RASSEGNA STAMPA

6 LUGLIO 2000
LUCIANA SICA
Siamo tutti imitatori

 

Nel corso della nostra vita, dal momento della nascita in poi, l'imitazione rappresenta una forma fondamentale di apprendimento. Si comincia con la mamma e - con una serie di processi imitativi quasi sempre di natura inconscia - si va avanti così, con tutte le figure significative che incontriamo, e tendiamo a idealizzare. E' ovvio che saranno figure diverse, a seconda di chi siamo, ma appartiene all'esperienza quotidiana il meccanismo di assumere qualcuno come modello di riferimento.
Imitarlo può allora voler dire, in una chiave positiva, cercare di acquisire le particolari qualità che si riconoscono e si apprezzano nell'Altro. Se l' imitazione diventa invece una maldestra e goffa scimmiottatura - dell'amico del cuore, del proprio partner, del capoufficio, di un personaggio di successo... -, quel comportamento segnalerà una qualche patologia fondata su una debolezza della soggettività e una tendenza al gregarismo, con quanto ha di socialmente pericoloso.
Sono anni che l'identità è diventata un luogo privilegiato, il vero puzzle del pensiero contemporaneo, eppure sembra una categoria ancora sfuggente nella definizione degli esseri umani, sarà perché l'itinerario dell'autorealizzazione è un privilegio riservato a pochi fortunati abitanti del primo mondo. E i comportamenti collettivi di tipo imitativo - che possono assumere forme atroci, come ci insegna la storia del Novecento - nascono proprio da una generale indistinzione, dall'incapacità o forse più spesso dall'impossibilità di definirsi, se non attraverso il giudizio e il consenso degli altri.
L'imitazione contiene allora una forte ambivalenza, oscillazioni di senso a cui il pensiero psicoanalitico non può rimanere estraneo, ed è anzi curioso che a lungo nella letteratura teorico-clinica ce ne siano state così labili tracce. Sull'imitazione, lo scritto di Eugenio Gaddini, del '69, ha rappresentato un punto di svolta. Ora - per un pubblico colto, non solo specialistico - una bella lettura su quest'argomento è Il falso Mozart, sottotitolo "Arte e patologia dell'imitazione" (Cortina, pagg. 176, lire 28.000). L'autore è Enzo Funari, tra gli allievi più brillanti di Cesare Musatti, membro ordinario della Società freudiana, professore di Psicologia dinamica all'università di Milano. E' un signore di sessantacinque anni che fa sfoggio di humour e di piacevole understatement come quando si definisce "un critico d'arte fallito": non a caso ha sempre amato gli intrecci tra il mondo dell'arte e la psicoanalisi, e si vede anche in questo suo ultimo studio, che sollecita molte domande e curiosità.

Professor Funari, cominciamo dal titolo del libro, che nelle ultime pagine viene fuori come un caso clinico... Chi è questo falso Mozart?

"E' un uomo di successo, nella vita professionale come in quella personale, che a un certo punto - anche paradossalmente - decide di fare l'analisi perché sente il disagio di non essere autentico, perché non tollera più la sua immagine eternamente ingannevole, falsa appunto... E' un uomo che ha avuto un rapporto fusionale e indistinto con la madre, sempre stretto tra la necessità di seguirne i dettami e il desiderio di affrancarsene mediante l'unica strategia che ritiene possibile, basata sull'inganno...".

Il classico pupillo di mamma, che diventa un imbroglione.

"Il pupillo di una madre incombente e piena di attese molto impegnative. All'età di cinque anni, c'è l'episodio centrale, che il mio ex paziente più volte mi ha ripetuto e che tanto ha condizionato la sua vita".

E' qui che c'entra Mozart?

"Sì. La madre decide che il suo venerato primogenito prenda dimestichezza con il pianoforte, il bambino impara a suonare rapidamente, e dopo qualche tempo gli viene graziosamente imposto un concerto in famiglia. A otto anni, è un enfant prodige in grado di suonare Mozart.
Davanti a una piccola folla di amici e parenti, sotto lo sguardo compiaciuto della mamma, ecco questo bambino di otto anni che suona con trepidazione, sbaglia, si angoscia, ma si rende conto che nessuno se n'è accorto. Sbaglia di nuovo, questa volta di proposito, ricavandone solo espressioni ammirate. Allora prova rabbia, ma anche un senso di trionfo, e impara l'arte dell'inganno, si convince che per riuscire nella vita bisogna fregare gli altri. Tanto solo lui e Mozart sanno come stanno davvero le cose".

La sua riuscita nella vita è il perfetto risultato dell' imperioso affetto della madre, un'inconsapevole stratega della gloria umana (e chi sa quanti gliela invidieranno...). Ma dove sta esattamente la patologia dell' imitazione?

"Il punto è che l'indistinzione con la propria madre equivale a non smettere mai d' imitarla. In questo caso, non essere più lei - quella signora dolce e autoritaria - non ha significato essere se stesso, mentre essere Mozart ha rappresentato una forma imitativa più evoluta: mettendosi nei panni di Mozart poteva sbagliare e nessuno era in grado d'interferire...".

Com'è finita?

"E' finita che quest'uomo ha capito che si può sbagliare, anche se gli altri se ne accorgono. Non è una tragedia, e implica il coraggio di essere se stessi, senza dissimulare i propri errori che sono assolutamente umani, senza la continua necessità di camuffarsi".

Tentiamo di spiegare meglio come nascono i comportamenti imitativi. Per lei, non segnano - nel bambino - il passaggio dal livello della corporeità a quello della vita psichica. Perché?

"Perché si tratta di comportamenti molto antecedenti al momento in cui il bambino riesce a cogliere la differenza tra sé e l'altro, distinguendosi prima dalla madre e poi, via via, dalle altre figure significative... L'imitazione comincia con la nascita, che provoca una separazione dal corpo della madre e crea degli intervalli e delle attese difficili da sostenere per il neonato. Il processo imitativo è allora un tentativo - in forma allucinatoria, ovviamente priva di un processo riflessivo - di ristabilire quella fusionalità finita per sempre. Io credo che sia questa la sua matrice più primitiva".

Ma quando l'imitazione assume un carattere patologico?

"Per una serie di ragioni - come delle sofferenze psichiche in età molto precoce, dalla nascita ai primi anni di vita - può esserci un'impossibilità di separarsi dalla madre, di differenziarsi, di acquisire la propria soggettività. E' allora che la situazione imitativa si "fissa" con esiti anche psicotici".

Nel suo libro lei cita due notissimi film: Psyco e Zelig. Hanno una funzione esemplificativa?

"Sì, e di una estrema gravità. I due protagonisti di quei film soffrono di una tale patologia imitativa della figura materna da non riuscire a sopportare l'idea che esista qualcosa di diverso da sé. La loro tragedia è tutta modulata su una difesa nei confronti dell' alterità e sull'angoscia di dover uscire dall' incapsulatura imitativa.
Per loro, essere sé stessi equivale tout court a essere la propria madre...".

Ci sono processi imitativi più banali. Ad esempio, quando idealizziamo qualcuno e lo percepiamo migliore di noi, l'atteggiamento emulativo non è un modo per contenere, per sublimare il sentimento dell'invidia?

"L'imitazione e l'invidia sono in un certo senso sentimenti analoghi, perché implicano comunque un sentimento di mancanza e la necessità d'incorporare - quasi in modo vampiresco - l'oggetto idealizzato. L'imitazione, come l'invidia, permette inconsciamente di annullare le differenze, di essere l'altro. E' vero che l'invidia, soprattutto quando è negata, può diventare un sentimento più virulento, più distruttivo. Ma spesso si tratta di movimenti iniziali, in un processo che - se dà buoni risultati - può alla fine permettere di sentirsi bene nella propria pelle...".

L'imitazione implica comunque un rapporto di dipendenza?

"Ma la dipendenza, dalla nascita in poi, è un'esperienza necessaria!".

In che senso?

"Ma nel senso che, per poter crescere, dobbiamo dipendere dall'adulto prima, e poi socialmente dagli altri... Non c'è niente di male nella dipendenza, il problema nasce se la dipendenza è legata a un'esperienza di sofferenza, se la viviamo come qualcosa che ci schiaccia, ci opprime, di cui vorremmo liberarci. La dipendenza in sé è sana, sono gli atteggiamenti di dipendenza negati che possono esprimersi in forme anche molto disturbate...".

Rimane il problema del suo falso Mozart...
Trova facile essere approvati, rimanendo se stessi?

"Non è facile affatto, comporta un lungo lavoro che prevede ansie e sensi di colpa, battute d' arresto, grande fatica... Ma le esperienze imitative ci accomunano agli altri, senza che questo significhi automaticamente rinunciare alla nostra possibilità di essere creativi".

E però tutti i grandi artisti - come Picasso o Bach, che lei cita nel suo libro - si sono sottratti ai processi imitativi. Non sono entrati nella storia dell'arte o della musica proprio per questo?
"Qualsiasi grande artista parte dall'impiego di modelli che la tradizione gli propone, prima di disattenderli e d'imporre nuove forme espressive. Con una differenza non da poco, che l'artista riesce a rompere certi confini molto più di quanto non faccia il comune mortale".
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