Zeus caduto dall'Olimpo

Tiziana Pozzetti

28-04-2010  

A volte leggiamo una storia e sembra che questa parli di noi, meglio forse di quanto riusciremmo a fare noi stessi. I miti, in particolare, hanno la capacità di farci sentire “protagonisti” della storia che stiamo ascoltando.

Dopo aver partecipato a un paio di incontri sul mito di Sisifo, mi sono ritrovata a riflettere in particolar modo sulla figura di Zeus. In una delle prime scene viene narrato che Sisifo, in cerca di una fonte d'acqua per la sua città, si imbatte, senza farlo apposta, in una scena molto curiosa. Si tratta di Zeus, il più grande dio dell'Olimpo, in atteggiamenti intimi con una ninfa che il dio ha appena rapito.

Da qui in poi il destino di Sisifo sembra irrimediabilmente segnato da questa scoperta e a me sembra di leggervi un copione già vissuto.

Da bambini, la nostra sopravvivenza è strettamente legata alla protezione che ci viene data dai nostri genitori: protezione contro il mondo, contro i pericoli della vita, contro la solitudine e il vuoto che sperimentiamo ogni qual volta si allontanano da noi, perché è solo attraverso i loro occhi e il posto che ci hanno creato nella loro mente, che noi “sentiamo” si esistere. Cresce insieme a noi la convinzione che i nostri genitori sappiano sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato, sappiano sempre cosa fare e come farci stare meglio quando abbiamo il mal di pancia. Sono speciali perché loro non sbagliano mai… sono perfetti! Mi rivedo piccolina, con gli occhi grandi di una bambina a guardare i miei genitori proprio come se fossero stati degli dei.

Per questo forse la figura di Zeus mi ha fatto pensare a mio padre. Non è incredibile che Zeus, il più grande e potente dio dell'Olimpo, abbia in realtà tanti difetti e tante debolezze? Non sarebbe più giusto che se ne stesse, imbevuto di perfezione, dietro ai cieli lassù sull'Olimpo? Che credibilità può avere un dio che si lascia sedurre dagli stessi peccati e dalle stesse imperfezioni degli uomini più comuni?

Quello che sarebbe dovuto accadere come tappa naturale del mio processo di crescita, cioè l'accettazione dell'imperfezione di mio padre, ha invece generato in me la sensazione di essere stata tradita e una grande rabbia per un dio perfetto caduto dal suo trono. Ma la rabbia  porta con sé la voglia di vendicarsi per essere stati illusi: Se non sei perfetto come ti credevo, chi sei tu per darmi delle regole e dei consigli?

E' qui forse che nasce la voglia di “fregare” nostro padre, proprio come Sisifo ha cercato di fregare Zeus. La voglia di infrangere le regole e di disobbedire agli insegnamenti che ci sono stati impartiti: se non esiste più un'autorità credibile a cui fare riferimento, chi stabilisce quali sono le regole degne di essere rispettate?

E così viviamo nell'ambivalenza: da una parte, il desiderio di ritrovare quel dio perduto di cui sentiamo di avere tanto bisogno; dall'altra, la rabbia contro la sua imperfezione e la voglia di fregarlo come lui ha fregato noi quando lo abbiamo creduto un dio esente da ogni imperfezione.

Resta però il problema che, se riesci a fregare tuo padre, vivrai poi la penosa sensazione di una totale perdita di punti di riferimento. Possiamo allora chiederci cosa fare di fronte a questo odio verso il padre, che di solito si estende anche alle autorità di riferimento; possiamo forse provare a riflettere sul fatto che non ha scelto lui di essere imperfetto, che i suoi errori sono forse stati il frutto di una libertà limitata; può anche essere che l'ampiezza del suo orizzonte non gli permettesse in quel momento di vedere tutte le scelte possibili e le conseguenze che si celavano dietro a tali scelte. Conseguenze che a volte diventano come dei macigni da portare eternamente su e giù dalla montagna e che, a volte inconsapevolmente, scarichiamo sulle spalle delle persone che amiamo, spesso sulle spalle dei nostri figli.

 

Sisifo e Michael, di Moachine Saoud

 

Anche da adulti sperimentiamo continuamente il contatto con una giustizia imperfetta. Ancora una volta ci troviamo a fare i conti con la voglia di evadere una giustizia che riteniamo “poco giusta”, discriminante, indegna. Se le regole non vengono rispettate nemmeno da coloro che le hanno create, perché dovremmo farlo noi? Se le leggi sono per noi degli ostacoli che ci penalizzano impedendoci di raggiungere la nostra felicità, perché dovremmo rispettarle?  Se il sistema che denuncia le nostre imperfezioni è più imperfetto di noi, perché dovremmo dargli retta? Diventa allora un gioco di furbizia: mi sento fregato, ma io sono più furbo e posso fregarti meglio.

Ma anche in questo caso, quando freghi il sistema, quando ti arroghi il diritto di fare ciò che vuoi, arrivi a perdere ogni punto di riferimento e senti che si sono spenti tutti i fari che nella notte potevano indicarti un cammino, per quanto imperfetto e difficile.

Sembra quindi che l'uomo, dagli antichi greci ad oggi, dalla nascita all'età adulta, sia destinato a rimanere sospeso in bilico sul crinale di questa ambivalenza: da una parte, il bisogno fortissimo di avere un dio, una giustizia, delle regole che indichino la strada illuminando il cammino; dall'altra parte, il desiderio, altrettanto potente, di confezionare qualcosa che permetta di ingannare questo dio e le sue regole, andando oltre i limiti che ci vengono imposti, alla ricerca continua di una perfezione e di un infinito di cui sentiamo costantemente la mancanza.