Processo

Antonella Cuppari

01-02-2004

Mi stanno portando in tribunale; sono imputata. Sono su un camioncino, scortata dalla polizia. Sento dire che mi daranno 18 mesi di condanna.

Ho con me lo scritto di Silvia, lo scritto di Walter, il verbale di Livia, il mio scritto che il venerdì della settimana scorsa abbiamo letto e commentato al Faro.
Ho con me anche una videocassetta, prova concreta della mia innocenza, o meglio parziale innocenza.

Sono accusata di aver rubato un panino al prosciutto crudo e di aver fatto irrimediabilmente e volontariamente male ad una mia amica durante uno spettacolo di danza.

Durante il tragitto penso a quello che mi aspetterà: 18 mesi chiusi in una cella. Un taglio netto con la mia vita passata, fatta di famiglia, amici, impegni, danza. Mi sento soffocare, mi viene da piangere, spero nella clemenza del giudice.
Mi chiedo se mi si concederà almeno di andare al Gruppo, ovviamente da membro interno, per continuare a vivere quella parte della mia vita che prima vivevo da fuori; per continuare a coltivare quelle relazioni che mi permetterebbero di rimanere legata alla mia storia, alla mia vita e al mio passato.

Tutto questo mi balena in testa.

Dopo un po’ arrivo davanti al Tribunale: c’è tutta la mia famiglia, c’è tutta la controparte, ci sono i poliziotti. Davanti c’è il giudice; una donna di mezza età, dal volto identico all’esaminatrice della Royal Accademy of Dance che mi ha valutato nell’esame che ho sostenuto a novembre.

Parla l’accusa, espone i fatti.
Tocca a me.
Mi dichiaro colpevole e pentita per il furto del panino. “Non so perché l’ho fatto. Forse sentivo la mancanza di qualcosa. Con questo non mi voglio però giustificare”.

Il giudice mi guarda in silenzio, sorride, come può sorridere una madre buona ad un figlio che ha commesso una marachella, come una mamma che, da una parte, deve far capire al figlio che ha sbagliato, ma che, dall’altra, lo rassicura sul fatto che ciò che ha commesso non è poi così grave.

Mi sento compresa, la sento alleata.

Non ho però fatto niente alla mia amica.” Continuo “E’ stato un incidente se si è rotta la gamba e se ciò ha comportato gravissime conseguenze. Non è stata colpa mia.”

L’accusa interviene e, per dimostrare che ha ragione, mostra un film, uno di quelli che si vedono al cinema. In particolare, fa vedere la scena in cui una ragazza annega un uomo, il suo uomo, in un fiume. Paragona quel gesto a quello che ho fatto io alla mia amica.

Io ribatto, dico di guardare anche la parte precedente del film, in cui si può cercare di capire il perché quella ragazza è arrivata a fare un gesto del genere.

Mi dichiaro ancora innocente. E’ vero, sono innocente, la mia amica vuole solo incastrarmi.

Leggo gli scritti del faro di settimana scorsa, nella speranza di mettere in luce la parte buona, sana e onesta di me.

Il processo ad un certo punto termina. Si sentono voci che dicono che forse mi daranno le attenuanti: solo 3 mesi. Il giudice se ne va. Prende un ascensore trasparente e va su, ai piani alti. La vedo che mi saluta, facendomi “ciao” ripetutamente con la mano. Tiro un sospiro di sollievo: sono stata capita.

Mi sento voluta bene. La mia famiglia mi si stringe attorno ed è contenta. Torno a casa, non si parla più di prigione, sono libera.
Mi sento sollevata anche se non riesco bene a rendermi conto di ciò che è successo.



Questo è quello che ho sognato questa notte.

Il panino col prosciutto è quello che ho mangiato quel venerdì che sono venuta al Faro.

Gli scritti che ho sognato sono quelli che ho stampato e fatto leggere anche a mia mamma per aiutarla a capire che cosa era successo durante l’incontro di quel venerdì.

Quel giudice-esaminatrice, è quella esaminatrice che mi ha promosso nonostante la mia pessima performance di quel giorno d’esame.

A volte mi capita di sognare il carcere e la sensazione che provo è sempre la stessa: soffocamento, angoscia, solitudine, taglio netto con la mia vita e col mondo, buio, freddezza nei rapporti, senso di colpa.

Rifletto su questa mia immagine onirica di carcere. Perché è così? Perché non è cambiata col lavoro che da due anni a questa parte stiamo facendo nel gruppo?

Credo nel fatto che le mura e le sbarre, anche quelle di un carcere, possano diventare comunicazione, ammorbidendosi. Possono non costituire per forza un “taglio”, una “ferita” col mondo esterno, e col proprio mondo interno.

Ho sempre avuto la presunzione, comunque, di essere fuori da quelle sbarre, fredde e irremovibili. Comincio a pensare, però, che quelle mura in me sono ancora rigide e spesse. Quelle mura ancora mi soffocano.

Ora più che mai percepisco sulla mia pelle come, in realtà, il mio rapporto con le sbarre, con la libertà… il mio rapporto con la “giustizia” sia ancora immaturo, molti chilometri indietro rispetto al percorso fatto col Gruppo.

I miei giudici misurano. Anche se quella del sogno, mi ha assolto e salutato con la mano, io mi sono sentita in colpa e nella necessità di venire giudicata e giudicare davanti ad una platea di persone. Perché?

An|on|el|a

Caravagglio, La decollazione di San Giovanni

 


La tua prigione sarà anche angusta, ma non si può dire che non ti dia da fare per metterci mano. E comunque, l’inizio e la fine del tuo nome sono fuori dalle sbarre. Quando si riesce a fare della propria prigione qualcosa di cui gli altri possano godere, lo sguardo di chi è dentro e di chi è fuori cambia direzione.

C’è stato un tempo in cui sembrava che il godimento che l’arte procura potesse aver luogo solo con la rappresentazione di cose già belle di per sé. Strada facendo, si sono conquistati la cittadinanza nel mondo dell’arte anche il conflitto e il dolore. E mi sembra proprio che qualsiasi esperienza, quando viene restituita in modo che altri vi si possano riconoscere, permette a noi e agli altri di vivere in un mondo più libero.

Angelo Aparo