Una beffarda danza

 

Fulvio Cattaneo

25-04-2005  

La scena dei drammatici momenti finali della partita di pallacanestro avrebbe continuato a presentarsi a lungo ai miei occhi, facendomi provare un acuto malessere. A volte, invece di riviverla soltanto, avrei anche cercato ossessivamente di cogliere il gesto con cui, maldestramente, potevo avere determinato l'esito di quegli ultimi istanti. Poi, con l'immaginazione, credendo di averlo individuato, lo avrei rifatto nel modo corretto.

Al termine di questa dolorosa finzione, senza la possibilità di sottrarmene, il guadagno sarebbe stato però un disagio ancora più profondo.

Nell'effervescente vigilia della gara del torneo scolastico, nella classe III B della media inferiore c'era fiducia nella vittoria contro la III A, nonostante il pronostico non ci fosse favorevole. Ci attendevamo quindi un incontro duro, quale poi sarebbe stato, ma non immaginavamo lo svolgimento che lo avrebbe caratterizzato, sfuggendo anche alla più fantasiosa delle previsioni.

Infatti, la partita parve già segnata quando scendemmo in campo a ranghi incompleti, privi di un giocatore, a causa di alcune concomitanti e forzate defezioni dell'ultima ora. I sogni di vittoria che avevamo accarezzato fino a poco prima furono bruscamente sostituiti dalla incredulità e dalla rabbia.

Mancavano pochi minuti all'inizio di quello che si prospettava come un impari confronto e nella piccola palestra la tribunetta si stava ancora riempiendo di tifosi. Da qualche punto di essa si erano già levati fischi, grida e battimani di rito. Per il loro carattere rapsodico e per i toni contenuti sembravano una messa a punto, che precedeva la loro produzione concertata. I nostri tifosi erano facilmente riconoscibili, in quanto tentavano di incoraggiarci con applausi timidi e qualche debole fischio che tradivano la loro preoccupazione.

I muri della palestra terminavano in alto con delle lunghe vetrate, da cui filtrava la luce pomeridiana di un caldo sole di primavera. Questa tagliava in due il campo da gioco, giungendo obliquamente rispetto a esso e illuminandone la parte più estesa, di cui faceva quasi brillare il legno lucidissimo che la rivestiva.

I foschi pensieri che mi stavano occupando la mente risucchiarono nel loro circolo l'immagine della ragazza con i capelli rossi della sezione C, che il giorno prima, in un momento di incontenibile entusiasmo per l'approssimarsi della gara, avevo avuto il coraggio di invitare alla partita. Lei, con mia grande sorpresa, aveva accettato. Ora, per le circostanze a noi sfavorevoli, mi stavo pentendo di averlo fatto.

Deluso e amareggiato, stavo disponendomi in campo con gli altri, quando i nostri avversari si dissero disponibili a cederci un loro giocatore. A questa proposta reagimmo dentro di noi come a un'offesa. Rifiutammo orgogliosamente, senza prenderla in considerazione neanche per un momento, evitando quella che ci pareva un'umiliazione.

La partita poteva incominciare. Nella tribunetta, ormai al completo, il tifo seguiva lo spartito. Ciò che di esso si percepiva però era tutto a favore della squadra avversaria. L'incitamento dei nostri compagni di classe, se non era addirittura cessato, era stato evidentemente sovrastato.

Quando l'arbitro, dal centro del campo invaso dalla luce del sole, ebbe lanciato in aria la palla per iniziare il gioco, questa scomparve per un istante, nascosta dal fascio luminoso proiettato dal sole stesso.

Nelle prime fasi riuscimmo a contenere il vantaggio in cui fin da subito gli avversari si erano portati. Quello che successe in seguito non riesco a spiegarlo, se non con l'ipotesi che la ferma risoluzione di giocare in inferiorità numerica, piuttosto che sopperirvi col mortificante innesto in squadra di un avversario, abbia agito come una droga sul nostro rendimento, moltiplicando le energie.

Sentivamo la fatica, che col passare dei minuti sarebbe diventata sempre più pesante, ma tuttavia la rabbia e l'esaltazione agonistica che avvertivamo ci facevano attingere a forze residue che parevano inesauribili. L'intervallo, che consentiva di rifiatare, fu accolto comunque come una benedizione.

Nella ripresa, quando il sole disegnava su una metà del campo solo un triangolo di luce, stavamo ancora tenendo testa agli avversari, innervositi dalla nostra inaspettata reazione e per non riuscire a controllare agevolmente la partita come avevano creduto.

Giocavamo in un frastuono incessante. Per le ridotte dimensioni della palestra le urla sempre più forti e i cori dei tifosi, anche dei nostri che avevano preso coraggio, rimbombavano e venivano amplificati, coprendo spesso i rumori dei rimbalzi della palla e le grida in campo. Gli incitamenti delle due fazioni si fondevano a tratti in un fragore indistinto.

Lo svolgimento della gara intanto, che ci vedeva sempre in svantaggio di pochi punti, lasciava ancora aperto lo spiraglio di una rimonta. Questa parve profilarsi a qualche minuto dal termine, grazie anche a una serie di errori dei nostri avversari.

In un rocambolesco e concitatissimo finale, il margine di distacco, dopo essersi gradualmente ridotto, divenne di un solo punto. Tale rimase quando l'arbitro, a tempo ormai finito, fischiò due tiri liberi per noi. Il peso di quei tiri, che se realizzati potevano significare l'incredibile vittoria, sarebbe gravato su di me.

Mentre stavo per eseguirli, i fischi contro la nostra squadra, acutissimi fino a poco prima, mi giungevano molto indeboliti, come se fossi racchiuso in un involucro invisibile che me li attenuasse. La palla, lasciata la mia presa, seguì una traiettoria a parabola assai arcuata e andò a sbattere sull'anello che bordava il canestro, ricadendo poi fuori di esso.

Ci fu il disappunto dei compagni, che subito dopo però mi incoraggiarono. Cercando di stare calmo ritentai il tiro per il pareggio e scelsi, per maggiore sicurezza, di sfruttare il rimbalzo sul tabellone.

Intorno a me ci fu un irreale silenzio, che non so se corrispondesse a quello che stava realmente accadendo. La palla colpì il tabellone, facendone vibrare la struttura di sostegno e venne respinta sull'anello, da dove, forse per la troppa forza impressa al tiro, schizzò di nuovo verso l'alto.

Quando ridiscese però, quella maledetta e stupida sfera terminò la sua breve e beffarda danza, sfiorando soltanto il canestro.