Illusione di libertà

 

Elena Ferrari

"C'era una volta, in un paese lontano lontano, una principessa che passeggiava tranquilla per le strade della sua città, quando all'improvviso un "pirata della strada" la investe con il suo cavallo bianco ferendola gravemente; il giovane non l'aiuta, ma scappa con il suo destriero. Lei muore poco dopo l'arrivo dei soccorsi."

Questa è una delle tante fiabe per adulti contenute in quelle raccolte chiamate quotidiani, che tutti al mattino sfogliano in cerca di qualcosa che rompa la monotonia del metrò, mentre, ancora assonnati, si recano al lavoro.

Per fortuna queste fiabe un po' macabre, bisogna ammetterlo, si svolgono in una dimensione senza spazio e senza tempo, così lontana dalla nostra realtà da riuscire a malapena a destare in noi un filo di interesse, disgusto o rassegnazione a seconda dei casi.

E mentre sei lì, immerso completamente nelle disgrazie altrui, così tanto da riuscire quasi a dimenticare le tue, capita che un signore dall'aria impeccabile si sieda vicino a te; è uno di quelli che attacca bottone con tutti, che alla fine della giornata ha totalizzato un numero sorprendente di conversazioni; e ora pretende di farti alzare gli occhi dal tuo giornale, di ributtarti così tragicamente nel grigiore della metropolitana. All'inizio ostenti indifferenza, ma lui non si arrende e continua a cercare in te un valido interlocutore; inizia a parlare proprio di quel "pirata della strada", e lo chiama assassino, dice che come lui ce ne sono tanti, che forse siamo tutti un po' come lui. Dice anche che vale la pena di riflettere e cercare di capire sia la vittima che il suo aggressore. Per fortuna, lo straniero scende alla fermata successiva, ma ormai è tardi per ritrovare ospitalità nel nostro giornale, quest'uomo ci ha buttato in faccia la realtà della carta stampata in modo così brutale da farle acquisire consistenza e tridimensionalità.

Cosa voleva da noi? Mi sembra di ricordare che avesse detto di riflettere…va bene, se è proprio necessario chiudiamo a fatica il giornale.
Potremmo cominciare col chiederci chi sono questi criminali che riempiono le pagine dei quotidiani.
Una delle molte risposte possibili a questa domanda è che sono persone come tante, forse un po' più arrabbiate e un po' meno capaci di elaborare razionalmente la loro rabbia.
Il criminale è "l'uomo che non c'era", quello che prima del suo crimine non esisteva per nessuno. Ora invece ha un'identità: è un assassino, uno stupratore, un pedofilo, un terrorista, un ladro. Ora è qualcuno per la società, ma anche per se stesso, ora quando lo incontriamo sappiamo come chiamarlo e cosa provare nei suoi confronti.

Questo mi porta a pensare che alla base del reato ci sia una forte richiesta di libertà, che si concretizza paradossalmente nella sua negazione.

Il deviante avverte la limitazione che deriva dalla ristrettezza del suo spazio personale. Questo spazio è quello attraverso cui guardiamo la realtà e che ci permette di interpretarla. Esso è il risultato di una somma di risorse personali e ambientali, utili per agire sulla realtà. Ed è attraverso questo che noi guardiamo al nostro presente e soprattutto al nostro futuro.

Penso che la sensazione di essere costretti in uno spazio troppo angusto, incatenati a codici espressivi limitati e limitanti, caratterizzi ogni uomo. La diversità consiste negli strumenti che ciascuno ha a sua disposizione per elaborare questa tensione; tensione che in sé è assolutamente positiva, in quanto genera cambiamento personale e sociale.

L'inclinazione ad avvertire dei limiti e a cercare di superarli è, quindi, ciò che caratterizza l'essere umano, che è alla continua ricerca di qualcosa che avverte come mancante, e chiama questo qualcosa in molti modi: giustizia, Dio, denaro, felicità, progresso. A me piace chiamarlo libertà e mi piace pensare che sia quest'illusione di libertà a guidare le nostre scelte, come anche quelle del criminale.

In questa prospettiva, quindi, l'uomo è proteso al superamento dei confini del suo spazio e contemporaneamente schiacciato, spaventato da quello che può trovare al di fuori. Una condizione che costringe l'essere umano a predisporre una serie di meccanismi di difesa, che lo proteggano prima di tutto da se stesso.

La trasgressione può essere uno di questi meccanismi.
In realtà il concetto di trasgressione racchiude in sé talmente tanti significati, che rischia quasi di non averne.
Il tasgressore è l'artista o lo scienziato, che osa scontrarsi col limite dell'incomunicabilità per costruire nuovi codici, è l'uomo comune che ogni giorno trasgedisce a quell'immagine di sé, che tanto aveva faticato a crearsi la mattina davanti allo specchio; ma trasgressore è anche il deviante, colui che non ha né le conoscenze degli artisti e degli scienziati, né gli affetti dell'uomo comune. È questa mancanza di strumenti che lo induce a distruggere, e non a ricostruire, che limita la sua libertà in quanto non gli consente di ridefinire i confini del suo spazio.

Il criminale è, dunque, in potenza un artista, ma è l'assenza di capacità di mentalizzare che lo differenzia da questo; l'uno amplia la libertà altrui e la propria, l'altro le logora; l'uno trasforma, l'altro distrugge; l'uno pensa, l'altro agisce.
Ed agisce perché non ha gli strumenti per pensare; tocca poi alla società leggere ed interpretare quei delitti apparentemente inspiegabili.

I codici, quindi, sono in un caso premessa di libertà e progresso, nell'altro una gabbia, che metaforicamente racchiude il reo molto tempo prima della galera.
Ecco dunque che per il criminale le leggi diventano esclusivamente lo strumento repressivo di un'autorità ingiusta ed arbitraria, mentre lui è vittima di questo sistema, che gli toglie prima la libertà di pensare, privandolo degli strumenti che ha concesso invece agli artisti, e poi di quella di agire, rinchiudendolo in una cella.

A questo punto è indispensabile porci davanti al delitto, a qualunque tipo di delitto, con uno spirito nuovo: esso non è una parentesi aperta da un pazzo in una struttura sociale sana, ma nasce dal contesto e all'interno di questo si sviluppa, fino a giungere a sfidarlo attraverso un atto estremo che nega i principi stessi che sono alla base della struttura sociale. Il criminale è un prodotto della società e il suo delitto è una domanda che esige risposte precise.
Ed è attraverso l'elaborazione di queste risposte che la società ha la possibilità di riscattare un uomo che prima di essere aggressore è stato vittima; vittima di un sistema che non gli ha garantito lo spazio necessario per esprimere in altro modo la sua domanda.
Se interpretiamo il reato come una richiesta non articolata di libertà (intendendo con questo termine la ricerca di uno spazio personale più ampio) il carcere diventa la risposta più paradossale che possiamo dare. È come se la mamma rispondesse al bambino che butta per terra il ciuccio, calpestandoglielo.

In fondo credo che il carcere sia fatto più per le persone che ne sono fuori: ci fa sentire liberi in quanto negazione di libertà. Guardiamo loro lì dentro e ci diciamo soddisfatti "noi sì che siamo liberi!". E non è forse questa la più grande illusione di libertà?

Da tutto questo risulta che il criminale non è poi così diverso da noi. Forse è per questo motivo che sentiamo la necessità di allontanarlo e isolarlo; abbiamo paura di un confronto con i delinquenti perché prima dovremmo ammettere che sono persone. E anche questo ci costa fatica; è sempre meglio credere che il genere umano sia fatto solo da quelle persone che ogni mattina prendono il metrò con noi per andare al lavoro alla nostra stessa ora e che, quando trasgrediscono, stanno sempre attenti a farlo nei limiti della legalità.

I quotidiani raccontano fiabe, i bambini in Africa non muoiono di fame e l'unica verità è quella dei talk-show televisivi: in fondo ognuno ha le sue prigioni, siano esse i vagoni della metropolitana o sbarre di acciaio.
Possiamo continuare a credere che i criminali siano mostri da cui ci può salvare solo l'indifferenza, comunque l'unica lotta alla criminalità che possa aver un senso consiste nel riappropriarci di quelle libertà che ci sono state tolte: la libertà di piangere, la libertà di non dover sempre essere forti, la libertà di non dire quello che pensiamo, la libertà di urlare la nostra fragilità.