Verbale dall'incontro sulla punizione
con il prof. Marinucci e il prof. Viganò

 

Livia Nascimben

21-03-2005  

All’incontro di oggi partecipano anche il professor Marinucci e il professor Viganò, docenti di Diritto penale alla facoltà di Giurisprudenza.

Il gruppo ha inizio con la lettura dello scritto di Marcello, Il senso della pena.
Seguono i commenti allo scritto.

Armando: Marcello, secondo me, esprime il desiderio di dare un senso alla pena. Io non so che senso dare al carcere, qui trovi poco di ciò che cerchi e vorresti dare a te stesso.

Borasio: Marcello esprime rabbia e il suo inno alla libertà.

Eric: Nello scritto colgo un profondo senso di tristezza e l’importanza delle piccole cose che ti mancano quando sei recluso, come una coda nel traffico. Mi sembra che il tentativo di dare un senso alla pena contrasti con il sentimento con cui si subisce la detenzione; è difficile riconoscere valida la pena che stai espiando. La pena non si elimina e diventa importante riuscire a darle un senso attraverso delle attività che puoi fare in carcere.

Armando: Accetto la condanna per il reato compiuto, ma non che mi venga detto che gli anni di galera mi sono stati dati per il mio bene, in questo caso vivo un insulto. E’ difficile cogliere il senso della pena, occorre un lavoro enorme. Quando sono entrato in carcere sentivo di camminare su un’autostrada bella larga, forte delle mie sicurezze, il gruppo invece mi ha dato delle insicurezze.

Aparo: In cosa consiste la fortuna di cui parla Marcello? La crescita di capelli procede in parallelo con la crescita dell’intensità delle relazioni. I capelli che stanno crescendo che ruolo giocano rispetto alla fortuna?

Eric: In carcere ho ricevuto molte mortificazioni: le frequenti perquisizioni, lo stare chiusi, il non essere responsabilizzato… con la sensazione di essere stato preso e buttato in questo posto. Svolgere attività invece è stato positivo. Ma in generale non ho mai sentito di avere obiettivi raggiungibili qui dentro, se non speranze nella mia mente senza appigli nella realtà, e ciò fa provare rabbia.

Sento l’importanza che persone fuori si interroghino sul senso della pena, sento che ciò apre spazi per ragionare insieme. Le attività ti danno lo stimolo per riflettere sui desideri e sugli strumenti che non hai usato per realizzare ciò che hai sempre voluto ma che non sei riuscito a raggiungere. La detenzione non piace a nessuno, cosa si può fare perché sia utile? E’ difficile arricchirti di quello che la pena significa se non hai un legame affettivo con chi ti punisce.

Marta: Lo scritto di Marcello mi ha fatto pensare a me stessa, al fatto che lasciare il volante della macchina a qualcuno che non sia io stessa mi fa paura, come se l’altro potesse rovinare la mia crescita. Condividere ciò che si vive con qualcuno a volte induce la paura della dipendenza, col rischio di aprire lo sportello della macchina e buttarsi giù.

Armando: Dallo scritto di Marcello emerge la consapevolezza di stare crescendo, di potere fare cose diverse dal reato e mi rimanda ad un viaggio, ma non un viaggio in salita, il viaggio di uno speleologo che spesso trova nelle grotte cose che non gli piacciono: io spesso sono riluttante a vedere le mie debolezze. Non credo che il carcere debba insegnare cosa si deve e non si deve fare, credo debba aiutare a far scoprire ad ognuno le proprie capacità e ad avere maggiore coscienza delle cose. Il gruppo, proprio per questo, alimenta il dialogo tra carcere e società.

Massimo: Il percorso indicato da Marcello tocca diverse tappe: la pena, la possibilità di vivere le proprie emozioni e la scoperta degli obiettivi. La fortuna secondo me consiste nel sapere godere della libertà degli altri.

Borasio: La fortuna di cui parla Marcello è l’intreccio e la costruzione di relazioni di cui prima non godeva e da cui prendeva le distanze. La fortuna si costruisce, non è un’entità astratta.

Eric: La fortuna per me è trovare il modo di coltivare le tue ambizioni anche se non hai pari opportunità rispetto alla maggioranza; nella povertà trovare la forza di essere, più che di avere.

Aparo: Ricordo che in ogni individuo sono presenti spinte e controspinte ad agire: la buona volontà ad andare avanti e la fortuna non sono sufficienti a procedere.

Enzo: Se in carcere non riesco a trovare la motivazione a vivere la vita, allora non avrò guadagnato nulla. Frequentando la scuola qui, mi sto costruendo il senso della mia galera.

Prof. Viganò: A Eric vorrei chiedere verso chi provava rabbia una volta uscito dalle scorse carcerazioni e come la incanalava.

Eric: Una volta fuori ho vissuto l’ingiustizia di non trovare qualcosa di diverso da ciò che avevo lasciato, anche se era comprensibile che il mondo non si prendesse cura delle mie disgrazie e comprendesse i miei reati. Non ho avuto una situazione familiare facile, avevo una scarsa capacità di fare fronte alle cose e tanta rabbia verso me stesso per non essere stato superman. Dare e prendere affetto credo sia fondamentale per evolversi. Oggi ho meno rabbia perché ho ricevuto più affetto, cultura e intelligenza dagli altri e se questo non servirà quando sarò fuori è perché ci avrò messo del mio a fare andare male le cose.

 

Prof. Marinucci: Divido il mio intervento in diverse parti.

  1. La Costituzione parla di funzione rieducativa della pena. Realisticamente la pena mira a nuocere il meno possibile, a questo scopo sono stati introdotti, ad esempio, i permessi premio che permettono di fare sentire meno lo strappo tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere la pena.

  2. La storia della pena e dei diversi sistemi punitivi è la storia di continue abolizioni: prima era contemplata solo la pena di morte, poi si è presa la direzione di diminuire il male inflitto. Le pene sono meno dure ma comunque desocializzanti.

  3. Qual è l’atteggiamento della società che vuole la punizione? Di fronte a reati contro interessi collettivi c’è poca reattività sociale perché il cittadino non si rende conto di essere vittima o potenzialmente tale. Invece, di fronte a reati contro beni individuali si attiva un processo di identificazione con la vittima che porta le persone a sentire il bisogno della pena.

  4. La fortuna, come ha detto Eric, è l’essere entrato in un progetto perché il carcere porta alla perdita della capacità di autodeterminarsi.

 

Marta: Lo scritto di Marcello si collega allo scritto di Fabio, Desiderio di responsabilità: arriva il momento in cui ci si rende conto che quelli che sembravano dipinti alle pareti sono porte e finestre da cui potere uscire e fare entrare la vita.

Tirelli: Il non senso della pena è contrapposto, nello scritto di Marcello, alla possibilità che la pena abbia un senso, essendo aumentate le relazioni e diminuita la sensazione di sentirsi prigionieri di se stessi.

Massimo: Occorrono risorse, che ci siano più persone a mettersi in gioco, è necessario un confronto affinché la pena realmente serva.

Aparo: Nello scritto di Marcello si parla di relazioni di potere. Non può esistere una pena senza il potere di chi l’assegna. Tra chi detiene il potere di assegnare una pena e chi commette reati esiste di solito un solco profondo, un solco che quasi sempre la pena divarica ancor di più. Chi commette reati ha un rapporto problematico con le figure che incarnano l’autorità; con la punizione il rischio è che il senso di divaricazione fra sé e il potere si estenda al rapporto fra sé e le altre persone della società. Il nostro obiettivo è fare in modo che non venga alimentata la frattura che separa il detenuto dalla collettività.

Spesso i detenuti che non conoscono bene l’attività del gruppo temono che la riflessione sul rapporto con l’autorità significhi tradire se stessi e genuflettersi di fronte al potere, ma il nostro obiettivo è tutt’altro: è cercare di fare in modo, attraverso il lavoro collettivo, che il senso di rottura tra il detenuto e il potere non diventi frattura tra Walter e Livia, tra Enzo e i suoi figli. L’unica strada affinché la pena non frantumi ulteriormente la comunicazione fra condannato e società prevede che vengano investite delle risorse per l’evoluzione del condannato e della sua motivazione a costruire con gli altri cittadini.

Walter: Non so più capire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, se la condanna fa male o se posso trovare delle coordinate positive. Sento che mi si vuole responsabilizzare, ma quando meno te lo aspetti arriva il morso.

Massimo legge la Lettera al padre, uno scritto ispirato al quadro di Masaccio, La cacciata dal paradiso. Seguono un mosaico di brevi opinioni, riflessioni e immagini.

Fabio: Mi sento irritato dalla storia di Adamo ed Eva: perché mettere la mela e poi dire di non mangiarla? Perché sono messo nella condizione di sbagliare?

Marta: Nello scritto emerge una richiesta: ho bisogno che tu tenga un contatto con me.

Massimo: Soprattutto la richiesta di essere visti come uomini, suscettibili di evoluzione.

Livia: Mi colpiscono due cose: il desiderio di onnipotenza del figlio e la richiesta di non essere lasciato solo perché i fantasmi non prendano il posto del padre. Mi viene in mente la Lampada di Aladino: la brama di onnipotenza di Jafar si traduce nel diventare prigioniero della lampada e non in un’evoluzione di sé e della capacità di raggiungere le proprie aspirazioni.

Eric: La punizione serve ma non deve mancare l’accompagnamento alla comprensione del perché della punizione; ci vuole qualcuno che aiuti ad evolvere, un padre in grado di rispondere ai perché del figlio.

Nicola: Colgo la paura del distacco tra chi viene punito e chi punisce: puniscimi ma non abbandonarmi!

Marcello: Se non ci fosse la mela io mi incavolerei, la mela rappresenta la volontà e la capacità di scegliere; se non ci fosse la mela non avrei la possibilità di scegliere, né potrei acquisire la capacità di scegliere tra il bene e il male.

Prof. Marinucci: L’uomo è stato punito perché aveva osato conoscere. Ulisse, nell’ultimo canto dell’Odissea, tornato dalla moglie le dice che vuole andare a cercare ancora: è preso dall’ansia della conoscenza!

Walter: La mela doveva essere mangiata, perché l’uomo doveva scendere dal paradiso, spinto a fare, a conoscere.

Danilo: La vicenda della cacciata dal paradiso per me rispecchia un modello educativo attuale.

Prof. Viganò: La richiesta dell’uomo è una richiesta d’amore, una richiesta di riconoscimento della propria dignità di persona; la rivendicazione di qualcosa che ci spetta, il non essere lasciati soli.

Aparo: L’uomo chiede a Dio il favore di non essere lasciato solo ad alimentare il fantasma dell’onnipotenza. Il reato è un abuso di potere sull’altro e un atto di onnipotenza. Il figlio non chiede che venga annullata la trasgressione, è consapevole di avere trasgredito e che ha davanti a sé una vita da sudare, ma sa che se viene lasciato solo con la brama di onnipotenza, sarà difficile non sbagliare. La libertà non consiste nel diventare come Dio, ma nell’avere degli strumenti e qualcuno accanto con cui elaborare la fantasia che tutti gli uomini hanno di raggiungerlo.

Silvia: Lo scritto di Massimo mi ha fatto venire in mente un bambino che chiede al padre di svolgere la sua funzione di padre e che, nello stesso tempo, sente la responsabilità di aiutarlo a svolgere bene il proprio ruolo.

L’incontro finisce con l’invito al professor Marinucci e al professor Viganò di tornare.