Un'estate in città

Fulvio Cattaneo

10-02-2009  

L'estate del 1972 era iniziata all'insegna delle più fosche previsioni. Per la prima volta da che ricordavo non sarei andato in vacanza; inoltre, avrei vissuto fino a settembre inoltrato con lo spauracchio dell'esame di riparazione. Avevo undici anni ed ero stato rimandato in matematica. Tuttavia, queste pessimistiche attese furono sovvertite da una vicenda tanto emozionante quanto sconcertante, che si svolse nello stabile in cui vivevo.

Questa storia cominciò in un'afosa serata ai primi di agosto, era già buio, davanti al cancello d'ingresso del nostro condominio. Anna Colò, famosa e anziana attrice di teatro ancora in attività, stava rincasando quando due uomini la fermarono e la minacciarono con un coltello. I due, di giovane età, volevano i soldi e l'orologio. La povera signora non ebbe il coraggio di gridare aiuto e, spaventatissima, consegnò subito la borsetta contenente il denaro. Quindi, uno degli aggressori le afferrò il polso e iniziò a sfilarle in malo modo il costoso orologio.

Terrorizzata, la Colò aveva chiuso gli occhi, sperando soltanto che l'incubo che stava vivendo finisse al più presto. Nel concitato racconto di quello spiacevole episodio, avrebbe poi detto che non appena l'orologio le venne tolto, uno dei due, forse quello che teneva il coltello, gridò di mollare tutto e di scappare perché stava sopraggiungendo qualcuno. Dovevano essere inesperti per farsi prendere dal panico e decidere, a quel punto, di fuggire a mani vuote.

Dall'inizio di quella penosa esperienza, alla Colò il tempo era sembrato non passare mai. Quando udì l'urlo dell'aggressore, la donna riaprì gli occhi: un'ombra dai contorni incerti, di cui si percepiva lo scalpiccio, stava avanzando verso il terzetto lungo il marciapiede scarsamente illuminato, tenendosi accosto alla cancellata che circondava il condominio. Quella visione però non suscitò nell'attrice un sollievo immediato, ma ne accentuò l'incertezza e la paura. La sagoma che si avvicinava, la cui identità permaneva irriconoscibile, costituì piuttosto un'ulteriore minaccia.

Quando gli assalitori se la diedero a gambe, la sagoma si fermò. Era a una quindicina di passi dalla vittima, senza tuttavia essere raggiunta dalla luce proveniente dalla tettoia del cancello. Rimasta immobile per alcuni istanti, con un balzo superò la siepe che costeggiava la strada e sparì, prima che la Colò potesse dire qualcosa.

Questo aveva raccontato l'indomani mattina l'attrice a Giovanni, il portinaio, che non mancò di mettere al corrente quelli del condominio con cui aveva maggiore confidenza, tra cui mia madre. lo venni a sapere da lei dell'aggressione il pomeriggio successivo al fatto.

Mia madre, così come mio padre, era rimasta molto impressionata dall'episodio, analogo ai tanti di cui parlavano ogni giorno giornali e televisione e cui si faceva ormai l'abitudine, ma che, essendo capitato proprio sotto casa, risultava intollerabile. Commentandolo, non aveva minimamente accennato al suo esito bizzarro e imprevedibile. In effetti, su questo punto, il racconto della Colò poteva essere in parte il frutto dell'immaginazione, a causa del suo stato d'animo e della scarsa visibilità. I miei genitori parevano però non avere alcuna curiosità in proposito.

Quando mia madre mi riferì dell'episodio, stavo leggendo un fumetto dei supereroi. Erano personaggi dotati di poteri sovrumani che lottavano contro il Male. Agivano mascherati, per celare la loro vera identità: indossavano un costume che era in genere costituito da una calzamaglia.

Non credo che la fantasia che subito feci udendo quel resoconto dipendesse interamente dalla lettura in cui ero immerso. Ero infatti un lettore vorace di queste storie e i loro protagonisti, i supereroi, popolavano quasi costantemente la mia immaginazione.

L'aiuto tempestivo che l'individuo misterioso aveva prestato a una donna indifesa e in pericolo, e l'agilità con cui pareva essere uscito di scena mi fecero pensare a un emulo in carne e ossa dei miei beniamini di carta. Portava una calzamaglia e un cappuccio neri, grazie a cui, nella quasi totale oscurità, della sua sagoma si era intravisto a mala pena il profilo. E una volta tanto non agiva, come i modelli cui si ispirava, sullo sfondo dei grattacieli delle metropoli americane, bensì su quello degli edifici di ben più modesta altezza della nostra città.

 

 

Trascorso un giorno, Superman e l'Uomo Ragno erano tornati a occupare le mie fantasie. Del salvatore della signora Colò mi era rimasto un pallido ricordo e di lui mi sarei forse dimenticato se non fosse accaduto un fatto inaspettato.

Il pomeriggio, uscendo di casa, sentii Giovanni dire a un inquilino che quella stessa mattina, prima di montare in servizio, si era fermato sulla scena dell'aggressione, tentando di ricostruire ciò che poteva essere accaduto a partire dall'apparizione dell'ombra misteriosa. Nel punto in cui era scomparsa, aveva trovato, impigliato nella siepe, un cappuccio nero mezzo strappato.

Chiesi al nostro portinaio, che lo aveva conservato, di mostrarmelo e quando lo vidi rimasi senza fiato. Le fantasie sull'individuo mascherato questa volta si scatenarono quasi incontrollabili.

Appresi poi che, quello stesso giorno, sul quotidiano locale era apparso un trafiletto sulla brutta vicenda capitata alla Colò. Procuratamene una copia, andai alla pagina di cronaca con impazienza, sperando di trovarvi elementi di cui non ero a conoscenza. Anna Colò aggredita sotto casa era il titolo. L'attrice Anna Colò - diceva - è stata fermata l'altro ieri sera da due giovani, mentre rincasava. I due, minacciandola con un coltello, le hanno intimato di consegnare denaro e orologio. Gli aggressori sono però fuggiti a mani vuote, allarmati dall'arrivo di un passante. L'attrice ha affermato che costui, giunto a pochi metri da lei, non si è fatto riconoscere. "La via era assai poco illuminata - ha dichiarato la Colò - ho visto solo un'ombra, che poi si è allontanata rapidamente. Si è comportato in modo molto strano, senza darmi neppure il tempo di ringraziarlo ".

Il giornale non riportava niente che già non sapessi, ma provai comunque una forte emozione. Avevo ancora nitida davanti a me l'immagine del cappuccio strappato, che agiva nella mia testa come un assillante punto interrogativo. Mi chiedevo che cosa avesse spinto l'uomo mascherato a disfarsene. Un'idea che mi balenò a riguardo, e che subito scacciai, fu che lo avesse ridotto in quelle condizioni di proposito, avendo deciso di abbandonare la sua brevissima attività.

 

 

Tre giorni dopo era domenica. Il signor Biava, abitante al sesto piano dello stabile, guardando dalla finestra del suo appartamento che dava sull'ultimo tratto di una via traversa, ebbe la sgradevole sorpresa di vedere due tizi armeggiare con la portiera della sua auto. Questa era accostata al marciapiede più vicino. Sotto il sole cocente del primo pomeriggio, non c'era nessuno in giro a parte quei due.

Spalancata immediatamente la finestra, il Biava si mise a urlare all'indirizzo dei ladri. Dall'alto della sua postazione, assistette dopo pochi istanti a una scena curiosa, che al momento non si seppe spiegare e che non poteva certamente essere l'effetto delle sue grida. Un ladro si portò una mano alla gamba, disinteressandosi completamente dell'auto. Subito dopo, l'altro fece lo stesso. I due poi, dal marciapiede dov'erano, girarono precipitosamente intorno alla vettura, l'uno claudicante, fino a raggiungere in strada l'opposta fiancata. Quindi si abbassarono, rimanendo seminascosti e facendo capolino di là dei vetri per guardare verso il nostro stabile. Il Biava temette che non avessero abbandonato il loro proposito, ma dopo alcuni istanti fu sollevato nel vedere che finalmente si allontanavano, lanciando imprecazioni mentre indicavano un punto imprecisabile del nostro condominio.

Sceso da basso e preoccupato unicamente di verificare le condizioni della vettura, il Biava non notò ciò che non sarebbe invece sfuggito all'occhio allenato di un investigatore, oppure a quello del nostro insostituibile ed efficientissimo portinaio. Questi infatti l'indomani, saputo dall'inquilino dell'accaduto, si recò sul luogo del tentato furto, spinto magari dalla curiosità o da una considerazione a dir poco assai estesa dei suoi doveri professionali, che potevano averlo indotto a interessarsi anche al caso dell'anziana attrice.

Con notevole spirito di osservazione vide dei pallini gialli disseminati intorno all'auto, che non era stata ancora spostata dal giorno precedente. Dopo averli raccolti, li mostrò al Biava, delucidandolo sulle loro caratteristiche: era stato guardia giurata per alcuni anni e doveva avere dimestichezza con le armi. Erano di gomma dura e venivano usati per le pistole giocattolo ad aria compressa. Quando colpivano, facevano male e potevano lasciare un livido.

Tanto interesse per quei proiettili si spiegava con l'idea, di cui Giovanni non era però sicuro, che non si fossero trovati lì per caso, ma perché qualcuno, dal nostro edificio, aveva sventato il furto con la suddetta arma. Lo stabile era separato dalla via in questione da una stretta striscia di giardino e il presunto tiratore, che non aveva voluto evidentemente fare pubblicità al suo gesto, poteva essersi appostato a una delle finestre a distanza di tiro, forse appartenenti agli appartamenti ai piani bassi da cui era più agevole colpire il bersaglio. Gli altri edifici sullo stesso lato erano troppo distanti per quel tipo di pistola ed era da escludere che i proiettili fossero partiti dal lato opposto, dove c'era una scuola, chiusa in quel periodo. Stando alla sorprendente e suggestiva ipotesi di Giovanni, d'altra parte, non avevano i ladri, colpiti alle gambe, cercato riparo dietro alla vettura lasciandosi esposti proprio da quel lato? Secondo questa ricostruzione, avevano alla fine desistito, scornati, manifestando rabbia contro chi aveva messo loro il bastone tra le ruote.

Quando anch'io venni a conoscenza della congettura del portinaio, rimasi sconvolto. Volli vedere in quei proiettili il sigillo della nuova impresa dell'uomo mascherato. Mi domandai se i ladri lo avessero scorto puntare l'arma contro di loro o se si fossero sentiti bersaglio di un cecchino invisibile. Le mie speranze sull'esistenza di un eroe in calzamaglia che agiva in città non solo trovavano ora nuovi e insperati appigli nella realtà, ma potevano anche spingersi a rappresentare il suo alter ego come uno degli abitanti del condominio.

 

 

Avevo riaperto i libri di matematica, ma studiare era difficile. Le giornate si fecero più calde e inoltre, come in preda a un'ossessione, continuavo a pensare all'uomo mascherato. Mi elettrizzava l'idea che potesse essere uno degli inquilini, trattarsi magari di una persona che solitamente incontravo o salutavo. Sperando che vivesse nel mio edificio, decisi di scoprire chi fosse.

Non potei coinvolgere nella mia iniziativa gli amici dello stabile, essendo partiti tutti per le vacanze. Iniziai col fare un elenco di quanti abitavano negli appartamenti da cui potevano essere partiti i colpi, includendovi le loro età, abitudini e caratteristiche fisiche. Non vivendo nell'ala dell'edificio che comprendeva tali appartamenti, contavo sulla collaborazione di Giovanni per acquisire nel più breve tempo almeno una parte delle informazioni necessarie. Non sapevo ancora quale sarebbe stato il mio successivo passo, ma su di un punto non avevo dubbi: non avrei rivelato ad alcuno e per nessuna ragione l'identità dell'individuo in costume.

Trovai inaspettatamente un alleato in Francesco, un coetaneo che stava proprio nell'ala in questione. Prima di questa complicata storia ci salutavamo appena. Benché non gli avessi mai parlato, non mi era simpatico. Alto e magro, aveva il viso affilato e ossuto, con i capelli neri e ricci.

Lo incontrai un pomeriggio fuori dalla gelateria vicino a casa. Ci trovammo casualmente uno di fianco all'altro, in mezzo all'allegro gruppo di persone che sostava davanti all'ingresso del negozio. Da parte mia ci fu il solito distaccato saluto. Quindi, con mia grande sorpresa, mi chiese cosa pensassi del tiratore misterioso.

Dissi che per me era lo stesso che aveva soccorso la signora Colò, sorprendendomi questa volta per la franchezza e la prontezza della risposta. Il fatto che anche lui lo credesse fu un invito a continuare la conversazione intorno all'ineffabile personaggio. Scoprii così che su di lui avevamo fantasie comuni. I due strani episodi capitati davanti al nostro edificio e il ritrovamento del cappuccio, di cui pure era al corrente, ci avevano messi in fibrillazione.

Tornammo a casa insieme e lungo la strada, deserta e silenziosa, parlammo con fervore di supereroi, di cui Francesco si rivelò un profondo conoscitore. La sua camera era tappezzata con i loro manifesti. Batman era il suo preferito, per le atmosfere cupe delle sue storie e perché, nella lotta contro i criminali, non poteva fare affidamento su speciali poteri, ma solo sulla sua forza e sul coraggio. lo invece, per ragioni opposte alle sue, ero un cultore di Superman, l'alieno invulnerabile e dotato di una forza eccezionale. Dovetti ricredermi su Francesco, perché lo trovai simpatico. Ispirandomi inoltre fiducia, decisi di metterlo al corrente dei miei piani. Avevamo fatto tappa alla fontanella vicino casa e ricordo la sua reazione entusiasta. Mi disse che gli sarebbe piaciuto aiutarmi e che era anche pronto a condividere con me il segreto che avessimo scoperto.

Giunti ormai nel giardino condominiale, ci salutammo. Dandoci appuntamento per l'indomani, provai l'inebriante sensazione che, unite le nostre forze, l'identità dell'uomo mascherato non ci sarebbe rimasta sconosciuta ancora per molto. Percorrendo il viottolo che conduceva alla mia abitazione, ebbi l'impressione di essere osservato: per la prima volta sentii gli occhi dell'individuo in calzamaglia puntati su di me.

 

 

Qualcuno stava bussando alla porta. Non lo faceva in modo discreto, ma dando insistentemente forti colpi. Mentre stavo andando ad aprire, alla curiosità si sostituiva l'apprensione.

Me lo trovai davanti, con la sua calzamaglia nera e una maschera rigida dello stesso colore, dall'espressione indefinibile. Lo guardai con sorpresa, poi, nonostante la paura che inaspettatamente provavo di fronte a lui, rimasto immobile, mi avvicinai per scoprirgli il volto. Gli tolsi finalmente la maschera, ma con mio enorme stupore sotto ne portava un'altra uguale. Levai anche quella, ma di nuovo, come in un gioco di scatole cinesi, una terza maschera identica alle altre mi impediva di vederlo in faccia. Fino a quest'ultima frustrante scoperta aveva continuato a lasciarmi fare, come se volesse farsi beffe di me.

Poi esplose in una risata spaventosa, che la fissità d'espressione della maschera rendeva ancora più inquietante. Indietreggiò di alcuni passi e, dopo aver fatto un gesto come di sfida, iniziò a correre lungo il corridoio. Fu la rabbia per il suo comportamento, che aveva preso il posto della paura, che mi spinse a inseguirlo.

L'uomo in calzamaglia era velocissimo e faticavo a stargli dietro. Il lungo corridoio che conduceva agli appartamenti finì e intravidi la nera sagoma salire quasi volando le scale di servizio. Improvvisamente, mentre stavo anch'io percorrendo con fatica la rampa, il trillo intermittente della sveglia interruppe con mio grande sollievo quel disperato inseguimento, per ricordarmi l'appuntamento della mattinata. La prima ripetizione di matematica mi aspettava.

 

 

Qualche giorno dopo ferragosto, sembrò che i miei desideri stessero per avverarsi. L'uomo mascherato infatti uscì allo scoperto. Lo fece tramite un biglietto che Giovanni trovò affisso alla vetrata della portineria e che mostrò divertito agli inquilini. In carattere stampatello, un sedicente giustiziere mascherato diceva che sarebbe apparso la sera dell'indomani, alle sette in punto, nel giardino interno del palazzo e rivendicava le azioni che avevano sventato il furto dell'auto e messo in fuga gli aggressori della Colò.

Più tardi, l'eccitazione suscitata da quell'annuncio si attenuò e dentro di me iniziò a serpeggiare l'inquietudine. Non sapendo a cosa attribuirla, mi risultava ancora più insopportabile. Capivo solo che non era tanto legata all'eventualità che un imprevisto costringesse il giustiziere a rimandare o a rivedere i suoi piani. Probabilmente avvertivo che lo stile di quel biglietto rappresentava una stonatura nel modo d'agire che lo aveva contraddistinto fin lì e questa sensazione produceva il timore di uno scarto tra la sua reale apparizione e l'idea che di lui mi ero fatto.

Cominciai a contare le ore che mi separavano dall'annunciato evento. Mi dispiaceva che Francesco non ci sarebbe stato. Era infatti partito il giorno prima per una breve vacanza al mare, senza lasciarmi un recapito telefonico. Non sapeva neppure del biglietto. Vedevo già la sua espressione incredula quando glielo avessi raccontato. Grazie al suo prezioso aiuto, l'elenco degli inquilini della sua ala era stato completato e da esso avevamo già cancellato i nomi di chi era via per le vacanze: non lo avevamo fatto in base a un ragionamento, ma perché sentivamo che colui che cercavamo non aveva partecipato all'esodo estivo. Ora, il messaggio del giustiziere sembrava confermare che eravamo sulla strada giusta.

Sul finire del pomeriggio, in cui mi fu ovviamente impossibile studiare, scesi in giardino dove avrebbe avuto luogo quella sorta di epifania. Mi guardai intorno, cercando di immaginare la scena tanto attesa. Dove sarebbe comparso il giustiziere? Sul tetto? Su un balcone, scendendo poi acrobaticamente a terra appeso a una corda?

Stetti a fantasticare fino all'imbrunire. Nelle case si stavano accendendo le prime luci e dalle finestre aperte per la calura giungevano le note di un programma televisivo. Stavo per andarmene, quando intravidi una sagoma scura sporgersi da una finestra delle scale al secondo piano. Giusto il tempo di provare un tuffo al cuore e si era già ritratta.

Corsi verso la porta che dava accesso alle scale. La aprii senza fare rumore e tesi le orecchie. Speravo che la sagoma non mi avesse visto e di udire un segnale della sua presenza. Ciò che sentivo però era solo il rimbombo dei miei battiti e le voci indistinte che provenivano da qualche appartamento vicino. Cominciai quindi a salire silenziosamente i gradini, rasentando la parete.

Le scale erano nella semioscurità, perché la luce era spenta e quella naturale che entrava dalle finestre era ormai scarsa. Arrivato fino al terzo piano, pensai di averne perso le tracce. Poi, un rumore di passi rapidi sopra di me mi fece trasalire. Dovevo essergli davvero poco distante, da tanto sembravano vicini. Accesi allora la luce e gli corsi dietro, come nel sogno. Durante questo affannoso inseguimento, la corrispondenza con quello sognato mi sembrò a tratti così puntuale da restare disorientato. Ci fu poi il tonfo di una porta sbattuta, seguito da quello di passi che si allontanavano. Ancora una volta il giustiziere era stato più abile e veloce. Mi consolava tuttavia la certezza, a quel punto, che lo avrei rivisto molto presto.

 

 

Il pomeriggio dell'atteso giorno, pedalavo velocemente di ritorno dalla lezione di matematica, sotto un cielo grigio in cui si stavano addensando nuvoloni neri e minacciosi. Era previsto un temporale, il primo dopo un periodo di caldo afoso. Speravo che terminasse in tempo per consentire al giustiziere di attuare i suoi progetti.

Mi domandavo se, come sembrava, sarei stato proprio l'unico presente alla sua apparizione. Gli altri residenti, infatti, alla lettura del suo biglietto avevano scosso la testa, ritenendolo probabilmente l'opera di un buontempone. Forse se ne erano già dimenticati. Come avrebbe reagito il giustiziere al loro scetticismo?

Arrivato a casa, mi piazzai alla finestra in attesa della pioggia che pareva ormai imminente. Assistendo ai suoi violenti scrosci, tenevo costantemente d'occhio l'orologio.

Quando terminarono, mancava ormai poco alle sette. Corsi in giardino dove si sentiva l'odore forte di erba bagnata. Come pensavo, non c'era nessuno. Guardai subito verso il punto in cui, la sera precedente, avevo scorto l'ombra furtiva. La finestra però era chiusa. Nei minuti di spasmodica attesa che seguirono, alcuni inquilini si affacciarono ai balconi. Mi chiesi se volessero vedere il giustiziere o respirare l'aria finalmente rinfrescata dal temporale. In ogni modo, dato che erano ormai le sette, ci sarebbero stati altri spettatori oltre a me.

Non sapendo con certezza dove sarebbe apparso, continuavo a guardarmi intorno scrutando le alte e grigie pareti del palazzo, scurite dalla pioggia. Mentre davo le spalle alla finestra delle scale, sentii un grido stridulo. In quel momento, senza ancora vederlo, seppi, in un modo che non saprei spiegare, che il giustiziere era comparso, puntuale come aveva promesso. Mi girai in direzione della finestra che era ora spalancata e lo trovai là, con la sua calzamaglia nera, le mani guantate e il volto coperto da un passamontagna, nero anch'esso. Stava immobile e con le braccia conserte, come se attendesse che gli si prestasse la dovuta attenzione.

Quel grido dovette essere partito da uno degli spettatori e fu difficile capire se fosse stato di stupore o di spavento. Ne seguì a breve distanza un secondo, poi un terzo, provocati anch'essi da quella insolita visione. C'era inoltre chi chiamava a gran voce i famigliari rimasti in casa, perché si affacciassero pure loro a vedere quel tipo impietrito così stranamente vestito.

"Chi è?", "Cosa vuoi fare?" erano i commenti che si rincorrevano.

"Oddio, non vorrà mica buttarsi di sotto?", urlò qualcuno.

"Ma non sarà quello del biglietto?", si chiese qualcun altro.

Intanto, altri inquilini si erano messi a guardare fuori, richiamati dal forte vociare e dalle grida. In poco tempo, la nera figura che se ne stava sempre impalata aveva catturato l'attenzione generale. E solo quando gli occhi dei presenti furono su di lui, sporse le braccia tenendole tese, come in un gesto di saluto o per chiedere di fare silenzio.

Lo guardai con il cuore in gola mettersi a cavalcioni del davanzale.

"Noo, non farlo!", avevano immediatamente urlato, temendo che si fosse deciso ad attuare l'insano proposito. Poi, vedendo che in vita si era legata una fune, la cui estremità doveva aver fissata al corrimano delle scale, i presenti seguirono le sue acrobazie ammutoliti.

Reggendosi alla fune, cominciò a calarsi lentamente, con movimenti goffi e incerti.

Sceso di un paio di metri fin quasi all'altezza della finestra del primo piano, fu in seria difficoltà. Prese infatti ad agitare le gambe, come se cercasse disperatamente una sporgenza cui sostenersi. L'unica più vicina era il davanzale, che tuttavia era ormai irraggiungibile per lui, che non solo non aveva il potere di camminare sui muri come l'Uomo Ragno, ma pareva anche sprovvisto della forza e dell'agilità necessarie per scendere lungo la fune.

Il triste spettacolo cui mi toccò assistere non era purtroppo finito. Infatti, dopo pochi istanti dall'ultimo maldestro tentativo di trovare un appoggio, lo vidi piombare sulla terra fradicia, tra lo spavento di tutti. Cadde insieme alla fune, evidentemente male annodata, cui si teneva ancora stretto.

Il volo fu fortunatamente molto breve. Ero l'unico che poteva accorrere per sincerarsi subito del suo stato, ma rimasi dov'ero, paralizzato. Il giustiziere si rialzò lentamente, tastandosi il corpo. Vidi poi la sua sagoma nera e zoppicante sparire dietro la porta delle scale.

 

 

Quell'indecoroso spettacolo segnò la sua definitiva uscita di scena. L'esibizione era stata così deludente e in contrasto con le presunte precedenti imprese che, sconcertato, mi rifiutai di ricondurla al loro stesso autore. Mi aggrappavo adesso all'idea di avere assistito all'improvvisazione di un impostore, che nel biglietto si era spacciato per l'uomo mascherato attribuendosi i suoi meriti. Non volevo riconoscere che era assai improbabile. Infatti, perché qualcuno avrebbe dovuto esporsi in questo modo al ridicolo? Arrivai inutilmente a sperare che l'autentico uomo mascherato si facesse vivo al più presto, per difendere il suo onore e ristabilire la verità.

Nel palazzo si fece un gran parlare dell'episodio. I residenti si chiedevano divertiti chi potesse essere lo strambo tipo che si era calato dalla finestra. Quando mi capitava di sentire che ne discorrevano, mi tappavo le orecchie o me ne allontanavo rapidamente, infastidito. Volevo dimenticare tutta quella storia, ma era inevitabile che il suo ricordo mi perseguitasse.

In occasione dei forti temporali agostani che spazzarono via l'estate, l'immagine di quell'individuo mentre scendeva in modo impacciato tenendosi alla fune mi si ripresentò puntualmente davanti agli occhi. Anche il giardino la evocò tristemente, insieme, per contrasto, all'attesa fremente che aveva preceduto il momento sognato. Ogni volta che lo attraversavo, acceleravo il passo evitando di guardare in su, verso le pareti della casa o la finestra incriminata.

Lo strano comportamento di Francesco, poi, contribuiva ad acuire la mia amarezza. Da quando era tornato dalla vacanza, infatti, sembrava un'altra persona. Lo misi al corrente di tutto quanto era successo dalla sua partenza, ma mi parve che non mi stesse neanche a sentire. Era assente e nulla ottenevano gli inviti a confidarmi ciò che sembrava farlo soffrire. A volte, risvegliandosi dal torpore in cui era quasi costantemente immerso quando era con me, reagiva a essi in modo indispettito. In seguito, nonostante avessi smesso di chiedergli la ragione del suo turbamento, sperando che fosse lui prima o poi a dirmela, la sua insofferenza andò via via aumentando. Fino al punto di evitarmi, adducendo spesso scuse che non cercava neppure di rendere plausibili. La nostra complicità era ormai un lontano ricordo. A malincuore decisi quindi che per un po' non l'avrei cercato.

 

 

L'esame di matematica si avvicinava. Nelle giornate di settembre mi diedi a uno studio intenso, a volte rabbioso. Lo facevo, scoprendo dentro di me energie insospettabili, non solo perché la mia preparazione era approssimativa, ma anche per cercare di arginare lo sfiancante rimuginare intorno agli ultimi deludenti avvenimenti. Questo caparbio impegno servì forse a qualcosa, perché l'esame lo superai, nonostante le prove non brillanti. Non ero riuscito a completare quella scritta e durante l'interrogazione, che pensavo essere a quel punto determinante, ero attanagliato dalla paura. Tuttavia, facendo appello a tutte le mie residue forze per allentare questa morsa, colsi l'occasione che mi si presentò quando mi fu chiesto di enunciare il teorema di Pitagora.

In una delle ultime ripetizioni, ne avevo compreso finalmente la dimostrazione, che nel corso dell'anno scolastico era stata per me ostica. Ero arrivato persino a incollare un cartoncino sulla pagina di testo che la riportava, perché non sopportavo più il fastidio e il senso di impotenza che sistematicamente provavo alla sua sola vista.

Alla provvidenziale domanda sul famoso teorema, risposi senza limitarmi a enunciarlo ma, benché non mi fosse stato richiesto, lo dimostrai pure. Fu una mossa felice, un lampo di luce in una prova fin lì opaca. Fece una buona impressione sull'esaminatore e credo abbia pesato sul giudizio finale.

Il nuovo anno scolastico era da poco iniziato, quando ricevetti una telefonata di Francesco. Non l'avevo più visto né sentito dalla fine di agosto. Mi disse che doveva parlarmi, proponendomi di andare a casa sua l'indomani. Non sembrava disposto per il momento ad aggiungere altro e io non feci domande.

Fui contento di rivederlo sorridere. Mentre preparava due tazze di cioccolata, mi parlò disinvoltamente della scuola e delle nuove materie. Quello che di importante aveva da dirmi lo avrei però sentito tra le pareti della sua stanza, dove ero già stato con lui per scoprire l'identità dell'individuo in costume. Erano trascorsi da allora solo due mesi, ma a me parevano un'eternità.

Con mia grande sorpresa aveva staccato tutti i manifesti, compreso quello che piaceva di più a entrambi. Raffigurava Batman avvolto nel mantello, sul tetto di un alto edificio, nell'atto di vegliare di notte sulla città che, sotto di lui, era sfavillante di luci. I muri della stanza erano tristemente spogli e il loro bel colore blu intenso, in precedenza occultato da schiere di supereroi, non attenuava la desolazione che ci vedevo. Dalla scomparsa dei manifesti, di cui Francesco andava orgoglioso, ebbi l'ulteriore conferma, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, della gravità di ciò che gli era accaduto. Mi predisposi quindi ad ascoltare qualcosa di terribile, sapendo però che, a quanto pareva, se lo era lasciato alle spalle. Quello che di lì a poco avrei udito era tuttavia al di là della mia immaginazione.

Ci sedemmo alla sua scrivania, uno di fronte all'altro, con le cioccolate ancora fumanti in mezzo. Francesco stette in silenzio per un po', con la testa bassa, come a cercare le parole. La disinvoltura di poc'anzi era sparita. Quindi cominciò a raccontare la sua incredibile storia.

Mi disse con un filo di voce che era iniziato tutto per gioco, alzando poi la testa senza però guardarmi negli occhi, aggiungendo che quanto stava per dirmi sarei stato l'unico a saperlo. Disse che quel costume da supereroe glielo avevano regalato per Carnevale. lo non capivo, non potevo capire.

Gli piaceva così tanto che anche dopo Carnevale si era spesso divertito a indossarlo in casa. Una sera all'inizio di agosto, approfittando dell'ultima luce, se lo era messo dopo tanto tempo che non lo faceva ed era sceso nel giardino interno. Si era levato il cappuccio per il gran caldo, infilandoselo nella cintura del costume. La calzamaglia lo costringeva a un bagno di sudore, ma il desiderio di giocare al supereroe era troppo forte.

Rimase in giardino fino al calare delle prime ombre, poi andò a dissetarsi alla fontanella all'angolo della strada, poco distante dal cancello d'ingresso, dove avevamo sostato la sera del nostro incontro. Sperò che, durante il breve tragitto, qualcuno lo vedesse con indosso il costume di cui era fiero, ma in giro non c'era anima viva. Quando tornò verso casa era ormai buio. Davanti al cancello c'erano delle persone. Pensò che fossero inquilini che stessero rincasando e si mise a correre per entrare insieme a loro. Due, poi, li vide allontanarsi gridando. Solo allora, riconoscendo Anna Colò immobile e impaurita, sospettò che fossero degli aggressori.

Si fermò di colpo, per il terrore, se fosse ulteriormente avanzato verso la luce del cancello, che quei tizi, le cui sagome non erano ancora sufficientemente lontane, potessero voltarsi e tornare indietro accorgendosi che era solo un ragazzino. Per alcuni lunghi istanti non si mosse. Sperò, restando in quel tratto quasi buio di marciapiede, di essere nascosto alla loro vista. Quindi, preoccupato unicamente di andarsene al più presto da lì, scavalcò la lunga siepe che ne protesse poi la fuga.

 

 

La mia prima reazione a quelle parole fu di sorpresa e irritazione. Pensando che volesse prendermi in giro, non accettavo che lo facesse su un argomento così tristemente evocativo. Inoltre, mi sembrava che il suo scherzo fosse talmente ben preparato da rivelare non solo cattivo gusto, ma il proposito inspiegabile e cinico di ferirmi.

Pensai allora di andarmene da quella stanza, ma Francesco, capendo il mio stato d'animo, mi mise le mani sulle spalle per trattenermi e mi disse, continuando in quella che mi pareva un'assurda finzione, che gli spiaceva di avermi tenuto all'oscuro. Poi, quasi mi implorò di ascoltarlo fino in fondo, prima di trarre conclusioni affrettate e di giudicarlo troppo severamente. Forse il tono sofferto della sua voce o la tristezza che gli lessi negli occhi mi indussero a rimanere e a farmi tormentare dalla sua storia.

Disse di essersi accorto di avere perso il cappuccio una volta a casa, ma che non gli era importato. Nella sua camera infatti, passata la paura, si vergognò del suo comportamento. Aveva, è vero, messo in fuga i due aggressori, ma del tutto involontariamente. Non sopportava di essere stato un fifone e, per colmo d'ironia, con indosso il costume da supereroe. Pensò addirittura di disfarsene.

E probabilmente lo avrebbe fatto se, due giorni dopo, non avesse letto l'articolo sull'ignoto salvatore di Anna Colò. Francesco disse di avere vissuto, leggendolo, una sensazione esaltante. Era finito sul giornale per un'azione meritoria e il fatto che non si sapesse che il misterioso individuo fosse lui lo eccitava. La circostanza che nell'episodio salito agli onori della cronaca avesse indosso il suo costume, pur se a capo scoperto, fu determinante nel produrre quella galvanizzante sensazione. Anche se non era stato il suo alter ego a fare notizia, perché nessuno lo aveva visto, fu per lui come condividere con i suoi amati supereroi la condizione che glieli rendeva tanto affascinanti: nessuno nelle loro storie ne conosceva la vera identità. L'entusiasmo e l'eccitazione che provò dopo la lettura di quel trafiletto fecero passare in secondo piano il fatto che non avesse realmente il merito che gli attribuiva.

Sull'onda di queste intense emozioni decise di non disfarsi del costume e si perdonò per la fifa avuta quella sera. Lo ripose gelosamente dove nessuno lo potesse trovare, dopo avere sostituito il cappuccio smarrito con un passamontagna dello stesso colore.

Qualche giorno dopo, di pomeriggio, Francesco era affacciato alla finestra della sua camera, al primo piano, che guardava sulla via dove era parcheggiata l'auto del Biava. Notò due tipi dal fare sospetto vicini alla vettura, che sapeva appartenere all'inquilino. In un primo tempo, fantasticò di piombare su di loro come un falco, con indosso il suo costume nero e di metterli in fuga. Successivamente, un'idea gli attraversò la mente come un lampo. Andò a prendere la sua pistola ad aria compressa, nascosta in una scatolone di libri all'insaputa dei genitori, che non gli avrebbero permesso di tenerla. Aveva barattato con un amico un discreto numero di soldatini di piombo per averla. Fino ad allora l'aveva sempre usata fuori dallo stabile, per giocare con gli amici al tiro al bersaglio.

Tornato alla finestra con l'intenzione di tenere quei tipi sotto tiro, questi stavano già tentando di aprire la portiera dell'auto. Sapeva per esperienza diretta quanto potessero essere persuasivi quei proiettili e i due erano alla giusta distanza. Se anche avessero capito da dove partivano i colpi e lo avessero visto, sarebbe stato al sicuro in casa sua. Puntò così la pistola, mirando alle gambe. Trovò il coraggio di premere il grilletto e quando li vide andarsene inveendo rabbiosamente, gli parve di toccare il cielo con un dito.

Alla completa realizzazione di ciò che aveva in testa mancava ancora una delicata operazione: la telefonata al giornale locale. Camuffando la voce e cercando di controllare la fortissima emozione per ciò che aveva appena fatto, informò dell'impresa compiuta dal giustiziere mascherato, rivendicando inoltre il merito di avere aiutato Anna Colò. Credette ingenuamente di finire nuovamente sul giornale, dove questa volta il suo alter ego non sarebbe stato ridotto a una specie di fantasma o a un'ombra senza nome, assaporando già il gusto di custodire il segreto della sua doppia vita.

Dovettero però scambiarlo per un burlone. La sua delusione fu enorme, ma non si scoraggiò. Era determinato a far parlare di sé e del giustiziere, che ormai erano la stessa persona.

Francesco arrivò quindi al cruciale capitolo del nostro incontro. Quando ci conoscemmo, aveva appena avuto l'idea di quella messinscena in giardino con la fune. Aveva pensato all'eventualità che in tale circostanza qualcuno dello stabile, vedendo il giustiziere, si ricordasse e sospettasse di lui, nel caso lo avesse visto giocare in giardino la famosa sera. Era tuttavia un rischio minimo che si era sentito di correre. Lo aveva confortato che il ritrovamento del cappuccio nella siepe, pure se non sapeva chi e quanti ne fossero al corrente, non avesse dato adito alle imbarazzanti domande di qualche inquilino. Anche in casa, dove pure aveva spesso indossato il suo costume, non gli avevano chiesto nulla di quel cappuccio strappato.

Approfittò, per attuare il suo piano, della prima occasione che gli si era presentata: la partenza dei genitori. Sapeva che la vecchia zia che sarebbe venuta a stare con lui durante la loro breve assenza gli avrebbe consentito di muoversi abbastanza liberamente.

Per non destare in me sospetti, mi disse che sarebbe partito con loro, in modo che non lo avrei cercato. E in quei pochi giorni, per non incontrarmi e correre rischi, evitò di uscire. Salvo che per affiggere di nascosto il biglietto sulla vetrata della portineria e per fare un sopralluogo sulla scena della sua promessa comparsa. Riconobbe che quella sera, quando lo avevo rincorso su per le scale, per poco non si fece scoprire.

Quest'ultima decisiva ammissione fece crollare in me la speranza, a quel punto, che si stesse inventando tutto. Aggiunse con amarezza che però sarebbe stato meglio se lo avessi smascherato: anche se con quella caduta avrebbe potuto andargli peggio, avrebbe almeno evitato una figura ridicola.

In attesa della sua prima apparizione pubblica, discutere con me dell'uomo in calzamaglia e depistarmi sul suo possibile alter ego gli davano sensazioni elettrizzanti, dato che ero l'unico disposto a credere alla sua esistenza. Calato completamente nella parte del suo personaggio, non si era reso effettivamente conto di quanto fosse crudele quel gioco.

A quel punto, il giustiziere terminò la sua confessione. Sembrava sfinito e si abbandonò completamente sulla sedia. Parve guardare le tazze di cioccolata che non avevamo neppure toccato, ma probabilmente stava fissando il vuoto.

Al difficile rompicapo costituito da questa tormentata vicenda erano stati appena aggiunti gli ultimi e fondamentali pezzi che si erano persi. Osservandone finalmente il disegno per intero, non riuscii a rallegrarmene. Ero confuso e non sapevo cosa dire.

Nutrivo ora nei confronti di Francesco sentimenti contrastanti. Alla precedente irritazione per aver creduto di essere preso in giro da chi ritenevo un amico, si era sostituita una crescente rabbia, in quanto mi chiedevo se quell'amico ci fosse mai stato. Nonostante le sue accorate spiegazioni, mi sentivo ingannato fin dal principio. Come aveva potuto fingere così bene con me?

Eppure, la rabbia non mi impediva di invidiarlo. Avevo anch'io fantasticato di diventare come il giustiziere e mi sembrava che Francesco, prima della grottesca conclusione di quella vicenda, lo fosse stato quasi per davvero, per pochi ma irripetibili giorni.

Uscii dalla stanza senza dire nulla, lasciandolo assorto nei suoi pensieri. lo solo conoscevo il suo segreto, ma la consapevolezza della nuova, profonda complicità che ci legava avrebbe tardato ad affiorare. Al momento venne soffocata dal miscuglio di sentimenti di cui ero preda.