Dario Varin

Docente di Psicologia dello sviluppo
Università Statale MilanoBicocca

 

A cura di G. Mentasti, A. Dosso Intervista sulla punizione Le altre interviste

 

Ci dica 5 parole che lei può associare al termine “punizione”.
Regole, trasgressione, efficacia, modi, tempi.

 

Ci può parlare brevemente di una punizione che ricorda di aver subito?
Una volta che pioveva sono andato in giro con la mia bicicletta nuova: mio papà mi picchiò perché rischiavo di fare arrugginire una bicicletta nuova!

 

E lei ha mai punito qualcuno?
Sì, qualche volta ho punito i miei figli, uno sculaccione qualche volta quando erano piccoli; più che altro rimproveri verbali.

 

Di solito si punisce un comportamento, ma quali sono le costanti dei comportamenti che vengono puniti, quali sono gli atteggiamenti che di solito accompagnano il comportamento che si ritiene di dover punire?
Un comportamento di arroganza, che lascia intendere senso di impunità, un atteggiamento di menefreghismo; ritengo che si punisca anche lo spirito di opposizione gratuita.

 

Che cosa si prefigge di ottenere colui che punisce?
Dare alla persona la certezza che l’impunità non esiste, che le regole vanno rispettate e che esiste una sanzione qualora con la trasgressione alle regole si rechi danno agli altri.
Fare riflettere la persona sulla inadeguatezza del comportamento.

E far sì che la persona possa rappresentarsi comportamenti alternativi.

 

Cosa rende più probabile che la punizione ottenga l’effetto desiderato? La punizione può sortire a volte l'effetto contrario a quello cercato?
La punizione non dovrebbe mai essere data con rabbia, odio, spirito di rivalsa. Questo è molto importante, perché altrimenti sarebbe irragionevole, irrazionale e avrebbe effetti opposti.

 

Quali sentimenti, quali fantasie vive chi punisce?
Chi punisce spesso ha l’immagine di sé come di un giudice, anche di un giustiziere nel senso più ampio del termine.

 

E chi viene punito?
Chi viene punito ha una immagine di sé come maltrattato, di essere trattati in maniera ingiusta.
Anche se in realtà i bambini sanno discriminare benissimo sulla giustezza delle punizioni e sul rispetto delle condizioni che le hanno provocate.

 

Che rapporto c'è fra punizione e potere?
Il potere spesso punisce in maniera impropria e inadeguata, oltre che molto di frequente e in modo inefficace. Possono comunque esistere separati.

 

Quali obiettivi persegue il potere con la punizione?
Il potere è compatibile con la punizione nell’obiettivo di far rispettare delle norme; nel dovere che qualcuno ha, di fronte agli altri, di farlo usando appunto il proprio potere. L’esercizio della punizione è un diritto, ma soprattutto un dovere di cui si deve rispondere agli altri; in modo che i diritti altrui non vengano lesi.

 

Pena e punizione: trova che esistano delle differenza rilevanti?
La punizione esiste da quando esiste l’Uomo, a differenza della pena in termini giuridici; questa è una espiazione inflitta in rapporto alla gravità della violazione. La pena ha caratteristiche e rientra in un contesto semantico di tipo giuridico. Ci sono anche delle analogie, indubbiamente, una zona comune.

La pena rispecchia un complesso di norme formali, anche se queste possono essere applicate in maniera propria o impropria. La punizione è un atto che può essere compiuto anche in maniera irrazionale ed è una azione che riguarda più la dimensione del privato che del pubblico.

 

Quali sono le finalità della pena inflitta dalla legge?
La pena, come prima cosa, deve impedire che la persona che ha trasgredito possa continuare le azioni che hanno causato danno agli altri. La “quantità” della pena dovrebbe essere proporzionale al pericolo che la persona rappresenta per il benessere degli altri.

 

Di solito, gli scopi della pena vengono raggiunti?
Per quanto riguarda lo scopo preventivo della pena, non credo che serva a molto; probabilmente la prevenzione va perseguita in altri modi, più efficaci della pena.

Quali motivazioni vivono verso il condannato il giudice che punisce e gli operatori preposti all’espiazione della pena?
Certamente ci sono aspetti ti tipo professionale legati alla propria identità. Il dovere può essere vissuto come compito personale. Poi ci sono aspetti ed elementi più sul versante emozionale, passioni, atteggiamenti, problemi personali. Un giudice non è una macchina e quindi può sbagliare anche in rapporto a ciò che sono le convinzioni ideologiche e i valori.

 

Quale tipo di relazione fra operatori e condannato è più confacente al conseguimento dell’obiettivo evolutivo o rieducativo della pena?
Non certo quello di una applicazione meccanica del principio giuridico
, della legge formale così come è costituita. In primo luogo ci dovrebbe essere una reale contestualizzazione del comportamento e una conoscenza approfondita del condannato da parte del giudice che lo condanna.

E’ inevitabile che ci sia un coinvolgimento emotivo: un giudice deve saperlo controllare, come un terapeuta deve sapere controllare (in una certa misura, poiché nessuno di noi è infallibile in questo) e gestire le proprie emozioni e identificazioni nei confronti del paziente. Così il giudice, con un minimo di equilibrio: perché questo problema può esistere.

 

Una pena che punti alla rieducazione non può prescindere dalla motivazione del condannato. Ma quali strumenti, quali condizioni ritiene che possano attivare tale motivazione?
Anzitutto una esperienza di vita sociale e lavorativa può essere riabilitativa: di questo sono profondamente convinto. Mi viene in mente il caso dei galeotti che sono stati mandati in Australia alla fine dell’800: molti di essi sono successivamente diventati agricoltori e hanno condotto una vita a posto e corretta.

In contesti di privazione della libertà, causata dalla pericolosità sociale, può essere utile un mandato, un obbligo in un certo modo, a lavorare (magari tramite affidamento ai servizi sociali) perché così la persona vive una esperienza lavorativa che può essergli anche mancata. Questo perché tenere rinchiuse delle persone e far sì che non facciano nulla è, da un punto di vista anche psicologico, insensato ai fini della motivazione e della prevenzione.

Il principio riabilitativo del lavoro è sicuramente meglio di quello della privazione della libertà.

 

Parliamo di analogie e differenze fra la punizione nel rapporto genitori/figli e la pena nel rapporto fra figure istituzionali e condannato. Le pare che possa essere utile il confronto fra queste due realtà?
Sì, può essere utile; nel senso che il bambino deve imparare presto che esistono delle norme socialie condivise e che esistono una serie di dispositivi di punizione nei confronti di chi le trasgredisce. Questo è un terreno di analogia.

Ho in mente non delle piccole trasgressioni familiari, ma forme più gravi come il fenomeno del bullismo adolescenziale (in cui effettivamente si può parlare spesso anche di reati).

Esistono anche delle differenze, chiaramente. Molto spesso nella punizione fra genitori e figli può essere previsto il perdono nei casi in cui questo è opportuno; cosa che la Legge molte volte non è in condizioni di fare. Il perdono è importante da questo punto di vista.

La legge oltre ad insegnare il rispetto per le regole (e, per esteso, degli altri che le regole tutelano) dovrebbe anche servire a orientare la persona. Per fare questo però dovrebbe prevedere modelli differenti di punizione: come in effetti fa la famiglia. E questo è un terreno comune.