Adrenalina e virus delle gioie corte

Adriano Sannino

04-05-2011  

Provengo da una famiglia numerosa. Oggi è composta da mia madre, da me e dai miei sei fratelli, tre maschi e tre femmine; mio padre, purtroppo, è venuto a mancare nel 2005 a causa di un infarto. Sono tutti dei gran lavoratori, così come le famiglie da cui i miei genitori provengono. Se dico questo, è per sottolineare quanto sia onesto il contesto familiare in cui sono cresciuto.

Mio padre lavorava come autotrasportatore, mestiere ereditato da suo padre. Era sempre in viaggio per tutta l’Europa e ha sempre fatto mille sacrifici cercando di non farci mai mancare nulla e di assicurarci una vita onesta e dignitosa (praticata da me fino all’età di 21 anni). Sapendo quanto questo mestiere fosse impegnativo e sacrificato, desiderava per me un lavoro diverso e una vita più serena e tranquilla. Per questo motivo fece in modo che imparassi il mestiere di mia zia, proprietaria di un negozio di lampadari. Non senza fatica, riuscì ad aprire un negozio simile, dove ho lavorato fino a prima di trovarmi in questa orrenda situazione.

Quando penso al mio povero papà che ha sacrificato per me la sua vita, mi viene una stretta al cuore. Mi rendo conto di averlo deluso in tutto. La mia unica speranza è di renderlo felice e fiero di me in un’altra vita. Ho sempre pensato di essere un ragazzo sano, in quanto ho sempre lavorato, ma non era affatto così.

Gli anni 1993-1994 furono quelli che segnarono irreversibilmente la mia vita. Nel 1993 mi recai a casa di un mio “amico” per fargli le mie condoglianze per la scomparsa del padre ucciso per questioni di camorra. Da quel momento la mia vita prese la strada sbagliata. Le visite che facevo al mio “amico” erano sempre più frequenti, fino punto di recarmi da lui ogni sera dopo aver chiuso il negozio, trascurando persino la mia ragazza. In quel periodo eravamo vicini a sposarci, avevamo comprato casa, i mobili, bomboniere e perfino impegnato il ristorante dove avremmo dovuto fare la cerimonia. Ma la malattia nel frattempo prendeva piede dentro di me facendomi trascurare tutto il resto.

Le visite che facevo al mio “amico” le facevo fondamentalmente perché si trattava di un mio “amico” d'infanzia, una persona che conoscevo da sempre nel quartiere e al quale cercavo di dare tutto il mio sostegno morale. Ma quasi senza accorgermene, queste visite aprirono in me un varco per il virus delle gioie corte. Conoscevo sempre più gente poco raccomandabile, così entrai nell’ambiente malavitoso e iniziai a compiere i primi crimini per conto suo. Nel frattempo mi lasciai definitivamente con la mia ragazza, mandando in fumo il matrimonio e tanti anni di fidanzamento. E questo fu la mia condanna. La malattia che avevo contratto prese il sopravvento, dandomi scariche di adrenalina ogni volta che commettevo un reato e generando in me una sorta di dipendenza da questo tipo di eccitazione. Mi sentivo il padrone del mondo.

In questi ultimi anni di carcere ho cercato di curare la malattia che stava in me, seguendo scuola, corsi, teatro e sfruttando le opportunità che mi sono state date. Nel 2005, dopo la scomparsa di mio padre, ho chiesto aiuto per farmi curare. Prima mi era stato difficile, ma la sua morte mi ha suscitato un senso di colpa per averlo tradito. Sono stato io ad ucciderlo. Gli ho provocato tanto dolore e umiliazioni da spezzargli letteralmente il cuore con l’infarto che lo ha stroncato.

Dopo la scomparsa di mio padre mi sento molto più responsabile nei confronti della mia famiglia. Al solo pensiero che qualche mio nipotino possa essere colpito dalla stessa malattia mi sento male. Quando faccio i colloqui con i miei cari leggo la purezza che c’è negli occhi dei miei nipotini e mi vergogno perché penso che un domani potrebbero dire di loro zio che era un delinquente. Per loro, ma soprattutto per me stesso, sono cambiato e, grazie ai tanti consigli e al sostegno morale e civico che la mia famiglia mi dà ogni volta che mi viene a trovare, guardo al futuro con occhi sereni e sento che la vita è un bene prezioso da vivere in maniera leale e con onestà, ma soprattutto va rispettata.

Di sicuro non commetterò più gli errori fatti in gioventù, anche se ciò non mi giustifica. Oggi ho un grande rispetto per il prossimo e sono sicuro che il giorno che metterò il piede fuori da questo posto riuscirò a farcela perché ho un grande sostegno familiare alle spalle. Non penso più alla vita di notte e sono anzi sicuro che bella vita e beni materiali sono veicoli del virus delle gioie corte.

A mio avviso per curare questo virus non ci vuole il carcere, specialmente per le persone che devono scontare pochi anni, bensì dottori che possono aiutare il paziente perché vanno alla radice della malattia, anche se questo è possibile solo se è l’ammalato stesso a chiedere di farsi curare, altrimenti non ci sono cure che tengano.

A marzo 2010 sono stato trasferito dalla Casa di Reclusione di Padova a quella di Opera, dove mi trovo attualmente. Per questo trasferimento sono stato sfortunato e fortunato insieme. Sfortunato perché, andando via da Padova ho dovuto abbandonare l’Università e mi è dispiaciuto tanto; allo stesso tempo sono stato anche tanto fortunato perché ho conosciuto Giuliano Rosario con cui fin da subito ho instaurato un bel rapporto di amicizia.

Insieme abbiamo frequentato il corso di programmazione di siti web, condividiamo le attività sportive e il Gruppo della Trasgressione. È inutile dire che Giuliano è una bella persona. Dal primo giorno che ci siamo visti subito mi ha messo a mio agio, trasmettendomi serenità e tranquillità. Con lui ho un bel rapporto di dialogo, parliamo di tutto: attualità, problemi personali, scolastici, eccetera. Avevo già sentito parlare della storia di Rosario, anche se noi due allora non ci conoscevamo di persona. Se oggi mi trovo al Gruppo della Trasgressione lo devo a lui e questo non ha fatto altro che rafforzare in me la scelta fatta dopo la morte di mio padre.