Luci e Ombre

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Una famiglia oltre le sbarre

21/04/2002

Livia Nascimben

Sono molto emozionata.
Ho portato le persone a me più care in carcere, le ho invitate a scrivere qualche loro impressione, pensiero, emozione pre e post convegno (senza orientare troppo i loro lavori), loro hanno risposto con impegno e serietà...ed ora tocca a me presentarveli.

La nostra è una famiglia come tante: i genitori lavorano, i figli studiano e la sera è l'unico momento in cui ci si ritrova insieme, spesso però si è stanchi, non si ha voglia di parlare e ci si lascia incantare dalla televisione. A volte fatti eclatanti di cronaca richiamano l'attenzione di tutti e "scappa" qualche commento, le opinioni e i sentimenti sono contrastanti, cinque minuti di discussione, poi la notizia cambia e il discorso cade. E ognuno, finita la cena, ritorna ai propri impegni: riunioni, feste, uscite con gli amici, studio (raramente!), qualche passeggiata romantica, mestieri, grandi dormite davanti alla tv.. E la routine ricomincia.

Gli spazi per comunicare e discutere insieme sono sempre più ridotti e difficile diventa scambiarsi costruttivamente idee su questioni delicate che richiederebbero tempo e voglia di problematizzare anche se stessi per essere affrontate, come ad esempio il tema del rapporto fra individui o quello fra carcere e società.

Il corso sulla Devianza a me ha fatto conoscere una parte di mondo che credevo di conoscere e di poter giudicare ma di cui sapevo troppo poco, mi ha fatto nascere mille dubbi, smontare mille certezze, avvicinarmi tanto al "bene" quanto al "male", mi ha permesso di dare il mio contributo affinché la realtà dentro e fuori dalle mura si possano progressivamente incontrare.

Ma come portare i dubbi, le domande, le emozioni, le riflessioni maturate in aula e nate dalle interazioni con gli abitanti del mondo carcerario al di fuori delle mura universitarie e del sito dove non tutti arrivano?
Come dare corpo all'idea che i detenuti ci appartengono?
Come far crollare certezze stereotipate e pregiudizi riguardo ai delinquenti "col bollo" senza sentirsi rispondere "sì, va bè, allora giustifichiamo ogni comportamento, la legge non serve più, delinquere diventa lecito e ci ritroviamo a passeggiare nel parco sottobraccio ai detenuti con le carceri svuotate"?
Come far capire che non è né con un atteggiamento compassionevole e caritatevole né con uno rigidamente severo e punitivo che si può agire in modo trasformativo sulla realtà, tanto quella dentro le mura quanto quella fuori?

Come comunicare che il problema non è quello di provare sentimenti di amore verso i detenuti e giustificarli in onore del riattualizzarsi di un trauma infantile piuttosto che provare sentimenti di odio e per questo volerli lapidare o voltargli le spalle, ma è quello di interrogarsi, cercare di capire i problemi della mente, le zone buie di ognuno, le parti problematiche dell'umanità e vedere se e come l'impulso a distruggere non possa essere trasformato in impulso a costruire?

Semplice! Carpe diem: portare una parte di Società, la mia famiglia, in carcere insieme ad altri cittadini comuni, studenti e detenuti .
Cosa c'è di meglio che far vivere e vedere le cose in prima persona, invece che raccontare un'esperienza, perché possano nascere dubbi e riflessioni?
Se avessi partecipato solo io al convegno a San Vittore non sarei riuscita a rendere alla mia famiglia "l'angosciante atmosfera di quegli spazi che imbavagliano" né sarei riuscita a portar fuori loro l'immagine di detenuti come persone appartenenti alla nostra stessa società.
Grazie a quel piccolo scambio fra Noi e Loro è nato un nuovo spazio per poter iniziare a discutere in modo costruttivo circa le questioni più oscure e creative della Società, le luci e le ombre. Ora se ne può parlare insieme. Ora è più difficile fingere di non vedere. Mi hanno chiesto se fosse possibile partecipare nuovamente a iniziative simili, mia mamma ne ha parlato con le sue amiche e ha coinvolto pure il suo capo portandogli l'indirizzo di trasgressione.net e ildue.it, ci siamo posti delle domande, insieme ne abbiamo parlato e ognuno ha cercato di dare il proprio contributo secondo i propri interessi, i propri mezzi, risorse e conoscenze a disposizione.

E' evidente che si possano affrontare mille sfaccettature della questione, è evidente che una volta a casa non le abbiamo affrontate tutte, come è evidente che neanche ora mi soffermerò su ognuna (anche solo per il fatto che penso di ignorarne molte).

Un aspetto mi ha colpita: il problema della comunicazione e alcuni paradossi e contraddizioni che il carcere racchiude in sé.

L'uomo, se non comunica, non esiste. Nasce dalla comunicazione e dall'unione di due individui. Inizia a crescere e a imparare a conoscere il mondo e se stesso grazie alla relazione con le figure genitoriali. Si differenzia dagli altri individui per mezzo della comunicazione; esprime, attraverso diversi canali, ciò che pensa, ciò che è diventato, ciò che è stato e ciò che vorrebbe essere, i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue difficoltà, le sue emozioni, le sue paure, i suoi progetti.

La comunicazione interpersonale è un processo circolare che passa da chi parla a chi ascolta permettendo un feedback, verbale e non verbale, da parte dell'ascoltatore a chi parla e viceversa. Avviene in contesti specifici e fra specifiche persone ognuna delle quali influenzata nel modo di porsi all'interno della relazione dai propri filtri, quali ricordi, esperienze passate, interessi, convinzioni, pregiudizi, rappresentazioni di sé, degli altri, del mondo, aspettative, sentimenti, valori, ma anche dal contesto sociale, familiare, economico, politico, culturale, ovvero da un spazio attraverso cui ognuno legge ciò che gli succede attorno e nel proprio mondo interiore e che gli permette di sentire di avere o meno la libertà di esprimersi.

A volte questo spazio è sentito opprimente e insufficiente per l'espressione del proprio essere e inevitabilmente l'individuo, costretto, metterà in atto strategie difensive per far fronte alla situazione frustrante diventata intollerabile. La persona, impossibilitata a pensare e a rappresentarsi ciò che fa problema, si rifugerà in un sintomo, in una condotta deviante, che costituiranno implicitamente una comunicazione, la rappresentazione di un conflitto, "una domanda male assemblata verso un interlocutore dall'identità confusa" ..per percepirsi vivi.

Non si può considerare il reato solo come una comunicazione implicita o inconscia né, viceversa, solo come una azione consapevolmente orientata. La Società attraverso il rispetto delle sue stesse leggi deve svolgere sia la funzione di orientamento che di misurazione. L'interlocutore o gli interlocutori, la Società, lo Stato, l'Istituzione dovrebbero sì valutare quanto il comportamento è uscito dai binari della legge e sanzionarlo, ma anche cogliere la domanda di cui il comportamento violento è un surrogato. La ricerca della storia e del divenire dell'errore può procedere in parallelo con la responsabilizzazione dei colpevoli circa la gravità della loro azione e della ferita procurata alla vittima per permettere loro di recuperare uno spazio entro cui riconoscersi ed evolversi.

E allora, ci chiedevamo a lezione, come ridare a una persona che compie un reato uno spazio adeguato per assumersi la responsabilità del proprio gesto deviante, riconoscersi e realizzarsi in una situazione come quella carceraria che, per definizione, limita la possibilità di pensiero, comunicazione, espressione, movimento, creatività?
Le contraddizioni sono molte; il suicidio in carcere dimostra che non si è giunti a una soluzione adeguata del problema.

Se un soggetto compie un reato o, se una volta in carcere, si toglie la vita, probabilmente la comunicazione da qualche parte si è interrotta o, se non altro, è stata carente. Un reato, di qualunque natura esso sia, produce una lacerazione tra il reo e la sua vittima, fra il detenuto e la società e fra parti diverse dello stesso colpevole. Ed è importante che si possa riprendere la comunicazione, che le diverse parti della società si riconoscano come una parte dell'altra, che riprendano a comunicare tra loro, ascoltandosi, dialogando, intrecciando i propri pensieri, le proprie emozioni. La pena dovrebbe aiutare in questo, prevedere un progetto, "il progetto di ricucire il baratro che le circostanze storiche e le responsabilità personali del reo hanno alimentato fra lui e la vittima". Mettere in comunicazione, far dialogare, creare ponti, ricucire lembi lacerati costa fatica, molte energie e lavoro e la necessità di mettersi in gioco, ma se una sorta di ricongiungimento fra parti si sé, fra parti di società, fra parti di mondo avviene ci si sente più maturi, più completi, più vivi, si cresce e si prova una sensazione di benessere.
Ancora più importante sarebbe non interrompere la comunicazione…

E tutto questo cosa c'entra con il convegno, con me e con la mia famiglia? Mi sono un po' persa ma c'entra!

Con "Luci e ombre" un inizio di incontro è avvenuto e la cosa che più mi ha stupita e gratificata è stata che questo dialogo sia avvenuto su più fronti contemporaneamente e che ogni individuo fosse in qualche modo protagonista: un riavvicinamento tra una parte, seppur piccola, di società "libera" e una parte, seppur piccola, di società detenuta; fra studenti, che prima, pur avendo un obiettivo comune, comunicavano solo attraverso il docente, e che hanno incominciato a scambiarsi direttamente impressioni, pensieri, emozioni tramite la posta elettronica; fra persone di un piccolo nucleo della società, la mia famiglia; e penso fra le luci e le ombre presenti in ognuno dei partecipanti al convegno, siano stati essi detenuti, studenti o liberi cittadini.

Portare anche la mia famiglia in carcere per me ha significato comunicare con loro. Desideravo fare qualcosa insieme a loro per poi poterne discutere insieme e insieme scambiarci pensieri e, possibilmente, emozioni ..nonostante mi sembrasse paradossale che ci trovassimo riuniti in un luogo che per definizione tiene separati e impedisce la comunicazione.

Ha funzionato! Il giorno dopo il convegno, la domenica, a pranzo abbiamo chiacchierato. Ho proposto ufficialmente loro di costruire un documento comune con qualche considerazione sull'incontro con lo scopo dichiarato di mandarlo idealmente a tutti coloro che hanno partecipato all'incontro

Non saprei dire quale fosse l'obiettivo principale; forse avevo semplicemente piacere di fare qualcosa con loro. Di fatto, ci siamo riusciti.

Beh, non so che altro dire, inizialmente avrei voluto che i loro scritti si integrassero con le mie parole, però poi non sono stata in grado di intrecciare i miei pensieri ai loro, così ora non mi rimane altro che presentarveli, questa volta per davvero! premettendo che non li ho mai coinvolti molto nel lavoro che noi studenti abbiamo iniziato frequentando il corso.

Mia madre (mezza impiegata e mezza casalinga) è stata la prima a tuffarsi nel lavoro. La sera del convegno, prima che andassi a dormire, eravamo in cucina da sole io e lei e mentre si diceva qualche parola sulla giornata appena trascorsa, le avevo confidato che mi sarebbe piaciuto che la famiglia Nascimben scrivesse qualcosa insieme a testimonianza della nostra partecipazione e, ancor prima che finissi di parlare, aveva già in mano carta e penna..
Quella sera è stato bello addormentarsi sentendo ancora vive le emozioni e rivedendo davanti agli occhi sguardi, volti, sorrisi, scene, immagini del carcere e quella di mia madre impegnata a scrivere ..per me, per noi, per voi e per loro.

Vedere mio padre (impiegato) davanti al computer e saperlo lì per me mi ha commosso Era domenica scorsa, una settimana fa. Io quel pomeriggio uscivo col mio ragazzo, l'ho lasciato che scriveva e l'ho ritrovato al ritorno ancora lì che stava sistemando il suo scritto.

Mio fratello (studente di Sociologia) quasi mi sembrava di costringerlo a lavorare per me, continuava a dirmi "sì, dopo lo faccio.. sì, un attimo.. sì, aspetta.." e mi sembrava che non avesse senso avere un suo lavoro se questo non fosse stato spontaneo.
Un pomeriggio si è messo al computer e ha scritto. Dal mio punto di vista il suo scritto è di un valore notevole e gli sono grata per aver condiviso le sue sensazioni e le domande che si è posto.

Bene, ora manca il mio ragazzo (ingegnere). Sono contenta che sia venuto con noi, sono contenta che abbia voluto anche lui dare il suo contributo nonostante la sera dopo il lavoro fosse stanco morto, e soprattutto mi fa piacere sapere che questa esperienza gli abbia dato un po' di tutto quello che sta dando a me: scoprire e scoprirsi.

A dire la verità mancherei io, che dopo avere assillato tutti per ottenere il loro scritto, ho lasciato passare molti giorni senza scrivere nulla.

Cosa dire?
A me ha fatto piacere esserci, esserci con la mia famiglia, esserci con altri studenti, esserci con i detenuti e esserci con altri cittadini comuni. E sono contenta di sentire che l'incontro di sabato sia l'inizio di un cammino che investe più fronti, personale, familiare e sociale.

Chiuderei con il racconto di un impercettibile evento che il giorno del convegno mi ha colpito: gli studenti stavano esponendo le tesine, i detenuti facevano domande e mentre ci si confrontava, da lontano, è arrivata in mezzo a noi la voce di un gruppo di persone che si sono messe a cantare. Immediatamente ho pensato "Silenzio! Disturbate, state interrompendo il clima di unione che si è creato. Zitti!". Poi mi sono resa conto che non eravamo soli, che le nostre voci non restavano nel corridoio dove eravamo seduti ma arrivavano anche a chi non era lì con noi, altri detenuti sentivano la nostra presenza, pur non vedendoci, e, coi loro canti, facevano sentire la loro e mi faceva piacere sentirli. Una volta fuori ho pensato che magari fosse solo una coincidenza che le nostre voci fossero giunte a chi era rimasto in cella e che loro per risposta ci avessero dato il loro canto; forse mentre noi eravamo lì impegnati, altri detenuti stavano partecipando a qualche attività, ad esempio, di canto (sempre che esista) e a me invece era parso che stessero partecipando al nostro incontro.. Comunque sia questo episodio mi ha fatto riflettere sul fatto che i cittadini comuni che sono entrati in carcere rappresentino solo una parte della società fuori, così come i detenuti che hanno partecipato rappresentino solo una parte di società dentro e che, se anche c'è stato un incontro fra Noi, il lavoro perché le due parti di Società, il dentro e il fuori, si riavvicinino è ancora molto, così come metaforicamente ognuno ha il proprio da fare per far dialogare ombre e luci che ha dentro.

E allora rimbocchiamoci le maniche ..e arrivederci al prossimo convegno.