La punizione nell'antica Grecia


Maria Cristina Giussani

Ogni società elabora modelli di comportamento. Nel mondo arcaico greco, questi erano suggeriti dalla poesia epica, strumento di trasmissione del patrimonio culturale e modello di formazione delle nuove generazioni. La prima fonte alla quale attingere per tentare di ricostruire il concetto di pena presente nel mondo greco è costituita dai poemi omerici.

La società greca, rispondeva essenzialmente a due principi: la vergogna e la colpa. Gli antropologi parlano di “civiltà di vergogna” e di “civiltà di colpa”.

Con“civiltà di vergogna” si indica una società regolata da modelli positivi di comportamento. La mancata adesione a questi modelli aveva come conseguenza la vergogna nel suo duplice aspetto di sanzione interna (psicologica) ovvero la perdita dell’autostima, ed esterna (sociale) consistente nel biasimo della comunità e, al limite, nell’emarginazione.

Le regole di comportamento, nella società greca, erano acquisite e osservate attraverso l’interiorizzazione di quella “voce del popolo”, che, a seconda dei casi, riconosce le virtù o sanziona i comportamenti che ne derogano. La poesia, con il canto delle gesta degli eroi e il commento della voce del popolo, costituisce dunque uno strumento di formazione del cittadino greco e di identificazione con gli altri membri del gruppo.

Omero, sommo esponente della poesia greca, ce ne dà un esempio  raccontando di Ettore, il quale nel momento in cui teme di non riuscire a condurre i Troiani alla vittoria, esprime il dolore per la duplice vergogna che cadrà su di lui.

“Ora che ho rovinato l’esercito col folle errore,
ho vergogna dei Teucri e delle troiane lunghi pepli
non abbia a dire qualcuno più vile di me:
Ettore ha rovinato l’esercito, fidando nelle sue forze.”

Una delle ragioni per cui nella poesia greca gli errori degli eroi vengono spesso imputati a forze esterne, ad esempio alla volontà degli dei, consiste proprio nel bisogno di conservare integro il mito e la funzione pedagogica dell’eroe.

Con “civiltà di colpa”, ci si riferisce ad una società regolata dalla imposizione di divieti collegati all’intervento divino. Gli dei ritengono offensivi e non tollerano i comportamenti che, violando le regole religiose e sociali riconducibili al loro ordine, ne mettono in discussione la superiorità.

Fra i mezzi di controllo di cui dispone la società greca, uno è la vendetta: in caso di omicidio, era di fatto “consentito” rispondere con la “vendetta” privata. A fronte di un omicidio era consentito ai membri del gruppo di riferimento della vittima, di uccidere l’assassino. L’omicidio, nei poemi omerici, era un atto che provocava la reazione violenta di persone legate al morto da un rapporto di consanguineità, ma che poteva essere anche di appartenenza a un gruppo assai più vasto di quello familiare, legato al defunto da una “soliditas”, in nome della quale l’uccisione era vissuta come un’offesa, da cui il dovere di esercitare la vendetta sull’uccisore o su un membro del suo gruppo. La vendetta era concepita come un dovere morale e sociale, mentre era considerato ignominioso il comportamento di chi vi rinunciasse.

Odissea, 1, 298-302:

Non senti che gloria s’è fatta Oreste divino
fra
gli uomini tutti, uccidendo l’assassino del padre,
Egisto ingannatore, che il nobile padre gli uccise?
Anche tu caro, poiché bello e aitante ti vedo,
sii forte, che ci sia chi ti lodi ancora fra i tardi nipoti.

Siamo nel primo canto dell’Odissea, Atena dice a Telemaco che, quando conoscerà la morte del padre, dovrà vendicarsi, come Oreste nei confronti di Egisto, acquistando gloria eterna.

Le funzioni della vendetta, erano essenzialmente tre:

L’omicida poteva evitare la vendetta in due modi: andando in esilio o, in alternativa, pagando al gruppo del morto una somma di denaro o una quantità di beni. Solo il pagamento della somma, tuttavia, era idoneo a sanare l’offesa. Quando, pur non costretto, il gruppo dell’ucciso avesse accettato la somma, la vendetta non era più consentita e il ricorso alla medesima era da considerarsi riprovevole e legittimava la ritorsione della vittima.

Nella Grecia di Omero non sono rintracciabili i concetti di crimine o di sanzione. Esiste piuttosto una forma di amministrazione della giustizia cittadina, anche se è controverso a chi fosse attribuita e quali le questioni sottoposte ad esame. Vi sono sul punto riferimenti diversi: nel periodo miceneo, la “giustizia” veniva esercitata dal sovrano, dal “tiranno”, mentre,  con la nascita della polis, essa veniva esercitata dal basileus, una sorta di giudice – pacificatore, delegato a risolvere i conflitti dagli stessi membri della comunità. Accanto al basileus, esisteva un collegio giudicante composto dagli “anziani”, celebrato nella scena processuale scolpita sullo scudo di Achille: il tribunale degli anziani interviene nel corso di un episodio di rappresaglia, su richiesta di chi la sta subendo.

Abbiamo detto che la vendetta viene meno col riscatto, pertanto, se il verdetto degli anziani è “la somma è stata pagata”, i parenti del morto non possono più usare la forza, pena la controvendetta.  Se, il verdetto è “la somma non è stata pagata”, il tribunale riconosce la legittimità della vendetta, ed è questo il passaggio importante, la condotta autorizzata dagli “anziani” non è più una vendetta privata, ma uso legittimo della forza, da parte di un “agente socialmente autorizzato” rappresentativo del gruppo cui appartiene la parte lesa.

 

Per la prima volta, nel mondo greco postmiceneo accanto alla sanzione della “vergogna”, la collettività interviene per imporre l’osservanza di una regola, ma, a differenza della vendetta privata, l’uso di questa forza è “pubblicamente” riconosciuto: non si tratta di pena nel senso moderno del termine, in quanto manca l’accertamento giudiziale del delitto. La pertinenza dell’imputazione non è posta in discussione, bastano le  affermazioni della famiglia della vittima!

Il momento storicamente successivo a quello della poesia epica, è contrassegnato dalla Legge di Draconte (VII secolo a.C.) che segna una rivoluzione profonda: l’inosservanza delle regole di comportamento vincolanti non è più sanzionata dalla vendetta, ma dall’applicazione delle pene stabilite dalla città. Nella polis, l’antica prassi della vendetta veniva via via  regolata e sottoposta al controllo pubblico.

La legge di Draconte fu il primo intervento legislativo in materia di omicidio di cui abbiamo notizia sicura, anche se fu preceduta da una secolare attività di tipo religioso, i cui principi costituirono il fondamento ideologico della legge in esame. La Legge di Draconte sull’omicidio, introdusse molte novità, fra le quali quella secondo cui l’omicidio dovesse essere sanzionato con pene diverse a seconda del diverso atteggiarsi della volontà colpevole: se l’omicidio era premeditato, la pena era la morte; nei casi di omicidio non premeditato o involontario la pena, era l’esilio; nel caso di omicidio legittimo (precursore della nostra legittima difesa) nessuna sanzione era disposta. L’omicidio diventa reato nel senso moderno del termine, la pena è stabilita dalla legge ed è applicata in seguito all’accertamento della colpevolezza da parte di tribunali, istituzionalmente competenti per materia (Il tribunale dell’Areopago, che doveva giudicare gli omicidi premeditati e il tribunale dei Cinquantuno, che dovevano giudicare tutti gli altri omicidi).

Rispetto al periodo precedente, la situazione è significativamente mutata. Lo Stato, da elemento presente, in veste di “controllore” dell’uso della forza esercitato dalla parte lesa, diventa unico titolare del diritto di usare questa forza. E l’omicidio, di conseguenza, da comportamento che provoca la reazione del gruppo della vittima (sia pure controllato dallo Stato), è espressamente vietato e punito con la pena dell’esilio.

Siamo di fronte ad una vera rivoluzione rispetto alla consuetudine della vendetta privata (incontrollata prima, controllata poi, infine legittimata dallo Stato).

Attribuire all’esilio il significato di pena (e non più di fuga dalla vendetta), comporta l’affermazione del principio secondo il quale chi uccide un omicida in esilio deve essere punito come chi uccide un ateniese.

Nella polis era ancora prevista la messa a morte, ma, solo in alcune ipotesi previste e regolate dal diritto.

La precipitazione, recepita in molti diritti cittadini, in origine era un’esecuzione sacrale, riservata a coloro che avevano offeso gli dei, successivamente viene utilizzata per eseguire sentenze capitali per reati politici.

La cicuta viene introdotta sul finire del V secolo ad Atene come nuova forma di esecuzione, prima, come strumento di eliminazione dei nemici politici”in sordina”, poi, come esecuzione di condanne a morte pronunziate nel rispetto della legge. Importante sottolineare che la cicuta era un’alternativa concessa solo ai condannati per crimini politici o per empietà. La “dolce morte”non era per tutti, ma fu quella di Socrate.

La lapidazione, viene invece esclusa dai modi di esecuzione di Stato, perchè le sue caratteristiche, mal si adattavano ad assicurare la pace sociale cittadina.

Mi sembra importante, a questo punto, riflettere sul significato di pena nel mondo greco. Non esisteva una pena come la intendiamo oggi (e anche oggi è molto difficile attribuire al concetto di pena un unico significato), pur tuttavia, mi sembra interessante fermare l’attenzione sul tipo di controllo sociale allora in uso.

Il mondo greco arcaico era dominato dalla paura del giudizio degli dei e della riprovazione della società, la quale trasmetteva, a sua volta, valori “eroici”. Questi valori, se interiorizzati, alimentavano il senso di appartenenza alla società, inibendo i comportamenti negativi o “antieroici”.

Importante sottolineare l’attualità di questa considerazione. Il fatto di “deviare” dalle regole è spesso legato proprio al non riconoscersi nei valori proposti dalla società e recepiti come imposti e, quindi, alla pulsione di trasgredire… per sfida, per affermare la propria autonomia, la propria, in un certo senso, unicità.