo spazio e dalla storia.
Ciascun pensatore ha proposto una verità in modo chiaro, completo e almeno in parte convincente.
Tutto questo è però avvenuto in un determinato e specifico contesto storico, e da un personale punto di vista. La scelta di un pensatore in modo privilegiato ed esclusivo implicherebbe l'assunzione di uno specifico punto di vista che, pur essendo particolare e limitato, sarebbe invece adottato come assoluto, prescindendo così dal contesto storico nel quale è maturato.

Nietzsche e Heidegger ci servono allora per stimolare il dubbio verso quelle verità che la metafisica ci ha contrabbandato come ovvie e assolute.
Da tale problematico punto di vista, bandita ogni certezza dogmatica, può scaturire solo l'indicazione di un percorso, che va verificato di continuo.
La prospettiva è quindi quella di un pensiero in movimento, privo di punti d'appoggio stabili e sicuri, e che è in grado di fornire solo risposte esistenziali che rispecchiano, anche se mai perfettamente, i mutamenti del contesto storico e che vanno a verificare, di volta in volta, i cambiamenti in atto nella stessa formulazione delle domande.