Il prigioniero e il suo piantone

Marcello Lombardi

  12-11-2005
 

“Di respirare la stessa aria
di un secondino non mi va
perciò ho deciso di rinunciare
alla mia ora di libertà

se c’è qualcosa da spartire
tra un prigioniero e il suo piantone
che non sia l’aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione

 

Il tempo in carcere è fatto di anni, mesi e ricordi di dolore, lacerazioni, fantasmi.

Il prigioniero della canzone non trova vitalità per rinascere, per tornare ad amare e vieta a se stesso l’aria del cortile: costringendosi in cella, costringe il piantone ad osservarlo dietro le sbarre e, in un certo senso, lo inchioda all’ingrato compito di vigilare.

In questo modo il prigioniero ripropone il rapporto coi suoi fantasmi: è stato vittima, può finalmente essere carnefice, ha l’illusione di ripetere sugli altri quanto da altri subito nel suo passato. Il prigioniero, nell’offendere il piantone, cerca di affermare la sua supremazia e la sua indipendenza da chi lo detiene; cerca di farsi finalmente protagonista attivo di un rapporto di violenza.

Mi chiedo però se la crescita individuale - che è, in fondo, la meta di ogni uomo – possa essere coltivata nel rifiuto del rapporto umano, sia pure quello tra un prigioniero e il suo guardiano.

 

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