Il virus delle gioie corte

Francesco Ranieri, Angelo Aparo

22-12-2010

Io non ho mai avuto una guida, forse non l'ho cercata, di certo non ne conservo memoria. Oggi so cosa questo ha comportato: una vita gettata al vento, insulsa, triste, banale nella sua trasgressività. Non ho mai vissuto l'esperienza di lavorare con altri ad un progetto che non fosse dettato dal mio piacere immediato.

Chi, come me, si è lasciato andare a comportamenti incivili e criminali, viene chiuso in un apposito reparto della società, il carcere: un contenitore dove per tempi più o meno lunghi vengono isolate le persone che hanno contratto una malattia per cui ci si sente se stessi solo nell'eccitazione della trasgressione e dell'autoaffermazione, un virus per cui si riesce a godere solo delle cose strappate o, forse, solo dello strappo!

Ma il carcere (dove vengono ammassati gli ammalati gravi; per i casi lievi, in realtà, sarebbero previsti altri modelli di intervento!) è un luogo di cura o è solo un lebbrosario dove la persona viene lasciata alla sua malattia?

La ricerca, in medicina e in molti altri settori, avanza, ma non è stato ancora trovato un vaccino per la prevenzione di questo virus e, per quanto ne so, le terapie per contrastarlo non hanno avuto molti sviluppi. Mi pare, anzi, che sia ancora di grande attualità il famoso trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Ma ciò non rincuora! Com'è possibile che siano ancora citate come utili delle indicazioni scritte un quarto di millennio fa?

Come un malato divenuto consapevole della propria malattia e delle sue conseguenze, faccio di tutto per guarire e cerco di tenermi informato sui progressi della "medicina" in questo settore. Si sa che la volontà di guarire è di grande importanza per combattere efficacemente la malattia, ma si sa anche che, quando la malattia è grave, è difficile che la sola buona volontà dell'ammalato possa bastare; occorrono medicine, programmi d'intervento e competenze mediche. Da ammalato, mi chiedo allora come mai non vengano attivati dei programmi di cura sperimentali, come mai non si provi a elaborare un vaccino, magari utilizzando le esperienze di chi, pur essendo stato colpito dal virus, è riuscito a sopravvivere.

Di certo occorre studiare come il virus riesca a farsi strada in ogni individuo, giacché il virus è multiforme e si manifesta in modi differenti nei diversi soggetti. Oltretutto, utilizzare i malati per mettere a punto il vaccino potrebbe produrre effetti terapeutici sui malati stessi, almeno su quelli la cui malattia aveva causato l'incapacità di dedicarsi a progetti che non fossero quelli di vivere nell'eccitazione solitaria.

E infine, se è vero che in carcere vivono ammalati che hanno contratto un virus, come si può lasciare che queste persone, una volta uscite dal lebbrosario, possano contagiare altri senza aver nemmeno provato a intervenire sulla loro malattia? Com'è possibile che l'intera società si limiti ad attendere che eventi imponderabili possano produrre effetti imprevedibilmente terapeutici?

E se, invece, esistono programmi di intervento, come mai noi ammalati non ne siamo a conoscenza? Dalla malattia di cui parliamo si guarisce solo se l'ammalato è parte attiva dell'equipe terapeutica, solo se c'è una buona collaborazione fra medico e ammalato, ma è questo il clima che si respira in carcere?

Se poi considero che la nostra salute o la nostra malattia incidono non poco sulla sicurezza della collettività, mi chiedo come mai il compito di proteggere i cittadini dal virus di cui siamo portatori venga affidato più al nostro isolamento che a esperti della materia con un riconoscibile e credibile programma in mano.