Il suicidio in carcere. Possiamo prevenirlo?

Chiara Daina

13-12-2010  

Il binomio tv e carcere rimanda in automatico a fatti di cronaca deplorevoli. Ma il servizio di Rainews24 girato nella Casa di reclusione di Opera (Milano) e mandato in onda in questi giorni rompe lo schema e fa il salto di qualità. Sotto i riflettori ci sono quattordici detenuti chiamati a riflettere insieme sul tema del suicidio.

I partecipanti sono tutti membri del Gruppo della Trasgressione, un gruppo nato nel 1997 nel carcere di San Vittore e poi in quello di Bollate e di Opera. Esso si compone di detenuti e di comuni cittadini, soprattutto studenti universitari, che insieme si confrontano sulle esperienze di sconfinamento, come la trasgressione, la sfida, l’abuso. Nel 2003 il gruppo ha anche svolto la funzione di peer support nelle celle a rischio di San Vittore.

L’incontro ripreso dalla Rai per la per la prima volta in tv ha messo in comunicazione società e carcere, non senza rivelare “il capitale di conoscenze del detenuto che merita di essere valorizzato e sfruttato”. A farlo presente è il coordinatore del gruppo, il dott. Angelo Aparo. A lui il compito di riassumere gli interventi: “Per i detenuti il suicidio è l’ultimo atto di un percorso in cui via via si riduce la fiducia al proprio domani; è la fuga da una tortura insopportabile; ed è favorito dalla difficoltà di tollerare la viltà del passato”.

Secondo il Dossier di Ristretti orizzonti Morire di carcere, sono sessantuno i detenuti che si sono tolti la vita nel periodo gennaio-novembre 2010. Undici casi in meno di quelli registrati nel 2009 ma sempre quindici casi in più rispetto al 2008. Per giustificare il picco verso l’alto di questi ultimi due anni, il Dossier chiama in causa il sovraffollamento degli istituti penitenziari e il peggioramento delle condizioni di vita dietro le sbarre. Si tratta di due circostanze aggravanti ma non sufficienti perché una persona compia il drammatico gesto. A dirlo è lo stesso Aparo, in qualità di psicologo da più di trent’anni del ministero di grazia e giustizia: “Quando ci si uccide lo si fa per colpire sia un nemico di fronte al quale ci si sente impotenti, sia una parte interna che lo opprime e che gli impedisce di formulare un progetto evolutivo ”.

Ciò significa che la carenza di spazi per cui si soffre non è principalmente fisica ma interiore, come fa capire lo psicologo: “Il rancore riduce lo spazio interno e quindi le spinte creative e la fiducia in sé”. Queste parole invitano a ragionare su un tipo diverso di prevenzione: non quella che ricorre a un'intensificazione del controllo poiché, spiega Aparo, “il controllo è una delle cause del suicidio”. Occorre, piuttosto, “investire su iniziative utili ad alimentare la fiducia nelle proprie potenzialità”.